Articles by: Stefano Vaccara

  • Intervista. Veltroni si ricarica a NY


    Si intitola "The Discovery of Dawn" (Rizzoli ex libris, 2008), il libro tradotto dal premio Pulitzer Douglas Hofstadter. Un bel romanzo, che Veltroni presenterà al pubblico newyorkese due volte: mercoledì 17, alle 7:00 pm presso il Barnes & Noble Bookstore di Manhattan (2289 Broadway @ 82nd Street)  e venerdi 19 settembre alle 16, presso il Martin E. Segal Teatre, Graduate Center Cuny. 365 Fith Ave.

    In questa intervista a Veltroni, alla vigilia del suo arrivo a New York, abbiamo posto alcune domande sul suo esordio di romanziere ora anche tradotto in inglese, ma ovviamente non potevamo non chiedere spiegazioni sulle polemiche e difficoltà interne nel suo Partito, sulla possibilità di riformare la politica italiana, sul conflitto di interessi tra politica e informazione che, come leggerete, anche Veltroni non riduce soltanto al conflitto di interessi del premier Berlusconi, e infine anche un giudizio sulle sempre più avvincenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
     

    Come fa un uomo impegnato come lei, che quando scriveva questo libro era sindaco di Roma, con mille impegni e una famiglia da non trascurare, ecco come fa a trovare il tempo per scrivere un romanzo? Stava forse sveglio fino all'alba?

    «Scrivere è una mia grande passione mi è sempre venuto abbastanza facile. E' un modo per completare la mia vita, per farla a più dimensioni. Questo romanzo l'ho scritto nell'agosto 2005: c'era un serio allarme su possibili attentati terroristici e, come sindaco di Roma, mi sentii in dovere di restare in città senza andare in vacanza. La storia l'avevo in testa, la scrittura mi venne giù di getto».

     

    Il premio Pulitzer Douglas Hofstadter, che nella prefazione ci spiega come è diventato il traduttore di "The Discovery of Dawn", appare determinante nel convincerla a pubblicare il romanzo in America. Il libro scava nella vita di un italiano, Giovanni Astengo, che con i ricordi torna indietro nell'Italia degli anni Settanta, quando misteriosamente scompare dalla sua vita di bambino tredicenne il padre. E' soddisfatto della traduzione? Non temeva che certe sfumature storiche della trama potessero disorientare il lettore americano o confidava sugli universali aspetti interiori e psicologici dei personaggi? Insomma questo suo romanzo potrebbe ispirare un film ambientato a New York con il protagonista chiamato John Asteng?

    «Douglas Hofstadter è un genio puro, oltre che una persona gradevolissima e affettuosa. Mi venne a trovare due anni fa in Campidoglio durante il Festival della Matematica che avevamo organizzato. Non ci conoscevamo ma nacque subito una simpatia reciproca. Dato che lui parla italiano perfettamente, gli regalai una copia del mio libro, fresco di pubblicazione. Mi telefonò dall'America qualche giorno dopo: il libro è bellissimo, mi disse, se ci sarà una versione inglese vorrei curarla io. La sua traduzione è perfetta, ha saputo perfettamente riportare ogni piccola sfumatura. Per me è stato un grandissimo onore avere avuto la sua disponibilità. Il film di cui mi chiede comunque si farà, sono stati già comprati i diritti. Sarà ambientato in Italia però, per il remake a New York c'è tempo...»

     

    Ha già visto l'ultimo film di Pupi Avati in concorso a Venezia, con il premio all'attore protagonista Silvio Orlando? Anche lì si scava, come lei fa nel libro, nel difficile mestiere di padre. Secondo lei, oggi in Italia, sono più preparati al delicatissimo mestiere di genitore i padri o le madri? Nel suo libro il padre è più sicuro nel suo ruolo che la madre...

