Parole che non diventano azioni

Gennaro Matino* (February 09, 2015)
La crisi delle agenzie di comunicazione, siano scientifiche, educative, sociali, politiche sta proprio nella distanza tra le parole ingessate, preconfezionate della cultura dell'establishment e la vita concreta della gente. Distanza sottolineata dal presidente della Repubblica Mattarella nel suo discorso di insediamento: «La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotse to risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti».



CAMBIANO le parole, dicono altro rispetto al suono che le trasporta. I giovani e non solo, benché ne dica l'Accademia della Crusca, nell'era della comunicazione digitale, ne inventano a dismisura e il linguaggio parlato ormai è lontano mille miglia dalla grammatica ufficiale.


La crisi delle agenzie di comunicazione, siano scientifiche, educative, sociali, politiche sta proprio nella distanza tra le parole ingessate, preconfezionate della cultura dell'establishment e la vita concreta della gente. Distanza sottolineata dal presidente della Repubblica Mattarella nel suo discorso di insediamento: «La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotse to risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti».


Ci piaccia o meno, il mondo è cambiato e le parole hanno seguito convulsamente il suo cambiamento: chiunque voglia dialogare con il mondo e non restare imprigionato nella sua autoreferenzialità, più che giudicarne o condannarne il mutamento, deve poterlo decifrare, conoscere, imparare la sua nuova lingua. Una crisi di linguaggio che di più investe la Chiesa che senza Parola non può vivere e la parola è imbrigliata nel suo significato, bloccata nel passaggio dal testimone al destinatario, allora bisogna trovare nuove modalità per comunicare il Vangelo. Il rischio è la condanna della Chiesa alla sua irrilevanza, alla perdita di contatto con i suoi stessi fedeli, fino a scomparire del tutto dal loro vocabolario.

 

Bouyer in tempi ormai lontani, eppure attualissimi, scriveva che la Chiesa soffre dell'imperialismo della parola già data, incartata o, piuttosto, delle parole svitalizzate dal loro stesso eccesso. La nausea che l'uomo qualunque avverte per il gergo clericale è una tragedia per l'annuncio del Vangelo.


Il predominio nelle liturgie della parola ecclesiastica su quella vissuta ha reso gli ascoltatori insensibili e diffidenti. I nostri contemporanei, più che parole, vogliono fatti. Per loro il criterio di valutazione delle cose non è il vero, ma l'utile; non il principio astratto ma la sua efficienza concreta. Le nostre città ormai da tempo hanno abbandonato di fatto il cristianesimo, ed è sotto gli occhi di tutti una inarrestabile avanzata di nuovo paganesimo. Non si tratta di un paganesimo falsamente bonario, di chi pensa da cristiano e vive in disaccordo con i principi professati, ma di una vita ispirata a una visione del mondo completamente "originale", che di cristiano non ha più nulla, di chi sente di non dover spar- tire più niente né con la Chiesa, né con il Vangelo. La constatazione del fenomeno obbligherebbe la Chiesa a porsi il problema del suo ridimensionamento costringendola a una azione pastorale meno presuntuosa, meno protesa alle masse che non ci sono più ad aspettarla, ma più umile, più consapevole del fatto che da tempo la societas chistiana non esiste più. Una pastorale che sapesse rintracciare il singolo lontano da piazze fragorose di culto, che chiede sinceramente, senza clamore, ragione della fede credente. Ma così non è.

 

Sarebbe il caso anche a Napoli di rispolverare quel movimento missionario urbano inventato dai preti francesi Godin e Daniel che presero coscienza che bisognava riconquistare alla fede i propri compatrioti. Nel 1830 Dupanloup, molti anni prima della constatazione di quel fallimento, scriveva: «Trentamila sermoni ogni domenica nelle chiese di Francia, e la Francia ha ancora la fede! ». Affermazione dolorosa che vale oggi per l'Italia e per Napoli tanto che dovrebbe provocare anche nella nostra città una riflessione seria sulla relazione tra predicazione del Vangelo e la sua ricaduta nel quotidiano della gente.


Quale Vangelo è stato predicato se a fronte di chiese ancora piene, qualora lo siano davvero, la quotidianità del cittadino napoletano è così intrisa di illegalità diffusa, di dispregio per il bene comune, di furbizia che non racconta la verità evangelica: "Non fare all'altro quello che non vuoi sia fatto a te", ma si lascia sedurre dall'assioma: "Ca' nisciuno è fesso". Conoscere l'uomo, la sua vita, le sue parole non è cosa secondaria rispetto all'annuncio del Vangelo e per questo solo una "Chiesa in uscita" può ancora dirsi capace di comunicare il Vangelo in un mondo ormai irrimediabilmente cambiato. 

Chiunque voglia dialogare con il mondo, più che giudicarne il mutamento, deve poterlo decifrare e imparare la sua nuova lingua.


*Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).


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