“DireNapoli”. La visita del Cardinale Crescenzio Sepe a New York per raccontare il dolore e la speranza della sua città

Ottorino Cappelli (January 07, 2011)
In gennaio il Cardinale di Napoli Crescenzio Sepe sarà a New York, dove incontrerà la comunità italiana e italoamericana, personalità del mondo culturale e artistico, accademici, uomini di fede e laici. Il suo viaggio ha un nome, “Dire Napoli”, e uno slogan: “non chiudere le porte alla steranza”. In questa inervista il Mons. Gennaro Matino, Moderatore della Chiesa di Napoli, autore di numerosi libri, docente di teologia e Vicario per le comunicazioni, ci parla delle ragioni e degli obiettivi di questo viaggio.

E’ d’obbligo cominciare la nostra conversazione dal “dolore” di Napoli, una città nota in tutto il mondo per le sue contraddizioni—commovente bellezza e disumana violenza. Napoli è una città sofferente…

Napoli è una città esagerata. è una società caratterizzata dall’aggettivazione del troppo. Troppo disordinata, troppo calorosa, troppo bella. Troppo di tutto e troppo di niente. E questa sua dimensione esagerata la dice lunga sulla sua particolare capacità di raccontarsi, nel bene e nel male. Non è una città anomima. Non è una delle tante. Per il proprio destino e per la propria storia non può essere uguale. è profondamente diversa, in ogni caso e in ogni contesto. Nella sua milleanaria storia, sempre diversa. Una diversità che l’accomuna a solo poche città nel mondo. Poche città sono così famose per tante cose insieme. Per la musica, la canzone, il paesaggio, il clima; per il fascino della sua arte presepiale e per il sangue di San Gennaro—che tra i tanti flussi sanguigni aggrumati è l’unico con quella particolare consistenza... O per i napoletani che, come gli ebrei, restano napoletani, mai completamente integrati in tutte le parti del mondo dove vanno, perchè c’è una precedenza di popolo nel sentimento di appartenenza. E cosi è più facile che un napoletano emigri in America e impari l’inglese, senza aver mai imparato l’Italiano.

     E Napoli è un troppo esagerato anche di bellezze. Non solo paesaggistiche ma anche storiche, architettoniche, archeologiche. è difficile pensare ad altri posti come Ercolano o Pompei, dove metti le mani tra i broccoli e i friarelli e trovi le anfore. è un troppo esagerato. Se tu giri il mondo, vedi tanti posti dove intorno ad una colonna, unica memoria di qualche passato latino, si costruisce un museo. A Napoli ci sono tante ricchezze ad ogni angolo, che spesso le abbandoniamo. E le mura di Pompei crollano! E’ troppo. Un troppo di bellezze e questo troppo genera paradossalmente un’incapacità di gestirle. Il troppo, nella sua esagerazione, diventa in qualche modo anche ingestibile. Ricordo quello che Goethe diceva nel suo “Viaggio in Italia” quando arrivò a Napoli. Sorpeso dalla sua bellezza paradisiaca e della difficoltà di gestione di questa bellezza da parte dei “diavoli”, che erano i napoletani. E non dimentichiamo come Stendhal, all’inizio del diciottesimo secolo, parlasse di Napoli come di una delle piu’ belle capitali d’Europa… e quando ci fu l’Unità d’Italia disse che “l’unica capitale d’Italia è Napoli.”

      Questo troppo genera passione, sregolatezza, affezione, capacità straordinaria di commozione, ma anche invidia, gelosia, voglia di deportare, di portare altrove. E così Napoli non ha mai avuto, se non probabilmente con un breve flash nel 1700, un “governo di dentro”. Ha avuto sempre un governo da fuori. Ha avuto altri che sono venuti ad occuparla. E la cosa più drammatica è che da quando c’è stata l’unità d’Italia, e poi fino alla democrazia, ancora una volta c’è sato chi è venuto da fuori a prendere, piuttosto che a portare. Sì sono stati portati un sacco di fondi a Napoli, ma la vera tragedia di Napoli è che perfino i napletani, che dicono di amare la loro terra sono stati i primi a tardirla. Perche’ non la rispettano fino in fondo come madre. Questo e’ il dolore di Napoli.

