“Istituto virtuale” o virtuali “di chiara fama”?

Letizia Airos Soria (October 08, 2007)
Intervista con il prof. Michele Pagano* che occupa una posizione di rilievo nell'ambiente scientifico americano da anni. Idee controcorrente, provocatorie . Un vero attacco alla disinformazione di certi media italiani. Ma non solo, il ricercatore avanza anche una proposta concreta. Verrà presa in considerazione?


Vogliamo parlare di ricerca anche in questo magazine. Ma vogliamo farlo portando all’attenzione dei media e dei lettori della Rete qualcosa di diverso dal solito. Abbiamo scelto di raccogliere infatti nel mondo della ricerca italiana in America testimonianze, proposte e provocazioni che spesso hanno difficoltà ad arrivare a destinazione, nonostante siano molto accreditate le persone che le avanzano.

Cominciamo quindi con Prof. Michele Pagano* (Ellen and Gerald Ritter Professor of Oncology presso il Cancer Institute della New York University School of Medicine) che occupa una posizione di rilievo nella nell'ambiente scentifico americano da anni.


E la prima domanda che gli porgiamo la rivolgeremo un po’ a tutti.

Ha senso parlare di “fuga dei cervelli”?


“In un mondo globalizzato non ha molto significato se vivi e lavori in un Paese o in un altro. Essere italiano e fare lo scienziato negli USA non è diverso da essere brasiliano e fare il calciatore nell’Inter (anche se i calciatori di seria A di solito guadagnano di più).”

Ma la ricerca biomedica è indubbiamente migliore negli USA. No?


“Non c’è dubbio che l’Italia investe molto poco nella ricerca biomedica, sia di base che quella collegata alla clinica. In più non possiede un’industria che guadagna dalla ricerca, e non mi riferisco solo a quella innovativa, ma anche alla produzione di tutto quello che serve per la ricerca. Per cui la ricerca rappresenta in Italia solo una spesa, ma nessuna entrata. Però è anche sbagliato generalizzare affermando che la ricerca in USA sia sempre di qualità.”


Perché?



“E’ un’idea totalmente erronea che crea la nozione che se un ricercatore riesce a trovare lavoro in un’università degli Stati Uniti sia per definizione migliore di chi lavora in Italia.”

Sembra che lei voglia sfatare un luogo comune….


“Si, gli Stati Uniti sono enormi e hanno università prestigiose ma anche altre estremamente mediocri e spesso succede che scienziati di scarso valore trovino una collocazione in queste università di scarsa importanza. Io personalmente conosco tanti italiani, europei, asiatici, ecc. (ed americani, naturalmente) che fanno una ricerca assolutamente di seconda classe negli USA. Questi stessi italiani sono spesso il soggetto di mirabolanti articoli su giornali nazionali e telegiornali della RAI, solo perché svolgono un’attività all’estero, non perché stiano facendo qualcosa di particolarmente meritevole o interessante.”

E’ una provocazione coraggiosa…


“Si forse, a questo punto si potrebbe aprire un discorso sul desiderio di apparire nei media che spesso è inversamente proporzionale al valore scientifico dei suddetti ricercatori. O si potrebbe ricordare che per motivi storici (siamo stati dominati per secoli da straniere) e geografici (siamo un popolo di mare e marinai…) gli italiani sono esterofili. O invece si potrebbe (e forse si dovrebbe) aprire un discorso sulla stampa, incluso quella scientifica, e come questa propaghi informazioni sbagliate e spesso non verificate su scoperte scientifiche e su chi le ottiene.”

Informazione sensazionale quindi…


‘Malinformazione’ che allontana dai media italiani tanti ricercatori seri che avrebbero cose sensate da dire ma che hanno il terrore di essere confusi nel gruppo e banalizzati."



Ma secondo lei esiste una forma di esterofilia scientifica
?


