La strage di via D’Amelio 20 anni dopo. L’ombra della trattativa stato-mafia sulla morte del giudice Borsellino

Francesca Di Folco (July 18, 2012)
Nei 57 giorni che dividono la morte del giudice Giovanni Falcone dal quella del collega e fraterno amico Paolo Borsellino si snodano verità occultate, legami nascosti, patti forse inconfessabili su cui l’Italia del 2012 ancora non riesce ancora a scrivere la parola “fine”

L’incandescente estate del 1992 ebbe inizio molto prima del 19 luglio, giorno dell’attentato in via D’Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta, con l’omicidio del deputato Salvo Lima a marzo e con l'uccisione del giudice Giovanni Falcone nella strage di Capaci il 23 maggio, lungo l’autostrada Punta Raisi Palermo.

Le vicende di quegli anni, relative agli attentati di Falcone e Borsellino e alle successive bombe del '92 e '93 di Milano, Firenze e Roma, sono state più volte oggetto di indagini che hanno coinvolto diversi personaggi tra cui Vito Ciancimino, Totò Riina, Bernardo Provenzano e alcuni ufficiali facenti parte del Ros dei Carabinieri che avrebbero intentato una trattativa con i vertici di Cosa nostra per fermare l'ondata di terrore come indicato nel cosiddetto "papello", il presunto documento su cui venirono riportati i termini della stessa.

Negli anni successivi però, dopo numerose sentenze di condanna, alcuni pentiti di mafia hanno rilasciato dichiarazioni tali da mettere in dubbio la versione originaria dei fatti, ipotizzando un coinvolgimento di pubblici ufficiali dello Stato in una trattativa con Cosa nostra. Ovviamente la magistratura sta cercando di approfondire tali dichiarazioni che potrebbero essere solo un diversivo nella strategia di difesa dei boss mafiosi.

E’ necessario tornare ancora indietro al 16 marzo del 1992, quando l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, in seguito alle proprie indagini, emise un comunicato, che allertava sulla possibilità di attentati e omicidi politici.

Nel 1992, dopo la strage di Capaci, il capitano del Ros, raggruppamento speciale operativo, Giuseppe De Donno, come egli stesso ha dichiarato, incontrò Liliana Ferraro, direttore del Ministero di Grazia e Giustizia e le parlò dei contatti con Ciancimino, ex sindaco di Palermo, legato al clan dei Corleonesi. La Ferraro avrebbe riferito al suo diretto superiore, Claudio Martelli, all'epoca Ministro di Grazia e Giustizia, il quale chiese a Nicola Mancino, Ministro dell'Interno, come fosse possibile che alcuni uomini del Ros, avessero preso l'iniziativa di contattare tramite Vito Ciancimino, i boss mafiosi, scavalcando la Dia, dipartimento investigativo antimafia, istituzionalmente competente per qualsiasi azione contro la mafia.

Nel 2009, in relazione a tale vicenda, sono stati ascoltati come testimoni anche i politici Nicola Mancino, che ha dichiarato di non averne mai saputo nulla e Luciano Violante, che invece ammise di essere venuto a conoscenza del dialogo tra il Ros e Ciancimino.

Secondo le dichiarazioni rilasciate da Massimo Ciancimino, figlio dell'ex-sindaco di Palermo Vito, la presunta trattativa, avviata da Totò Riina e Bernardo Provenzano all'inizio degli anni '90, sarebbe proseguita almeno fino al 2000, con l'aggiunta della partecipazione dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e avrebbe avuto inizialmente due fasi distinte, prima e dopo le stragi che hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Tale trattativa sarebbe stata siglata con il cosiddetto papello, un documento contenente presunti tentativi di accordo tra elementi di Cosa nostra e pubblici ufficiali dello Stato italiano agli inizi degli anni novanta, che avrebbero dovuto essere soddisfatti per evitare la prosecuzione delle stragi di mafia.

Il contenuto del "papello", le volontà di Cosa nostra, allora comandata dallo stesso Riina, passò attraverso le mani di Vito Ciancimino allo Stato, attraverso dodici richieste: revisione della sentenza del maxi-processo dell’85; annullamento del decreto legge 41 bis; revisione della legge Rognoni-La Torre sul reato di associazione mafiosa; riforma della legge sui pentiti; riconoscimento dei benefici dissociati per i condannati per mafia; arresti domiciliari dopo i 70 anni di età; chiusura delle super-carceri; carcerazione vicino alle case dei familiari; nessuna censura sulla posta dei familiari; misure di prevenzione e rapporto con i familiari; arresto solo in flagranza di reato; defiscalizzazione della benzina in Sicilia.