Non dipende da quello che una volta si chiamava il ‘modello di sviluppo’ che è stato scelto per Napoli? Molti dicono che questa città è stata spinta verso un tipo di sviluppo sociale ed economico che non è coerente con la sua cultura e la sua storia, e che questo ha creato contraddizioni insormontabili.

Certo, fin dall’inizo del ‘900, al tempo di Nitti, quando si ragionava se il destino di Napoli fosse turistico o industriale, e si scelse la linea industrialista. Una scelta che ha portato frutti, certamente, ma ha seppellito la vocazione di Napoli, quella di essere particolare, unica, irripetibile, cercando invece di renderla uguale. Anche dopo, la politica dei politici napoletani ha sempre tentato di traghettare Napoli verso il Nord, mentre invece doveva dare a Napoli la sua collocazione giusta di città del Mediterraneo. Questo e’ il punto nevralgico. Per potersi sviluppare davvero, per poter avere un propio futuro, Napoli non puo’ essere uguale, deve essere e mantrenersi diversa. È l’originalità di Napoli che deve sposare lo sviluppo.

      Anche oggi in tempo di globalizzaione Napoli soffre di più perchè la globalizzazione non è patrimonio della sua cultura. Un esempio: la globalizzazione porta il supermcato. Ma a Napoli il supermercato offende la piccola bottega, e la dinamicità di una ecomomia della piccola bottega. Al limite a Napoli puoi avere la casba, in un temrine più ampio il mercatino meridionale, cioè l’individualità che sposa il collettivo—non una collettività imprigionata in una struttura di servizio che rende a pochi e fa danno a molti.

Ci vorrebbe un bel po’ di “coraggio politico” per sostenere queste tesi e tradurle in un programma d’azione concreo…

Direi che il problema della politica napoletana è stata quella di non capire la napoletanita’ della politica. E’ cosi quando c’è stato il terremoto, e si è trasformato in un grande businnes, gli altri hanno capito come fare denaro. Molti sono venuti dal Nord in quest’area doganalmente favorevole, hanno creato dei capannoni in Campania, ma li hanno svuotati di progresso, di prospettive occupazionali, hanno portato al Nord i capitali creati qui, e così è nato il Nord Est. E’ sempre andata cosi.

     C’è un’indagine di Paolo Savona, ecomista e ministro del governo Ciampi, che usa la metafora della pentola bucata. Dice che se è vero che ci sono dei flussi di denaro che dal Nord vengono al Sud, è anche vero anche che l’ottanta per cento dell’economia del Nord è mantenuta in qualche modo dal Sud. Dobbiamo capire se dobbiamo essere solo un luogo in cui importare il benessere degli altri perchè gli altri stiano bene, o cominciare ad avere una politica, un’economia e uno sviluppo “alla napoletana”.

      Ecco da dove viene la necessità di “dire Napoli” in maniera diversa.

Dunque nella vostra iniziativa—“direNapoli”—la città non è solo oggetto di discorso, ma diventa un soggetto che parla al mondo? Parla del suo dolore, ma anche della sua speranza…

Dolore e speranza sono legati. Io sono convinto che Napoli può dire ancora tanto, se elaborerà un proprio discorso. A Napoli ci sono tutti campi d’intervento possibile: problemi enormi, ma esaltanti da risolvere, e di grande soddisfazione per chi li risolverà. E’ per questo che Napoli diventa una sfida mondiale. Qui si anticipano i problemi che altri avranno successivamente. Noi siamo esagerati in tutto. Anche da questo punto di vista.

     Sono convinto che appena troveremo la prima soluzione le altre verranno come catene di un rosario. Una appresso all’altra. Sono convinto che a Napoli i problemi si risolvono risolvendo il primo. Perchè farà rinascere la fiducia e la speranza.