    «No, non ho ancora visto il film e non so dirle quale dei due ruoli sia più difficile. Quello che so è che oggi i padri e le madri vivono sulla loro pelle un'amara e terribile novità: è forse la prima volta nella storia dell'era moderna in cui i genitori non hanno più la speranza che il futuro dei loro figli sarà migliore del loro. E' un cambiamento epocale. Prima c'era ottimismo, ora c'è soprattutto molta paura. E l'Italia, che è purtroppo un Paese fermo, vive questa crisi di fiducia in maniera più drammatica rispetto ad altre nazioni che hanno invece saputo investire per tempo nel futuro».

     

    Lei è stato un sindaco di Roma molto popolare, vinceva le elezioni con distacchi elettorali record per la capitale. Adesso in Campidoglio c'è il sindaco Gianni Alemanno e scoppiano continue polemiche, l'ultima sulle azzardate rivalutazioni del fascismo... Se le aspettava queste tempeste mediatiche che compromettono l'immagine di Roma (pensiamo anche ai recenti attacchi a ragazzi gay per le strade)? Quale consiglio darebbe al suo successore o pensa che Alemanno a Roma sia comunque destinato al fallimento?

    «E' verissimo, c'è uno stillicidio di eventi e di dichiarazioni che compongono un mosaico allarmante e pericoloso. Le affermazioni del sindaco Alemanno mi hanno spinto a lasciare il comitato promotore del museo della Shoah, un progetto a cui ho lavorato intensamente per anni, dedicato alla memoria delle vittime della persecuzione nazi-fascista, di cui aveva accettato di essere presidente onorario Elie Wiesel, che avevo incontrato proprio qui a New York nel 2006. Speravo che almeno su questi temi ci fosse una visione comune. Le cose non stanno purtroppo così. E questo mi preoccupa. Come mi preoccupano i segnali negativi sulle questioni dell'integrazione e della tolleranza. La campagna del governo sulle impronte ai bambini rom così come il ripetersi delle aggressioni nei confronti dei gay ci descrivono un clima davvero brutto, che si ripercuote negativamente sull'immagine della città. Un sindaco, tanto più quello della capitale d'Italia, ha due compiti primari: saper cementare la comunità di cittadini che presiede e lavorare per farla crescere. Ora non si sta facendo né l'uno né l'altro. Da una parte si divide la città, cercando di rivalutare il fascismo, dall'altra si cede senza coraggio ai tanti conservatorismi che impediscono ogni cambiamento».

     

    Nelle pagine dei giornali italiani leggiamo continue polemiche sul futuro del Partito Democratico da lei fondato, tornerebbero correnti e dualismi e la sua leadership, si legge, traballa... E' una situazione da sentirsi molto delusi o, come ha detto Massimo D'Alema, è l'ora di "incazzarsi"? Di Pietro è un irrecuperabile traditore?

    «Guardi, dopo il voto c'è stata una fisiologica fase di delusione legata anche alla fase di luna di miele del governo con l'opinione pubblica. Ma ora il clima sta cambiando. Io sto girando l'Italia, parlo nelle feste democratiche organizzate sul territorio dal Pd e registro un clima di grande attenzione e calore. Il nostro popolo è unito, ci chiede solo di essere all'altezza dell'impegno che ci siamo assunti. Abbiamo sfidato la destra, siamo all'opposizione di un governo inadeguato e populista e dobbiamo sfidarlo come lo deve fare un grande partito riformista. Dobbiamo essere orgogliosi di ciò che siamo: con il suo 34% il Pd italiano, nato meno di un anno fa, è la più grande forza di centrosinistra in Europa in un momento in cui la destra governa pressoché ovunque in occidente. Questa è la realtà. E da qui dobbiamo ripartire per convincere gli italiani delle nostre buone ragioni. A proposito di Di Pietro, la parola traditore non fa parte del mio lessico. Io ho detto che c'era l'accordo a fare un gruppo parlamentare unico con il Pd. Di Pietro non ha mantenuto questo impegno e ora mi sembra più impegnato a distinguersi da noi e a criticarci che non a cercare posizioni comuni».