"Assolutamente! Pensi che il governo italiano offre da anni posizioni di professore (chiamate di ‘chiara fama’) ad italiani col solo di titolo di essere professori negli Stati Uniti, senza distinzione tra l’essere professore al Massachusetts Institute of Technology o alla Prairie View A&M University. Così, come paradosso, se uno non ha gli ‘amici’ giusti o il pedigree per diventare professore in una facoltà Italiana (e non è particolarmente brillante) potrà emigrare in una università sperduta nel centro degli Stati Uniti, fare carriera là (non è molto difficile, né molto lungo, dalla laurea ad Assistente può prendere dai 3 ai 5 anni) e rientrare in Italia come professore di ‘chiara fama’, ‘ex-cervello in fuga’.”



Ma allora come possiamo migliorare la ricerca in Italia?



“Tenendo conto della globalizzazione, io penso che si potrebbe (e si dovrebbe) creare un “Italian Biomedical Institute”, un “Istituto virtuale” che, sebbene italiano, comprenda ricercatori italiani sia in Italia che in USA (ed altre parti del mondo). Questa iniziativa di grande utilità e visibilità “sfrutterebbe” le avanzate infrastutture scientifiche che esistono in prestigiosi istituti americani e sarebbe assolutamente meno costosa di qualsiasi progetto che voglia creare un nuovo, tradizionale istituto di ricerca. Questo istituto virtuale verrebbe formalmente riconosciuto dalle università ospitanti (l’affiliazione o il gemellaggio formale di multiple università è un’operazione molto facile negli USA) e facilitare:

1. Scambi tra USA e Italia di Know-how e Tecnologie Biomediche.


2. Scambi tra USA e Italia di Brevetti nel campo biomedico.


3. Periodi di preparazione ed aggiornamento in USA di Dottorandi, Post-Dottorandi e Ricercatori italiani.


4. Raccolti di fondi per la ricerca sul cancro presso la comunità Italo-Americana, possibilmente con l‘aiuto delle ambasciate e consolati italiani in USA.”


In questa intervista lei ha toccato dei punti cocenti e ha fornito delle idee controcorrente. Ma ha anche avanzato una proposta molto interessante… Però come si fa a creare questo “Istituto Virtuale”?



“Io penso che con l’aiuto di validi elementi italiani (sottolineo, validi) presenti nelle università americane, il ministero dell’Università e Ricerca Italiano possa raggiungere questi obiettivi. Chiaramente c’è bisogno di un’interfaccia con un serio gruppo politico italiano che si impegni nel raggiungimento di questa comune iniziativa, la quale sarà di grossa utilità educativa, scientifica e, possibilmente finanziaria, e potrà rappresentare il fiore all’occhiello della ricerca biomedica italiana.”


Apparentemente facile, vediamo se qualcuno prende in considerazione l’idea.




* Michele Pagano

Ellen and Gerald Ritter Professor of Oncology

Director of the Growth Control Program

New York University Cancer Institute

New York University School of Medicine

550 First Ave., MSB 599

New York, NY 10016

Email: michele.pagano@nyumc.org

Website: http://www.med.nyu.edu/pathology/Pagano


Michele Pagano, M.D.

Ellen and Gerald Ritter Professor of Oncology

Department of Pathology and Cancer Institute


Dr. Pagano, an internationally recognized molecular and cell biologist, studies the cell division cycle and how the deregulation of this process contributes to malignant transformation. He received his doctorate in Medicine and a Specialty Diploma in Molecular Endocrinology in 1989 from the Federico II University in his native Napoli, Italy. He was subsequently a post-doctoral fellow at the EMBL, Heidelberg, Germany (1990-92) and a principal investigator and scientific co-founder of Mitotix Inc., Cambridge, MA (1992-96). He joined the NYU School of Medicine in September 1996 and has been the director of the Growth Control Program of the NYU Cancer Institute for the past seven years. He has received many prestigious grants and in 2006 obtained a MERIT Award from the National Cancer Institute in recognition of his outstanding achievements in cancer biology. Dr. Pagano serves as an Associate Editor of Cancer Research and Journal of Biological Chemistry and he is the founding Editor of Cell Division, a journal of the BioMed Central. He has published 127 leading papers and has been invited to present seminars to more than 150 international conferences, universities or research institutions in the USA and abroad
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