Articles by: Nicola f. pomponio

  • Fatti e Storie

    La grande storia dei nostri giorni vista dal basso

     TORINO - L’ultima fatica di Goffredo Palmerini, noto giornalista, Ambasciatore d’Abruzzo nel mondo nonché pubblico amministratore con una più che trentennale esperienza (è stato assessore e vicesindaco della sua amatissima L’Aquila), si caratterizza già dall’appropriato titolo. Si tratta infatti di una raccolta di articoli, con alcuni contributi di altre personalità, compresi tra Agosto 2017 e Marzo 2019, quindi in un periodo in cui la vivacissima attività intellettuale e relazionale dell’autore poteva dispiegarsi in tutta la sua vastità senza i limiti imposti dall’inaspettata pandemia. E’ questo il nono volume di raccolta di articoli che l’autore dà alle stampe. Un volume impreziosito dai bei contributi introduttivi di due tra le più importanti giornaliste della carta stampata e della televisione: Lina Palmerini, che non è parente dell’autore, e Benedetta Rinaldi. 

    Già recensendo il volume precedente sottolineai come l’autore possa essere annoverato nella schiera degli umanisti, per la finezza delle interpretazioni, la costante ricerca del bello, la ponderatezza nel giudizio, l’esuberanza intellettuale mai tralignante in banale curiosità fine a se stessa, il calore che sa instaurare nei rapporti interpersonali. Questo libro conferma tale impressione. Esteriormente il volume è una raccolta di articoli, ma questi articoli trascinano il lettore in una realtà così ricca e vivace non sempre percepibile in ben più paludate iniziative. 

    Almeno tre sono i filoni intorno ai quali si dispiega l’attività di Palmerini: la provincia italiana, le iniziative culturali, l’emigrazione. Sono argomenti strettamente interconnessi che si ritrovano e fecondano reciprocamente anche negli scritti d’occasione. Ciò avviene perché lo sguardo dell’autore intercetta sotto la superficie, talvolta brillante ma talvolta fuorviante, forze e conflitti non sempre percepibili all’esterno. Un esempio è dato dagli articoli sul “Columbus Day”. Nella metropoli del Michigan non sfugge al suo sguardo come alla base del monumento a Cristoforo Colombo “le lastre in pietra bianca del basamento fossero state danneggiate su tre lati” (pag. 216). L’annotazione è dell’ottobre 2018 e indica come l’autore abbia percepito con largo anticipo la furia iconoclasta che sta travolgendo gli USA in un delirio da veri e propri “barbari della civiltà” (come li chiamava Chateaubriand) che pretendono di purificare il mondo tagliando la testa alle statue di Colombo, certo assolutamente non responsabile dei genocidi successivi, a meno che non sia lecito condannare l’inventore della ruota per le stragi del Sabato sera. 

    Ma ciò che preme sottolineare è questa attenzione al dettaglio che caratterizza la prosa e l’attività di Palmerini. La si ritrova in tutta la sua opera. Quando dedica interessantissime pagine all’emigrazione italiana - e abruzzese in particolare - l’analisi parte sempre dal quotidiano, dal vissuto di singoli individui che col tempo e il sacrificio sono riusciti a creare qualcosa d’importante. La grande Storia è sempre presente, ma è declinata, descritta, in un certo senso, “dal basso”. Da chi, troppo debole e piccolo per poter determinare il proprio destino autonomamente in Italia, sceglie la via dell’emigrazione, ma in quella via trova la possibilità di dispiegare le proprie capacità e, quindi, di potersi affermare. Sono tante piccole storie che compongono coralmente, polifonicamente la grande Storia. Per tale motivo questi scritti emanano un fascino e un interesse del tutto particolari. Vi batte una passione, una vicinanza al proprio oggetto che, contenuta all’interno di una austerità e riservatezza tutta abruzzese, si rende manifesta in ogni rigo. 