     

    Giustizia, federalismo, scuola... Ma se lei avesse vinto le elezioni e avesse avuto la marcia in più per portarle avanti le riforme necessarie, quale avrebbe ritenuto la più urgente? Ha recentemente detto che presenterà una legge per liberare la Rai dal controllo dei partiti... Ma da New York ci appare arrivare con grave ritardo: non sarebbe stata più credibile farla quando la sinistra era stata - anche con lei - più volte al governo? La ormai insostenibile situazione creatasi oggi alla Rai sarebbe solo colpa del conflitto di interessi di Berlusconi? Persino il servizio pubblico di Rai International subisce la spartizione partitica, che ci sembra una vergogna oggi ma anche ieri. Lei che ne pensa?

    «L'Italia ha bisogno di molte importanti riforme, cominciando da quelle istituzionali. Ma la nostra priorità assoluta se fossimo andati al governo sarebbe stata quella di intervenire subito, con una serie di provvedimenti anche fiscali, sui redditi di tante famiglie italiane. C'è un impoverimento generale della società italiana che i dati statistici ci mostrano sempre di più accompagnato da un rallentamento della crescita ormai praticamente sotto zero. Il governo ha scelto invece altre priorità. E considero questo un errore molto grave di cui temo pagheremo le conseguenze in autunno. Per quanto riguarda la Rai credo che lei abbia ragione: da tempo io ho indicato la necessità di allontanare i partiti dalla nostra più grande "fabbrica" di informazione di spettacolo e di cultura. Ho proposto l'idea di un amministratore unico, scelto tra i manager migliori del Paese, e l'abolizione dell'attuale, partitocratico Cda. Lei ha ragione a dire che c'è un ritardo, ma dovrebbe dirlo anche, e soprattutto, alla destra che continua a non voler toccare nulla per insistere sulla lottizzazione selvaggia».

     

    Nella copertina della edizione in inglese del suo libro leggiamo "The first novel by Walter Veltroni, a major figure in Italian public life and acclaimed journalist". Lei infatti è stato direttore dell'Unità, eppure, francamente, qui in America può apparire strana la sua identificazione sia come tra i maggiori leader politici che come famoso giornalista... Nel Congresso degli Stati Uniti non ricordo nessun "acclaimed journalist" e se qualcuno giornalista magari lo è stato, sicuramente una volta sceso in politica non è potuto più tornare indietro... In Italia il dibattito sulla corretta funzione dei media in democrazia però si accende e sembra esistere solo col conflitto di interessi di Berlusconi. Tutti i sistemi avranno i loro problemi, ma secondo lei la libertà di stampa in Italia può essere paragonata a quella negli Usa?

    «Purtroppo no. Io non uso mai il conflitto di interessi di Berlusconi come alibi ma di certo, se si pensa agli Stati Uniti, quello che accade da noi con la concentrazione di Tv e giornali nelle mani di un uomo solo - che guarda caso è anche capo del governo - sembra francamente appartenere a un altro mondo. I problemi dell'informazione in Italia sono moltissimi e non essere riusciti a impostare una vera riforma liberale di questo settore strategico è una responsabilità che grava pesantemente anche sulle spalle del centrosinistra».

     

    Sull'enciclopedia on line Wikipedia, si legge che lei è stato il primo sostenitore di Barack Obama in Italia... È così, tra Hillary e Obama, lei ha fatto il tifo fin dall'inizio per il senatore dell'Illinois? Quale sarebbe l'evento più "rivoluzionario" per gli Stati Uniti, l'elezione del primo presidente afroamericano o quella di una donna?