Al primo elenco di richieste, prodotte direttamente da Cosa nostra, ne venne allegato un altro, l’annullamento del decreto legge 41 bis, che prevede il "carcere duro" per alcune categorie di crimini, tra cui la criminalità organizzata.

L'indagine sulla trattativa Stato mafia ha posto l'attenzione su episodi che riguardano circa trecento provvedimenti giudiziari di carcere duro lasciati scadere nel ‘93, come ha dichiarato l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. Fu revocato l'isolamento a Totò Riina. Inoltre ha coinvolto alcune persone che hanno cercato di modificare l'articolo 41 bis o che hanno avuto a che fare con l'articolo. Calogero Mannino, indagato per la trattativa, ha ricevuto un avviso di garanzia in cui "si parla genericamente di "pressioni" che Mannino avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni", sulla "tematica del 41 bis", il carcere duro che i capimafia "cercavano di far revocare".

Il 20 ottobre 2009 l'ex colonnello dei Ros, Mario Mori, imputato per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra, ha dichiarato al tribunale di Palermo che non ci fu nessuna trattativa tra la mafia e lo Stato, e in una intervista successiva, Mori ha smentito di aver mai ricevuto dalle mani di Massimo Ciancimino, né di nessun altro, il presunto Papello, preannunciando azioni legali in merito.

I misteri della presunta trattativa s’infittiscono se sommati ai tanti depistaggi orchestrati negli anni per sviare le indagini sui mandanti della strage di via D’Amelio, dei quali sono stati accusati per calunnia Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 e altri tre funzionari: Mario Bo, Salvatore La Barbera, Vincenzo Ricciardi.

Tutti sospettati di aver messo su una "Guantanamo d’Italia”, nei confronti di Vincenzo Scarantino e altri due falsi pentiti, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, i poliziotti usarono crudeltà e violenze per far confessare retroscena di massacri mai compiuti. Dopo tanti anni s'indaga ancora su quelle torture ma non c'è certezza sui personaggi implicati: da una parte le confessioni di “pentiti” costruite "a tavolino", dall'altra la difesa di poliziotti che negano tutto.

Nelle parole di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, l'indignazione aumenta ancora di più quando viene menzionata l'agenda rossa fatta scomparire dall'auto ancora fumante di Paolo. Ma chi ha fatto sparire l'agenda del Procuratore negli attimi fatali e concitatissimi del post-attentato? "Sicuramente non la mafia, almeno non direttamente senza complicità istituzionali. Chi ha rubato l'agenda rossa fa parte di quei servizi che chiamano deviati, ma che deviati non sono perché hanno sempre agito in maniera mirata. Un attimo dopo l'esplosione c'era già qualcuno pronto in via D'Amelio a prelevare quella borsa e fare sparire l'agenda che -prosegue Borsellino- rappresenta una pietra tombale messa sulla giustizia".

Divampano le polemiche in questa vigilia del ventennale della morte di Borsellino, facendo intervenire anche il Capo dello Stato, sceso in campo contro la Procura di Palermo.

Il Presidente Napolitano sostiene che l’ufficio della magistratura avrebbe dovuto bloccare le registrazioni dei suoi dialoghi con Nicola Mancino, ex presidente del Csm, Consiglio Superiore della Magistratura: contrapposta la tesi delle toghe siciliane secondo le quali le intercettazioni potevano andare avanti, essere trascritte e distrutte solo quando il Gip e le parti ne avressero preso posizione e deciso che potevano essere eliminate.

La questione è articolata perchè vede Capo dello Stato in attrito con la Procura di Palermo, ufficio all’avanguardia per la lotta alla mafia. E’ di difficile “gestione” perchè i protagonisti al telefono sono Nicola Mancino, vice-presidente della magistratura, già ministro dell’Interno, e l’inquilino del Colle. E’ dura per il tema in discussione, la presunta trattativa Stato-mafia.

E’ complessa per il tema delle intercettazioni, s’intende per “diretta” quella tra destinatario “primo”, il soggetto interessato e il suo interlocutore, mentre “indiretta” nel caso di persona “prima” sulla quale vertono le indagini e l’interlocutore che finisce casualmente nell’intercettazione, ovvero non come oggetto del provvedimento giudiziario, non in qualità d’intestario della registrazione. In questo caso era Mancino ad esser protagonista dell’intercettazione, mentre Napolitano era oggetto di intercettazione indiretta.

Ecco il nodo di questi giorni che in Italia surriscaldano il clima già acceso delle celebrazioni per il ventennale in onore di Borsellino: la procura di Palermo sostiene che nel caso di una intercettazione indiretta non vale la regola del blocco della stessa, ovvero si può avviare senza necessità di autorizzazione da parte della Corte costituzionale. Diverso il punto di vista di Napolitano che ha deciso di ricorrere alla Consulta.

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