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“Sono rimasto subito colpito da i 'Sopranos'. Ho trovato le prime serie affascinanti. Non soltanto per il contenuto ma per la costruzione, per come erano realizzate. Ho saputo dopo che le associazioni italo-americane più tradizionali avevano iniziato a protestare. Ma la cosa più sorprendente per me è stata che anche in Italia avevano iniziato a calvalcare quest'onda. Mi ricordo che Gianfranco Fini, allora segretario di 'Alleanza Nazionale', venne qui in America e condivise questa lotta, condannando gli stereotipi."
Così Aldo Grasso aprì una polemica diretta con Fini dalle pagine del Corriere della Sera. “Prima di prendere queste posizioni, non sarebbe meglio approfondire l’argomento di cui si parla?”—gli scrisse, contestandogli di non aver mai guardato i Sopranos. Se l’avesse visto, “data la sua intelligenza e la sua sensibilità, certamente non avrebbe preso parte alle proteste.”
La storia andò avanti a lungo, e più la serie aveva successo, più se ne parlava. “Ma era una lotta di retroguardia. Un mafioso che va da uno psicanalista non può essere riconosciuto come lo stereotipo del mafioso.”
Cos quando gli è capitato di vedere Jersey Shore, su MTV ha pensato “Oddio qui si ripete la solita storia. Non guardano i programmi, non discutono dei contenuti, ma genericamente si ha paura degli stereotipi”.
In un tuo articolo hai definito Jersey Shore, divertente ed istruttivo. Cosa volevi dire?
“Le due cose sono legate. La congiunzione è molto importante in questo caso perchè tu segui un programma quando è piacevole, e questo poi ti apre dei nuovi mondi che non conosci.
Il fenomeno dei 'Guidos' per me era assolutamente nuovo, non ne sapevo nulla. E’ stata una scoperta straordinaria vedere che c’è un modo di rapportarsi a questa italianità che non è più uno stereotipo, ma semmai un topos.
Ci sono giovani italiani americani di seconda e terza generazione che vivono così, hanno la brillantina in testa, si muovono in un certo modo, parlano in un certo modo. Sono i figli di Saturday Night Fever, di Grease. Mi si è aperto un mondo e ci sono entrato dentro. Era interessante prima di tutto dal punto di vista della rapprsentazione. Capivi come parlavano, come si esprimevano, come erano visti dagli altri.
La serialità americana ha avuto molto successo in Italia, però ci aveva sempre fatto conoscere il mondo americano, queste ragazzine bionde, carine…
In questo caso veniva fuori uno spicchio d’Italia in America. Per questo lo trovavo istruttivo, perché tutto ciò che permette di conoscere qualcosa di nuovo, e in modo anche divertente, secondo me merita il massimo dell’attenzione. Non lo trovo offensivo per nessuno”.
Ma è mai successo nella storia della televisione italiana che una trasmissione abbia suscitato reazioni ‘politiche’ così forti?
“Ci sono state ultimamente delle reazioni politiche di questo tipo a programmi televisivi. Berlusconi si è molto lamentato ad esempio che la fiction italiana rappresenti troppo la mafia. Ma bisognerebbe anche riflettere sul fatto che le fiction italiane sulla mafia sono le uniche a vendere bene all’estero. La TV italiana di solito arriva alla frontiera di Chiasso e si ferma lì. Una delle poche serie televisive riuscite è stata l’epica della Piovra ...”
E che tipo di televisione propongono questi critici?
“Un ritratto tutto sdolcinato dell’italiano. Berlusconi invoca un’Italia positiva, che lavora, che crea, ma dal punto di vista drammaturgico è una cosa ridicolissima. Non sta in piedi.
Negli ultimi 10, 15 anni, l’Italia ha scelto come tipologia di fiction la biografia in due puntate, che è quasi sempre un'agiografia. Quindi si racconta la vita di "santi", che possono essere politici, atleti, sportivi, santi veri, capitani d’industria.