    «Ho scoperto come molti Barack Obama alla Convention democratica del 2004. l'ho incontrato di persona l'anno successivo a Washington ed ebbi subito la conferma di avere davanti un leader dal grandissimo carisma. Ho voluto scrivere la prefazione della versione italiana del suo libro proprio perché ho creduto da subito nelle sue grandi potenzialità. Pur stimando molto una donna di valore assoluto come Hillary Clinton, la sua candidatura alla presidenza mi appare come un enorme segnale di vitalità e di novità. Ora spero di cuore che il voto di novembre lo porti alla Casa Bianca. Il suo successo avrebbe un valore propulsivo eccezionale per tutti quelli che nel mondo hanno a cuore il cambiamento, l'innovazione, lo sviluppo in un quadro di giustizia sociale e di cooperazione tra i popoli».

     

    Proprio questa settimana la visita a Roma del vicepresidente americano Dick Cheney che con accanto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha ribadito l'affidabilità delle relazioni Italia-Usa "mai state così vicine". Se dovesse vincere Obama, con Berlusconi a Palazzo Chigi, prevede qualche raffreddamento nelle relazioni tra i due governi?

    «Mi sembra di aver letto sul Financial Times che, al di là dei sorrisi, tutta questa consonanza nel recente incontro tra il vicepresidente uscente Cheney e Berlusconi non vi sia stata. Né l'ha rafforzata certamente la posizione del ministro della Difesa italiano che ha qualche giorno fa elogiato i combattenti della RSI che si opposero agli "angloamericani". Io invece credo che ogni italiano debba essere grato a quei ragazzi che partirono dalla Virginia o dal Colorado per restituire agli europei la libertà perduta con il fascismo e il nazismo. A parte questo, credo che la vittoria di Obama non modificherebbe i tradizionali rapporti di amicizia tra i due paesi. Anche se contemporaneamente credo che Obama alla Casa Bianca aprirebbe un ciclo storico, politico, ideale molto più in sintonia con le nostre idee che con quelle di chi oggi governa l'Italia».

     

    (Pubblicato su Oggi7 del 14 settembre 2008)

     

                                                  

     

  • Attenti alla ghigliottina reazionaria


     Avevo chiesto al Dr. Stanton H. Burnett, l'autore nel 1998 di "The Italian Guillottine: Operation Clean Hands and the Overthrow of Italy's First Republic", (Rowman & Little Field), di ridiscutere le tesi del suo provocatorio saggio pubblicato dal Center for International and Strategic Studies. Stan da tempo è diventato un mio amico, lo conobbi intervistandolo proprio nel giugno di dieci anni fa per quel suo libro che ci procurò anche una denuncia dell'allora capo dell'opposizione Silvio Berlusconi. Ricordate? Dopo aver intervistato il politologo Burnett, cercai e ottenni la replica dei magistrati milanesi e dopo l'intervista, il Cavaliere indignato in diretta tv minacciò di querela "il magistrato Pier Camillo Davigo e il giornalista americano Stefano Vaccara...". Eravamo finiti tra i dui fuochi della guerra tra giustizia e politica in Italia.

    Quando chiesi a Burnett l'intervista, non prevedevo che in quella stessa settimana il capo del governo Silvio Berlusconi avrebbe dissotterrato lascia di guerra contro la magistratura.
    "Ok Stefano, ci dobbiamo vedere entro mercoledì perché poi sarò a Washington". Stan Burnett da oltre dieci anni vive a New York, dove si dedica soprattutto con la moglie Fiona alla sua passione preferita: l'opera. Eppure nella capitale ci torna spesso, perché continua ad essere un Senior Adviser dell'autorevole Center for Strategic and International Studies ma anche perché viene chiamato a Foggy Bottom dall'ex datore di lavoro per partecipare ad alcuni "briefing" sulla situazione in Italia. Burnett, ex professore di scienze politiche, oltre trent'anni fa venne assunto dal Dipartimento di Stato per aiutare il governo Usa a "decrittare" certi paesi alleati che durante la guerra fredda, come dire, erano cosiderati più a rischio. Fu in missione sia alla Nato che a Roma, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Poi al CSIS, ha continuato a monitorare l'Italia, concentrandosi principalmente sul sistema giudiziario. Quando scoppiò Mani Pulite, Burnett aveva già iniziato le sue ricerche che poi, nel '98, produssero quel libro bomba che sosteneva la motivazione "ideologica" di alcuni settori della magistratura, soprattutto quella componente della corrente di Magistratura Democratica, che secondo Burnett, fin dagli inizi degli anni Settanta avrebbe teorizzato una rivoluzione politico-sociale in Italia da portare a termine "con altri mezzi", cioé quelli giudizari.
     