      Il vero problema è mediare il discorso grande con dei risultati piccoli. è possible decodificare il termine dell’insoddisfazione e tradurlo con una parola di speranza a condizione che si raggiungano gradualmente dei piccoli risultati. Anche dei micro-risultati, che dicano che ce la possiamo fare. Sono convinto che proprio Napoli può diventare una sfida per il mondo se capiamo che nel tempo della globalizzazione vale la pena essere singoli, che nel tempo della complessità vale la pena essere semplici. Che nel tempo della massificazione è possible essere individuali, che nel tempo della parola unica ci sia invece la parola diversa. Credo che dovremmo imparare ad offrire al mondo la nostra storia come una storia possible, che valga anche per altri tipi di contesti urbani. Le periferie che avanzano al centro della città, la non integrazione tra alta Napoli e bassa Napoli, l’occupazione, la spazzatura, la delinquenza, la legalità, la corruzione—e nello stesso tempo la famiglia, l’accoglienza, la generosità, l’estro, la fantasia …c’è troppo e troppo, bisogna trovare una via di mezzo, una via possible che rispetti questa orignalità, che non la offenda.

E qual è il ruolo della Chiesa in questo contesto? Perchè la Chiesa di Napoli dovrebbe prendere su di sè il peso di una sfida titanica che ha anche, mi sembra, un carattere socio-politico?
 
Ma cosa significa amare? Se il comandamento del Maestro e’ ama gli altri come te stesso, e proviene dalla antica radice del valore umano che non bisogna mai fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso, come posso cantare i carmi del signore in terra straniera? Io per poter predicare il Vangelo devo annunciare l’amore, ma per poter vivere l’amore devo essere capace di verità e quindi di giustizia. E’ una grande sfida quella della Chiesa. Non puo’ restare chiusa nelle mura, nei suoi edifici quando tutto crolla. E poi ragioniamoci su: se la Chiesa interviene dopo un terremoto, nessuno si meraviglia che essa faccia di tutto, con le proprie strutture, per essere al servizio di chi sta sotto le macerie. Ma ci sono più macerie di quelle che vediamo intorno a noi, a Napoli? Ecco che il ruolo della Chiesa diventa un ruolo politico, ma che non ha niente a che vedere con la politica, diciamo così, dei partiti. Deriva dalla sua necessità di vivere la città in ragione del Vangelo. Ecco perchè la Chiesa promuove un impegno per dire una Napoli diversa. Perchè ama i napoletani. È Chiesa di Napoli, è incarnata qui. È posta in questo territorio. Non può fare diversamente.
 
Dunque questo ruolo “politico” della Chiesa si trasforma, nella circostanza di questo viaggio del Cardinale, in un fenomeno di comunicazione. Politica è dire. E il Cardinale di Napoli si mette in viaggio pr “dire Napoli”…
 
Il Vangelo è comunicazione. Mica è un fatto intimo! Daltronde il primo a crare una rete mondiale di comunicazione è stato Gesù, quando ha detto ai suoi discepoli: lanciate la rete tra gli uomini. Ne ha presi dodici e li ha mandati in dodici parti diverse del mondomallora conosciuto. Lo stesso hanno fatto altri discepoli, che ne hanno mandati altri da altre parti. Il Vangelo è una notizia che deve correre.
     E’ ovvio dunque che la Chiesa deve fare una politica di comunicazione, che non è una politica narcisistica, di ostentazione. Abbiamo bisogno di un passa-parola formidabile per raccontare la verità in un tempo in cui spesso le menzogne sono più accreditate. E allora se io voglio dire Napoli, certo non nascondo il dolore di questa città, ma voglio anche in qualche modo raccontarne la speranza, il riscatto, la bellezza. Io credo per esempio che si possa e si debba parlare di Gomorra, ma è anche vero che io devo raccontare di una Napoli che vive e che palpita, che soffre e giosce, che spera. Va fatto tutto questo, è legittimo, ma insieme alla parte malata di Napoli va raccontata la parte buona. Che è quella della speranza.

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