L’unica cosa bella prodotta ultimamente è stata Romanzo criminale, una serie sulla famosa banda della Magliana, cioè quell’apparato criminale che negli anni settanta ha dominato Roma. Un bel prodotto, ma che dal punto di vista dell’immagine in effetti rimane imbarazzante. Ne viene fuori un ritratto delle istituzioni italiane molto mortificante.
Allora anche qui si pone l’eterno problema: ciò che è valido dal punto di vista drammaturgico, può creare dei problemi dal punto di vista politico. Se ci preoccupiamo dell’immagine sociale, allora l’imbarazzo delle istituzioni è comprensibile. Ma se andiamo ad analizzare, cosa scegliamo? Una cosa interessante dal punto di vista drammaturgico o una gratificante dal punto di vista istituzionale? Quando si sceglie la seconda strada si fanno spesso cose brutte e poco interessanti.”
Quindi le accuse di diffamazione che certe associazioni italoamericane hanno rivolto ai Sopranos e a Jersey Shore sono assimilabili a quelle di Berlusconi, secondo cui la fiction sulla Mafia deturpa l’immagine dell’Italia all’estero. Siamo cioè di fronte ad un atteggiamento per così dire 'patriottico-nazionalista' molto forte. La politca che detta le regole per la drammaturgia, l’opera d’arte…
“Sì, è la politica che pretende di determinare; invece di fare lo sforzo e di capire e cercare di penetrare il meccanismo simbolico, si ferma prima e ne trae l’immagine più banale.
La cosa che la politica in Italia non ha mai capito, nei rapporti con la televisone è - che per tutto ciò che riguarda la 'costruzione dell’identita’ - non è quello che la TV dice direttamente ad avere un forte impatto sociale. Conta piuttosto ciò che si dice in modo indiretto. La televisione è stata importantissima per la costruzione dell’identità italiana ma non certo trasmettendo il discorso di un primo ministro o show direttamente politici...
Faccio un esempio. Studiando il processo di alfabetizzazione in Italia, e il ruolo che ha avuto la televisione, per anni si è andato avanti con vari equivoci, attribuendo il merito ora alla trasmissione del maestro Manzi—che si rivolgeva alle persone non alfabetizzate dicendogli che 'non è mai troppo tardi'—, ora a questo o quello sceneggiato…”
Ma il paese ha imparato a parlare la lingua italiana molto di più attraverso altre trasmissioni di successo. Come Lascia o raddoppia, forse l’unico vero programma cult dell’epoca.
Allo stesso modo, un dibattito politico condiziona pochissimo le scelte degli spettatori. Ci sono programmi che non parlano di politica direttamente ma che fanno politica in un altro modo, e sono molto più efficaci. Ad esempio quelli pomeridiani per i giovani, alcuni del mattino. Trasmettono un’idea, una certa ideologia, senza mai dichiararlo.
Ci troviamo dunque di fronte ad un problema complesso dal punto vista simbolico… Se ci si ferma ai contenuti più evidenti — ad esempio: come vengono rappresentati gli italiani — si fa un grandissimo errore. Bisogna invece entrare dentro il codice della comunicazione, capire com’è strutturata una serie, coglierne la complessità linguistica. Solo facendo questo tipo di analisi riusciamo a capire i tipi di rappresentazione e riusciamo a dire qualcosa di più sensato. Ma la politica raramente fa questo passo ulteriore.”
E Romanzo Criminale, che hai citato prima, contiene a sua volta un messaggio negativo...
"Se ci mettiamo a cancellare tutti gli eroi negativi dalla storia della letteratura , del teatro, del cinema, ci resta ben poco. Dal punto di vista drammaturgico l’eroe negativo è sempre molto più interessante di quello positivo. Bisogna prendere atto che ci possono essere eroi negativi, perchè è un dato di fatto.
Certo esiste una domanda interessante da farsi: cosa giustifica la presenza di un eroe negativo? L’unica giustificazione possibile va trovata dal punto di vista estetico. L’unica etica che la rappresentazione conosce è l’estetica, cioè se una cosa è fatta bene, se è linguisticamente complessa.”