    Vi è inoltre un altro aspetto: l’emigrazione italiana è sempre messa in relazione con quel mondo provinciale, se non semplicemente contadino, da cui provengono i protagonisti. E’ come se Palmerini attraverso l’incontro con gli emigrati in USA, Canada, Sud America ritrovasse la stessa Italia che si è lasciata alle spalle volando verso di loro. Richiamando il titolo di un suo precedente volume, l’attività dell’autore è esattamente quella di un volo verso lontani lidi avendo sempre ben presenti le proprie radici; laddove ali e radici non sono in contrapposizione ma contribuiscono, insieme, a rendere percepibile l’incredibile, infinita ricchezza di storie, idee, speranze, delusioni che si ritrova nel mondo. 

    Ciò è possibile perché Palmerini da un lato è cosciente, giustamente orgoglioso della propria “identità”, ma dall’altro è consapevole che questa non può, non deve ritenersi l’unica, compiuta, ultimativa verità e quindi è in grado di relazionarsi con spirito libero da dogmatismi e prevenzioni verso quanto è diverso. Vi è pertanto un rapporto diretto, forte tra l’esperienza all’estero e la situazione attuale italiana. I due aspetti sono costantemente richiamati e sono richiamati privilegiando l’ambiente di partenza degli emigrati, cioè la provincia che diventa l’altra grande protagonista del libro. Una provincia ricca di bellezze e di iniziative, tutt’altro che ripiegata su se stessa, come troppo spesso si pensa per un inveterato pregiudizio urbano-centrico, in grado di esprimere una grande vivacità intellettuale. 

    A riprova di questa vivacità ci sono i tanti articoli dedicati a presentazioni di libri, mostre, concorsi che si tengono in località piccole per dimensioni, ma grandi culturalmente. Qui l’attività dell’autore si dispiega sia da un punto di vista “relazionale” sia da un punto di vista intellettuale. Palmerini ha saputo creare nel tempo una vasta rete di rapporti e conoscenze di altissimo profilo (si pensi alla profonda amicizia che lo lega al candidato al Nobel per la Pace 2017, il poeta, saggista e traduttore di origine libanese Hafez Haidar) che partecipando alle iniziative più varie arricchiscono contemporaneamente sia i luoghi di svolgimento sia le persone stesse. E’ questo l’aspetto umanistico più interessante e profondo che emerge dai suoi scritti. In tal modo l’autore può passare con disinvoltura dai grattacieli di New York al barocco di Galatone, dal Venezuela al Salento (per citare solo alcuni dei luoghi descritti) mai con superficialità e sempre con partecipe filantropia, nel senso letterale del termine, cioè “amore per gli uomini”. 

    I premi letterari o le presentazioni di testi cui partecipa diventano occasione di riflessione sui temi a lui più cari, dalla dignità dell’uomo all’emigrazione, dall’importanza del dialogo all’apertura al nuovo, al diverso. In questa visione anche la presentazione di un libro dal soggetto estremamente specialistico come quello del contributo di Paganica (città d’origine dell’autore) alla Grande Guerra è motivo di indagine sul ruolo generale del ricercatore  e dell’intellettuale nel momento in cui Palmerini sottolinea come il libro che viene presentato è stato concepito dall’autore, Fernando Rossi, in modo tale da “rafforzare quel vincolo di valori e di memoria condivisa che costituisce l’essenza stessa d’una comunità, a differenza d’un indefinito aggregato di abitatori d’un luogo” (pag. 84). 

    L’annotazione è significativamente profonda perché fa emergere in un aspetto ritenuto a torto secondario, la ricerca degli storici “locali”, la centralità non solo del lavoro paziente e certosino della ricostruzione di ambienti “minori”, ma anche e soprattutto l’importanza fondante di questo lavoro, fondante di una comunità che non nasce dal casuale vivere in uno stesso luogo ma si sente unita nella condivisione di valori e visioni del mondo comuni. Questo vuole essere un altro esempio del procedere dell’autore. Molti altri si potrebbero indicare, ma l’unico consiglio che mi sento di dare a questo punto è quello di leggere il libro. Una recensione, per quanto accurata sia, e la presente lo è solo molto parzialmente, non potrà mai rendere la ricchezza del testo, tutt’al più può indicarla. Quindi: buona lettura!
     

