La coscienza e l'essere cristiani

Gennaro Matino (February 22, 2016)
Don Milani ci consentirebbe di distinguere fra obbedienza e servitù: si obbedisce alla legge ma non al capo. Non mi sembra che a Napoli sia così.


A Barbiana don Milani insegnava ai suoi ragazzi ad essere cittadini sovrani, a prendersi a cuore il mondo (I care), insegnava loro che solo insieme si esce dai problemi, insieme si può inventare un mondo nuovo: "Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio, sortirne insieme è politica, sortirne da soli è avarizia". Sono passati cinquant'anni da quando il priore scrisse la sua struggente autodifesa: "L'obbedienza non è più una virtù", una pagina profetica che resta una delle più alte testimonianze di etica della cittadinanza cristiana, di cosa significhi essere cristiano e insieme cittadino. "La dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato" è certamente, scrive don Milani, "dottrina di tutta la Chiesa". 



Era il 1965. E quello fu anche l'anno della Dignitatis Humanae, che in coda al Concilio Vaticano II dichiarava: "Gli imperativi della legge divina l'uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente... Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza". Quell'anno si affermava il valore di una radicale laicità di un cattolicesimo che voleva veramente rinnovarsi al fuoco dello spirito, in forza del Vangelo. Se questo pensiero avesse vinto, se i rigurgiti di una restaurazione di un clericalismo avaro di umanità, capace per interesse di parte di legare la libertà dei credenti e rendere infantile la loro coscienza, non avesse preso il sopravvento, la storia del nostro paese, e quella del mondo, sarebbe stata diversa grazie all'influenza della Chiesa. 



Sono tempi in cui ragionare di libertà anche a Napoli non è cosa semplice, non lo è mai stato per un popolo che per utilità di parte ha preferito barattare la libertà con la propria immunità e cedere la propria cittadinanza attiva al prezzo della convenienza individuale. Non è semplice avere una serena visione del mondo che ci riguarda, se si è troppo presi e compromessi da un vivere quotidiano fatto di antiche costumanze figlie di indifferenza, di egoismo, di individualismo esasperato. Non è facile ragionare di libertà quando la legge quotidianamente, pacificamente, indisturbatamente, è offesa. Endemica resta l'illegalità alla quale non si può rispondere solo con misure straordinarie di repressione. Non serve a niente.

 

 La coscienza di un popolo è fondamento del vivere civile e le cause dello sfaldamento della civiltà sono nella cultura di quel popolo. Cultura è anche la religione, anzi per i popoli meridionali la religione è stata la matrice del progetto sociale, un intreccio potente tra potere dello Stato, Chiesa e classe dominante che ha segnato in maniera preponderante il carattere della gente. Schietta, generosa, aperta, ma illegale, sottomessa al capo di turno, ma pronta ad infischiarsene della legge. Obbediente al capo ma non alla legge. 



Allora come oggi, uguale parodia di civiltà, drammatica celebrazione di una farsa, narrazione di un popolo che sarebbe per gesta e attitudine unico al mondo per la sua innata libertà e che oggi ha bisogno dell'esercito per garantirgli una coscienza etica di appartenenza civile. E allora, come uscirne? Don Milani ci consentirebbe di distinguere fra obbedienza e servitù: si obbedisce alla legge ma non al capo. Non mi sembra che a Napoli sia così. La religione, base della costruzione delle dinamiche sociali della nostra città, invece di insegnare e pretendere il rispetto delle leggi, ha preteso il rispetto dei capi. Invece di educare all'imprescindibile valore della legge in sé, come strumento di libertà per non offendere la libertà dell'altro, ha insegnato a rassegnarsi all'ingiustizia subita e ad attaccare, come diciamo a Napoli, il ciuccio dove vuole il padrone. Fatto sta che il motto "Viva il re", chiunque sia, anche un tiranno, andava bene, l'importante era garantire alla Chiesa libertà di culto e dei propri interessi. E nel frattempo la Napoli dei santi e dei miracoli si organizzava ad essere la terra dove, bandita la legge, l'illegalità, anche la più criminale e spietata, poteva diventare, se non endemica, strutturale, tanto che il malaffare dei camorristi o mafiosi cercava protezione e giustificazione addirittura in percorsi pseudo-religiosi. 


Oggi per fortuna tanta Chiesa napoletana va annunciando con coraggio che il Vangelo è altro affare, è autolimitazione dei poteri terreni in forza dell'unico potere di Dio, al quale ogni autorità, istituzione o gente comune, dovrebbe inchinarsi. Siamo ancora in tempo per restaurare il perduto? "Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio, sortirne insieme è politica, sortirne da soli è avarizia". Ho imparato soprattutto che essere cristiano significa non fare agli altri quello che non voglio sia fatto a me. Se Napoli è cristiana, vorrei che non lo fosse solo nelle processioni e nelle congreghe. 

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