Torniamo ai Sopranos. Al tipo di mafioso che ha raccontato, paragonandolo al Padrino di Francis Ford Coppola. Questa serie televisiva sembra distruggerne l’immagine, il mito. Lo rende insicuro, debole. Un gangster non era mai stato rappresentato così...
“Dal punto di vista del racconto e della struttura seriale, i Sopranos sono veramente una delle cose più belle che la televisione americana abbia prodotto negli ultimi anni. Se facessimo lo sforzo ipotetico di eliminare la componente italiana, sarebbe interessantissimo lo stesso. La cosa geniale di questo racconto è che ci permette di vedere nello stesso istante la mafia, ma anche altri aspetti che non avevamo mai visto fin’ora.
Ci sono tutti gli stereotipi della mafiosità, anche azioni criminali efferate… al tempo stesso però è come se quelle seduta di psicanalisi di Tony Soprano non appartenessero solo a lui, ma a tutto il fenomeno. Ciò che ne viene fuori esprime debolezza, e il ruolo della famiglia è totalmente diverso da quello della famiglia mafiosa che veniva raccontato prima. E’ una famiglia borghese, che ha i suoi problemi, la crescita dei figli che si rivoltano ai padri, c’è una complessità incredibile. La mafia diventa un pretesto e non ha più nulla dei vecchi stereotipi. L’aspetto interessante era proprio in questo racconto delle debolezze, in tutto ciò che non appartiene all’iconografia della mafia. Incluse le incertezze dei protagonisti: sono loro le prime vere vittime!
Poi certo è un racconto ambientato in un territorio controllato dalla mafia. Ma non trovo nulla di offensivo. Mi sembra che distruggendo dall’interno un’immagine tradizionale della mafia, abbia reso un servizio enorme all’Italia e agli italiani americani."
Ancora su Jersey Shore. Dal punto di vista sociologico, e non mediologico, hai fatto tu stesso un raffronto con figure italiane simili, i 'tamarri'. Esistono ragazzi così in tutte le città italiane, e non solo nel New Jersey…
“Ho trovato interessante questo. Normalmente in Italia quando si rappresenta il fenomeno dei tamarri, al cinema o in televisione, se ne fa la caricatura. Non riescono a raccontarli per quello che sono veramente, salvo qualche buon documentario, ma è rarissimo.
Quello che avviene in Jersey Shore è significativo. Non si tratta di caricature, bensì di una fotografia interessante e realistica. Io trovo che forse possano risultare offensive le caricature, ma non una rappresentazione realistica. Questa mi da una profondità che poi sta a me colmare in qualche maniera. Se io vedo per strada un incidente, mi trovo di fronte ad una realtà molto drammatica. Non per questo devo pensare che la vita sia tutta drammatica.
Penso che il reality sia interessante, anche quando ome nel caso del ‘Grande fratello’ si arriva alla decima o undicesima edizione, francamente fastidiosa. Ma ci sono dei momenti in cui quei ragazzi, quando non hanno più difese dal punto di vista ambiental, non si accorgono neanche più delle telecamere. Viene fuori un ritratto di un certo gruppo di giovani che è molto più interessante di come spesso viene sceneggiato.
Quindi il pregio di ‘Jersey Shore’ era di genere. Le telecamere erano accese e ci hanno mostrato una certa realtà che nessuno sceneggiatore sarebbe in grado di rappresentare.”
Molti dicono che i ragazzi erano spinti ad esagerare...
“Il genere pretende che ci sia una certa enfatizzazione perchè c’è la presenza delle telecamere e i ragazzi lo sanno. Però bisogna riuscire a capire, avendo presente la cornice, il quadro. Bisogna interpretare il quadro in base a quella cornice. Non è un documentario, non è un’inchiesta giornalistica. Non bisogna fare confusione, è un reality.”
Una domanda è per il padre, più che per lo studioso. Non ci dobbiamo preoccupare per i nostri ragazzi che magari fanno di questi show un mito, un modello di vita?
