Ancora lontana la conversione della Chiesa al linguaggio della contemporaneità

Gennaro Matino* (June 25, 2014)
Il linguaggio della Chiesa non sembra andare oltre il suono, suggestivo per piazze rumorose non necessariamente attente, ma ancora lontano dal superare gli steccati del gergo clericale che per antica presunzione di certe cariatidi ecclesiastiche è ritenuto sacro e pertanto immutabile


SENZA troppa consapevolezza, possono offendere la sensibilità di chi lotta per rivendicare il proprio spazio. La Chiesa, a Roma e a Napoli, avrà ancora libertà di parola se saprà usare con rispetto la sua oltre l'omologazione, se saprà rispettare la differenza dei destinatari. La parola è uno specchio nella quale la comunità si ritrova, difficile da imprigionare in dizionari che altro non restano che semplici istantanee di un processo di trasformazione continuamente in atto all'interno di una particolare comunità. Gli studiosi indicano con politica del linguaggio la missione di rendere comprensibili e accettate le differenze in un contesto plurale per consentire l'unità tra diversi e il passaggio di contenuti da condividere, senza seviziare la cultura di un popolo ma investigandola per scoprirne le ricchezze per poi esercitare un'azione di ingresso con il nuovo che si vuole proporre.

 

La Chiesa non sembra ancora interessata a questo processo. Sostiene da un lato che è suo desiderio comunicare il Vangelo nel mondo che cambia, ma dall'altro non sembra pronta a porre attenzione a questa politica del linguaggio, convinta di poter piegare al proprio idioma i diversi contesti linguisti usando parole da eccesso clericale. La lingua non si inventa per decreto di Stato o per opera dei Concili, si parla e si comprende nel vissuto esistenziale. Non la si può imporre o volerla immutabile, considerato che proprio la differenza degli uomini la renda viva e quindi mutevole. Quando la parola semina, crea nuova vita e per questo inventa futuro. Anche la parola della Chiesa è seminagione di significati, forse ancor di più che altrove, essendo la Chiesa stessa fondata sulla parola e più di altre istituzioni ha bisogno di fare i conti con tale processo di inculturazione.

 

Mestiere difficile quello dell'evangelizzatore che deve equilibrarsi tra fedeltà al Vangelo e adeguamento al destinatario e per questo è indispensabile una sua mediazione che non sia banale o peggio volgare, mentre avanza una rivoluzione linguistica tale che è difficile da prevederne i confini. Restare fermi a ragionare sui massimi sistemi di una fede messa in crisi da un mondo in cambiamento e non sforzarsi con ogni risorsa e opportuna strategia a condividerne il cambiamento, per comprenderlo e anticiparlo, lanciando coraggiose ipotesi, utopie di significato, significa farsi come sempre superare dalle parole nuove e poi semmai, come è successo in passato, rincorrerle, con la speranza di riacciuffarle. La velocità del cambiamento tuttavia non consente riacciuffamenti a buon mercato, riallineamenti con il tempo perduto, perché la rivoluzione in atto ha tempi tali che o si segue il nuovo mentre muta o si resta fuori. Già in passato non fu consentito alla Chiesa cattolica di recuperare quando all'inizio dell'età moderna Gutenberg inventò la stampa e mentre Lutero ne comprese subito la forza e la usò nella sua battaglia per dare nelle mani di ogni credente la Scrittura tradotta nella lingua corrente, i vescovi e i teologi cattolici si struggevano nel dover decidere se valeva la pena lasciar lavorare gli amanuensi o allinearsi con il nuovo.

 

Il Concilio Vaticano II, qualche secolo dopo, scelse di usare le lingue nazionali nella liturgia per riportare il linguaggio al centro della comunicazione della fede. In verità è stata una rivoluzione mancata, il passaggio formale dal latino alle diverse lingue non ha consentito se non superficialmente il dialogo intraculturale, strategico per parlare alla diversità del mondo, passaggio che va oltre la traduzione letterale dei testi, imprimendo al lessico sacro il vissuto concreto della vita. Non basta qualche adattamento pubblicitario per reinventare l'annuncio del Vangelo, qualche battuta bonaria, soprattutto quando a monte non si intravede ancora una conversione della Chiesa al linguaggio della contemporaneità. Molti gridano al nuovo che avanza, grazie al pontificato di Francesco. Dal mio modesto punto di osservazione noto un nuovo benefico entusiasmo, ma il linguaggio della Chiesa non sembra andare oltre il suono, suggestivo per piazze rumorose non necessariamente attente, ma ancora lontano dal superare gli steccati del gergo clericale che per antica presunzione di certe cariatidi ecclesiastiche è ritenuto sacro e pertanto immutabile.


Il passaggio formale dal latino alle diverse lingue non ha consentito il dialogo intraculturale, strategico per parlare alla diversità del mondo.

* Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).


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