    Goffredo Palmerini, “Italia ante Covid” - One Group Edizioni, L’Aquila, 2020

     

  • Opinioni

    Il “Gruppo Patrioti della Maiella”

    Il 19 ottobre 1943 in un piccolo paesino dell’Appennino abruzzese arrivarono le SS. Arrivarono in forze sui camion, saltarono da quei camion “come grilli” e si misero a razziare uomini e cose. Una piccola bimba di 9 anni osservava con sgomento la scena mentre, insieme alla madre e alla sorella, fuggiva verso i campi. La guerra era arrivata, brutalmente, a Torricella Peligna, in provincia di Chieti e mentre quella bimba (mia madre) fuggiva, fuggivano anche gli uomini, il vero obbiettivo delle razzie. Tra questi un distinto signore di quarantacinque anni, socialista, ex collaboratore di Giacomo Matteotti a Roma e di Filippo Turati a Milano: l’avvocato Ettore Troilo. 

     

    Sfuggendo ai tedeschi lui e altri si diressero verso un paese già sotto il controllo alleato non lontano da Torricella: Casoli. In questo paese successero due cose che segnarono la nascita della formazione partigiana. Ettore Troilo dopo uno scontro verbale molto acceso con le autorità inglesi (forte, naturalmente, era la diffidenza anti-italiana) ottenne di poter impegnare dei volontari in operazioni antitedesche con materiale bellico fornito dagli Alleati. Poi a Casoli s’incontrarono Ettore e Domenico Troilo; i due non erano parenti ma il secondo, sottotenente della Regia Aeronautica fuggito da Venaria Reale (Torino) all’armistizio e rocambolescamente rifugiatosi nel suo paese d’origine in Abruzzo, Gessopalena (dove vide sua madre assassinata dai tedeschi in una delle tante stragi, quella di Sant’Agata di Gessopalena), aveva le conoscenze necessarie per organizzare una formazione militare. 

     

    Si venne così a creare il nucleo di quindici volontari che, approssimativamente equipaggiati, iniziarono a operare con azioni di ricognizione in un territorio da loro perfettamente conosciuto. Da parte inglese crebbe il riconoscimento verso questi uomini e un lungimirante ufficiale inglese, il maggiore Lionel Wigram (Sheffield, 1907 – Pizzoferrato, 3 febbraio 1944), s’impegnò in prima persona, fino a combattere e morire con loro, per lo sviluppo della “banda”. La storia della formazione è stata ottimamente ricostruita da vari testi. Mi preme sottolineare però alcune particolarità. La “Brigata Maiella” fu del tutto atipica nel panorama resistenziale. 

     

    Vestita con uniformi inglesi, portavano le mostrine e la bandiera tricolore (senza lo scudo sabaudo!), autonoma da un punto di vista operativo, era inquadrata nel II Corpo d’armata polacco del generale Anders; erano e si ritenevano dei militari (erano forniti di regolare tesserino di riconoscimento bilingue, quello di mio nonno di cui porto orgogliosamente il nome è il n. 852) però con una disciplina alquanto particolare dove il massimo della pena era l’allontanamento dalla possibilità di operare sul campo (cosa che non successe mai); vi si entrava e vi si usciva (anche questo non successe mai) liberamente, non c’erano commissari politici, la formazione era antifascista e repubblicana, ma anche i monarchici potevano aderirvi. 