“Il discorso qui si fa più complesso. Gli studi sugli effetti dei media hanno dimostrato che non esiste un rapporto di causa ed effetto così diretto. E’ come se la televisione fosse un membro della famiglia, un ospite che racconta alcune cose. Il rapporto c'è, ma è indiretto.
Inoltre non è vero che i giovani guardano così tanto la televisione, lo fanno in maniera molto casuale e, di nuovo, indiretta, ad esempio attraverso Internet. Quindi non seguono tutto il programma, ma solo delle parti che scelgono loro.
Infine, per determinare l’impatto della televisione è importante considerare la mediazione della famiglia, che ha un ruolo fondamentale. Faccio un altro esempio. Molti studi hanno sì riscontrato influenze negative della televisione, ma soprattutto su ragazzi che venivano lasciati soli davanti alla televisione per parecchie ore, e spesso in famiglie poco abbienti, dove i genitori usavano la televisione come una sorta di baby sitter mentre erano al lavoro. Si è anche riscontrato in quelle case non entravano libri, non entravano giornali. Dove insomma la mediazione della famiglia è poco rilevante gli effetti della televisione si fanno sentire di più. Ma via via che la famiglia diventa più complessa, e la mediazione più efficace, quegli effetti diminuiscono. Allora il problema non è tanto la televisione, quanto la struttura familiare.
Se riportiamo questo discorso al Grande fratello, ci rendiamo conto che questi modelli s’impongono dove sono scarse le difese. Dove c’è una famiglia, dove si parla e si discute, l’effetto è minimo, anzi molto spesso è vissuto in maniera ironica.”
Ci rimane da affrontare il problema del controllo politico sulla televisione, che intravediamo sia in Italia che in America quando si vuole impedire certe rappresentazioni che si ritengono deleterie o diffamatorie...
"In Italia la vera operazione deleteria, non solo di Berlusconi ma di tutta la politica, quando si parla della RAI e del servizio pubblico, è stata di conquistarla totalmente. E’ un errore non affidarsi a professionisti della comunicazione, ma piuttosto a funzionari di partito. Ciò determina, come dire, anche l’immaginario che la televisione crea. Ad esempio tutte le fiction prodotte in Italia negli ultimi 20 anni hanno un qualche risvolto politico. Una è stata fatta per accontentare un gruppo politico, un’altra è stata fatta per quell’altro ecc...
Il vero dramma che sta vivendo la televisione italiana è l’esagerata influenza della politica. E tutte le volte che la politica s’interessa di cinema, di televisione, di teatro, lo fa sempre in questa maniera molto rozza. Hanno un solo obiettivo, quello di dare un’immagine positiva. L’obiettivo della drammaturgia è un altro.
Quanto agli italoamericani, credo si portino dietro tutta la retorica del fascismo. Storicamente per loro non c’è stato modo di elaborare il cambiamento. Hanno conosciuto uno stereotipo di identità nazionale, non hanno avuto il processo di elaborazione successiva. Senza saperlo, mentre combattono gli sterotipi degli altri non si rendono conto di essere essi stessi vittime di questo stereotipo.
Poi vedo 'Rai Internazionale' e mi metto le mani nei capelli. Le associazioni italoamericane dovrebbero fare una battaglia per Rai Internationale. Che rappresentazione da' dell'Italia? Potrebbero trasmettere loro programmi come Jersey Shore, contestualizzandoli e spiegandoli e ccompagnandoli con dei dibattiti interessanti... "
...questo tra l'altro potrebbe aiutare anche gli italiani a capire quanto è difficile "essere G2", immigrati di seconda e terza generazione...
"Certo. E potrebbero fare un investimento e sottotitolare in inglese i telegiornali italiani, visto che tanti americani di origine italiana, soprattutto giovani, non parlano più la nostra lingua. Queste sono le classiche occasioni mancate della Rai. Dicono di avere pochi soldi mai il problema è che il budget potrebbe essere impiegato in modo diverso. Gli italoamericani farebbero meglio a lamentarsi di RAI Internazionale, anzichè di come la televisone americana rappresenta l’italianità”.