    Il nostro interesse per le idee diffuse dallo studioso americano non è dovuto ad una condivisione o accettazione totale, come se fossero "verità" incontrovertibili. Si tratta di tesi, anche ben strutturate, ma pur sempre in un contesto di studi accademici. Ciò che sostiene Burnett qui ci interessa perché certe accuse ripetute da anni da Berlusconi, sono sostenute anche da uno studioso che fa parte di un influente think tank americano, e quindi perché certe opinioni trovano ascolto in ambienti della diplomazia e di altre agenzie Usa che tengono le fila della politica estera americana. Infatti chiediamo: Stan, le considerazioni che ci esprimi in questa intervista sono le stesse che farai a Washington questo fine settimana?
    «Sono le mie idee, ma non posso prevedere né posso dire se si parlerà anche di altro... ».
    Si è appena saputo che formalmente è riscoppiata la guerra tra Berlusconi e la magistratura. Proprio ieri in Senato il presidente Schifani ha letto la lettera del premier in cui ricusava il giudice Nicoletta Gandus per il processo a carico di Berlusconi e dell'avvocato inglese David Mills. Berlusconi accusa il magistrato di essergli ostile per ragioni politiche (due giorni dopo questa intervista, Berlusconi rincarerà la dose dicendo da Bruxelles: "Certe toghe, infiltrandosi nel potere giudiziario, vogliono sovvertire la democrazia" e "non mi faccio ghigliottinare"). Chiediamo a Burnett: ti aspettavi che dopo dieci anni dal tuo libro, tra potere politico e giudiziario sarebbero scoppiate le stesse polemiche? Siamo alla stessa situazione degli anni novanta in Italia?
    «Non è esattamente la stessa, però il parallelo fa impressione. Quando scrivevo il libro, ero già pessimista, ritenevo che anche una reazione nei confronti di una certa magistratura da parte del potere politico non avrebbe portato alle riforme giudiziarie necessarie. Quelle tentate erano deboli, in larga parte sono fallite e quelle utili sono state ridimensionate dal Parlamento. Alcuni magistrati, tra i quali chi si sta occupando adesso di Berlusconi, hanno attaccato la cosidetta Legge Pecorella, che sarebbe quella che in America chiamiamo del double jeopardy, cioè non dare all'accusa la possibilità di appellarsi e riprocessare l'imputato per lo stesso reato per cui è stato già assolto. Mi pare che proprio il giudice Gandus abbia sostenuto che dovrebbe essere del tutto eliminata. Era difficile prevedere il successo di Berlusconi. Sempre all'attacco, è stato in grado di resistere all'assalto di alcuni magistrati. Mentre la classe politica precedente, pensiamo ai Craxi, ai Forlani, non riuscì a difendersi e non fu in grado di evitare la propria distruzione politica, Berlusconi invece c'è riuscito. Ovviamente lui ha i soldi, l'accesso privilegiato ai media, l'appoggio di una coalizione politica ‘muscolare', ma soprattuto ha avuto l'esperienza di assistere a quello che è accaduto alla classe politica precedente. La lettera letta al Senato in cui ricusa il giudice Gandus è una mossa molto aggressiva».
     