     

    L’operatività militare, delegata a Domenico Troilo in virtù della sua esperienza, si dispiegò in una grande epopea che vide i “lupi della Maiella” (come li soprannominarono, con rispetto, i tedeschi) partire dalle montagne d’Abruzzo e risalire la penisola attraverso le Marche (combattendo a Cingoli, Pesaro, Montecarotto), la Toscana (scontrandosi con i tedeschi a Laterina) e l’Emilia-Romagna (battaglia di Brisighella),  entrare (sostengono gli storici) per primi a Bologna e continuare verso Nord fino a congiungersi il 1° maggio 1945, superando le unità americane, con altre formazioni partigiane ad Asiago! 

     

    In tal modo la “Brigata Maiella” ha stabilito vari primati: unica formazione partigiana a combattere fuori dal proprio territorio d’origine, unica formazione partigiana inquadrata in un esercito regolare, mai nessun abbandono, prima formazione partigiana a cantare “Bella Ciao”. Partiti da Casoli in 15 (tra cui un gigante russo di origine siberiana) alla cerimonia di scioglimento a Brisighella (Bologna), il 15 luglio 1945 la formazione contava ben 1326 uomini con 55 morti, 19 prigionieri (di cui 3 uccisi), 151 feriti di cui 36 mutilati. La metà dei caduti erano contadini, gli altri studenti, commercianti, operai, ex militari, artigiani. Ma l’epopea “maiellina” non finì quel giorno a Brisighella. Ettore Troilo fu l’ultimo prefetto nominato a Milano dal CLN e rimosso, nonostante la strenua difesa che di lui fece Gian Carlo Pajetta, dal ministro degli Interni Scelba il 4 dicembre 1947. 

     

    E fu proprio Pajetta ad accostare nel 1990 la Brigata Maiella ai Mille di Garibaldi che tornavano ripercorrendone la strada ma dal sud a nord. Però Ettore Troilo aveva un altro dono particolarmente diffuso in Abruzzo: la testardaggine. Terminata la vicenda resistenziale si adoperò per venti anni a far ottenere ai suoi uomini quanto Umberto di Savoia, a cui nessuno dei suoi giurò fedeltà, sebbene non richiesto, aveva promesso: la Medaglia d’oro al valor militare. Si dovette attendere il 2 maggio 1965 quando l’allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti, finalmente conferì l’onorificenza rendendo il “Gruppo Patrioti della Maiella”, l’unica formazione partigiana a fregiarsi di questo riconoscimento, per tacere delle onorificenze polacche “Virtuti militari” assegnate a singoli. Oggi due lapidi segnano idealmente la storia della formazione: una a Torricella Peligna ricorda il rastrellamento da cui ebbe origine il tutto, l’altra a Brisighella ricorda il giorno dello scioglimento; in mezzo, idealmente, vi è il sacrario dei caduti a Taranta Peligna (Chieti) visitato nel 2001 da quello che era stato un giovane ufficiale in fuga verso le linee britanniche e passato da Casoli, Carlo Azeglio Ciampi. 

     

    Un’ultima annotazione, ma fondamentale. I “maiellini” possedevano una visione dello scontro diametralmente opposta a quella nazista; la guerra non era fatta con odio, non si doveva odiare il nemico, lo si combatteva, strenuamente, ma non lo si odiava. C’è un episodio significativo. Si svolge sul torrente Sintria, vicino a Brisighella. C’è uno scontro con i tedeschi, un loro sottufficiale resta ferito e i suoi camerati non lo soccorrono perché nella terra di nessuno. Quattro partigiani lo vanno a salvare e uno di loro viene ucciso dai tedeschi. Penso che questo episodio renda ragione del modo di combattere della Brigata Maiella. Questo combattere senza odio ritorna nelle parole di Domenico Troilo (la cui madre, ricordo, era stata uccisa con una sventagliata di mitra in faccia). Allo storico che lo intervistava per scrivere un libro sulla formazione disse: “Che non sia una cosa eroica, perché noi non eravamo eroi” e in tempi in cui la parola eroe è talmente usata da diventare insignificante, questa ritrosia, orgoglio, assenza di retorica è una boccata d’aria pura come l’aria che si respira su quei monti dove tutto ebbe inizio.