A cosa serve l'Ordine dei Giornalisti? Professione e accademia a confronto
Nel contesto del settimo Annual Cultural Event di ILICA, “Terroni e Polentoni”, i-Italy ha potuto rivolgere alcune domande al presidente onorario dell’Ordine dei Giornalisti Lorenzo Del Boca sull’importanza di questa istituzione per il giornalismo italiano.
L’Ordine dei Giornalisti rappresenta l’unico caso al mondo di associazione professionale dei giornalisti istituita per legge, l’iscrizione alla quale è condizione abilitante all’esercizio del mestiere in Italia.
All’indomani dell’approvazione della Carta di Firenze contro il precariato e lo sfruttamento dei collaboratori di redazione, che secondo Del Boca permette finalmente una valorizzazione del lavoro dei giornalisti, ha senso discutere del rapporto tra la presenza di un Ordine dei Giornalisti e lo stato di salute del giornalismo italiano, la cui libertà e autonomia sono valori che l’istituzione dovrebbe tutelare, con risultati altalenanti.
Come tutte le istituzioni, infatti, Del Boca ritiene che anche l’Ordine dei Giornalisti “è fatto da uomini e può avere delle defaillances”, ma ragionando sul piano dei principi, esso “è davvero importante”.
“Ci sono delle attività professionali che, avendo un riverbero sociale molto accentuato, hanno necessità di garantirsi presso il loro pubblico”, prosegue Del Boca. “Un medico o un avvocato non possono esercitare le loro professioni senza fornire garanzie ai propri clienti. Allo stesso modo un giornalista deve poter dare alla persona alla quale si rivolge – sia esso un lettore, un radioascoltatore, un telespettatore – la garanzia che quello che gli comunica è la verità al massimo delle sue possibilità”.
Il compito di una simile garanzia, secondo Del Boca, non può essere demandato al singolo giornalista, giornale o editore. Infatti “occorre un’istituzione che sia in grado di costruire una deontologia e assicurarsi che venga rispettata”.
Coloro che sostengono che il giornalismo italiano sarebbe più libero se l’Ordine non esistesse, Del Boca afferma, commettono un grave errore: “L’attività dell’Ordine, in effetti, è solo di autoregolamentazione. L’Ordine non impone niente, stabilisce solamente quali sono i limiti che il giornalista deve darsi per la propria professionalità. Questi limiti non sempre vengono rispettati, però che vengano stabiliti all’interno della stessa categoria è un elemento di ulteriore miglioramento della libertà del giornalismo”.
La libertà, però, per ammissione dello stesso Del Boca “sta anche nella busta paga. Come fa un giornalista ad essere libero dal punto di vista concettuale se non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena?”.
Considerando dunque la Carta di Firenze, che secondo il presidente onorario dell’ODG è “una questione più sindacale che ordinistica, per quanto promossa dall’Ordine”, come si spiega questa dualità di comportamento dell’Ordine che da un lato promuove misure per il miglioramento delle condizioni di vita dei precari del giornalismo ma dall’altro impone restrizioni all’accesso alla professione, mentre detta i limiti di esercizio della stessa? Cosa impedisce al giornalismo italiano di garantire l’osservanza dei valori e delle norme professionali, come avviene negli altri paesi del mondo, e senza la presenza di un’istituzione che se ne assuma il compito?
Lo abbiamo chiesto a Marica Spalletta, docente di Cultura, etica e deontologia della comunicazione presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma.
L’Ordine come strumento di autoregolamentazione, secondo Spalletta, è un concetto “sacrosanto”. Infatti, “più le regole provengono dall’interno, più queste dovrebbero risultare efficaci, perché condivise a monte”. Il meccanismo, tuttavia, “non è così automatico. La responsabilità del giornalista non è quella di darsi delle regole, ma di impegnarsi concretamente per il loro rispetto”, il che presuppone una coscienza culturale condivisa rispetto alle best practices giornalistiche, non particolarmente diffusa nel contesto professionale italiano.
Secondo Spalletta, infatti, non occorre un’istituzione in grado di costruire una deontologia. Occorrerebbe invece un “sistema giornalistico”, comprendente i professionisti e gli editori, “che si riconoscesse attorno a determinati valori e che, su questi valori, si desse delle regole”.
“Finché l’etica del giornalista non troverà un punto d’incontro e di dialogo con l’etica dell’editore il sistema non troverà mai il proprio equilibrio, quindi il valore stesso delle regole risulterà danneggiato a monte. Perché le regole siano applicate non è sufficiente che esse siano fissate in un codice: occorre che esse siano condivise. Scrivere delle regole è infatti per molti versi assai semplice, applicarle lo è molto di meno, soprattutto dove quest’applicazione implica uno scardinamento di meccanismi consolidati.”
Un’istituzione come l’Ordine, che potrebbe essere un baluardo della libertà del giornalismo proprio per le enormi potenzialità di tutela e garanzia per i professionisti che potrebbero derivare dalla sua fondazione a norma di legge, è però molto spesso snaturata e svilita per una “precisa responsabilità dei giornalisti stessi, che in Italia non hanno mai fatto buon uso delle potenzialità derivanti dall’esistenza di un vincolo normativo: tante regole ma spesso confuse, tanti documenti deontologici ma con scarsa applicazione, scarso utilizzo del potere disciplinare”, afferma Spalletta.
Un altro aspetto da approfondire per capire le contraddizioni che affliggono l’Ordine dei Giornalisti è la sua estrema chiusura, poco rispondente alle evoluzioni dell’attività giornalistica nel contesto di una società sempre più digitale, in cui tutti possono svolgere la funzione di citizen journalists senza nessuna licenza o tesserino.
“Non mi piace l’idea che si è giornalisti se si è iscritti all’albo,” commenta Spalletta, “secondo me si è giornalisti se si lavora da giornalisti. In Italia siamo pieni di giornalisti iscritti all’Ordine che operano come altoparlanti del potere oppure come attivisti politici. Questi, a mio avviso, non sono cattivi giornalisti. Questi non sono giornalisti. Un cattivo giornalista è un giornalista che, nel raccontare un fatto di cronaca, eccede nella spettacolarizzazione. Un giornalista che, nel fornire l’interpretazione di un fatto, si fa trascinare dalla faziosità. Ma un giornalista che fa il politico o che si limita a essere il portavoce di qualcuno non è un cattivo giornalista: non è proprio un giornalista.”
Proprio in virtù di quanto affermato da Del Boca circa il riverbero pubblico dell’attività professionale dei giornalisti, che secondo Spalletta è tale da coinvolgere il piano dei diritti costituzionalmente garantiti e dei valori cardine della società democratica, i problemi del giornalismo italiano debbono essere affrontati con un respiro più ampio di quello della “annosa diatriba ‘ordine sì/ordine no’”.
Il problema, commenta Spalletta, è di natura culturale, e non ancora percepito come tale. Finché ciò non avverrà si navigherà “a un livello di superficie, che serve solo ad alimentare le chiacchiere e non a entrare nel vivo della questione.”
i-Italy
Facebook
Google+