    Nel '98, dopo la mia intervista con i magistrati Colombo e Davigo che seguiva quella con te, Berlusconi andò in tv per dichiarare che i magistrati avevano motivazioni politiche e che denunciava tutti, compreso il giornalista...
    «Vero, però allora mi sembrò che la sua reazione veniva condotta ai livelli a lui coingeniali, appunto mediatici. Ora ha invece optato per la formalità della lettera al presidente del Senato, una mossa molto più spregiudicata, con un linguaggio usato nella lettera molto forte, insomma una iniziativa formale che deve aver sorpreso non pochi nella sua stessa coalizione».
     
    Ma perché Berlusconi agisce in quel modo e perché proprio ora?
    «Dal passato ha imparato che se resti sulla difensiva, se lascia ai magistrati l'iniziativa, sei finito. E poi sembra molto più sicuro nel sostenere l'accusa che esistano magistrati di sinistra che sono motivati politicamente contro di lui, trova le argomentazioni...».
     
    Nel dare certi strumenti sembrerebbe che il tuo libro abbia aiutato...
    «Non era questa la mia intenzione. Comunque ricordiamoci che negli ultimi tempi importanti giornalisti, penso parzialmente a Scalfari e quasi totalmente a Pansa, hanno esposto delle dure critiche a certi metodi di Mani Pulite, insomma sembra che lo stato d'animo non sia lo stesso degli anni novanta. Ma in questo scontro tra la politica e la magistratura la maggioranza del pubblico vuole una risposta chiara alla domanda: siamo in presenza, con Berlusconi, di un ricco delinquente, corruttore che merita di essere perseguito e condannato, oppure siamo in presenza di una frangia della magistratura eversiva, ideologicamente motivata che attacca un avversario politico e quindi un pericolo per la democrazia?»
     
    A questo giornale hai dichiarato più volte che c'é anche una terza possibilità, che si possa essere in presenza di entrambe le situazioni...
    «Esattamente, siamo tutti abituati a vedere nei film western un duello tra chi porta il cappello nero e chi lo porta bianco, ma si dovrebbe pensare alla possibilità che entrambi, tra chi si spara addosso, abbia il cappello nero...»
     
    Ma così per l'Italia e la sua democrazia sarebbe una situazione nefasta, insostenibile. Che si potrebbe fare?
    «Prima di tutto smettere di pensare, soprattuto voi giornalisti, che quando uno critica certi comportamenti della magistratura italiana o sostiene la necessità di riforme urgenti che possano renderla più simile alle altre democrazie occidentali, ecco che sia soltanto una battaglia per favorire Silvio Berlusconi e toglierlo così da certi guai giudiziari.
    Secondo me non appaiono infondati certi sospetti su inflitrazioni politiche e ideologiche. Io per la verità non ricordavo il nome del giudice Nicoletta Gandus, ma anche lei appartiene alla corrente di Magistratura Democratica e sembrerebbe che in anni passati abbia avuto posizioni di sinistra molto ideologiche... »
     
    Come pensi reagirà il presidente Giorgio Napolitano a questa nuova dichiarazione di guerra tra potere politico e potere giudiziario?
    «Una caratteristica che abbiamo visto di Napolitano fin dai tempi di Mani Pulite, quando era presidente della Camera, è che egli crede e sostiene le maggiori istituzioni create dalla costituzione. Da certe conversazioni avute in passato con Napolitano so che lui pensa che Berlusconi non prenda abbastanza in seria considerazione il ruolo del Parlamento. Se si mette in conto questa fondamentale lealtà di Napolitano per le istituzioni, ecco penso che le preoccupazioni per il presidente siano oggi maggiori anche per alcuni episodi accaduti recentemente. La decisione da parte del governo di voler usare l'esercito per l'ordine pubblico, e ovviamente gli attacchi di Berlusconi con un linguaggio che sembrerebbe ormai non distinguere tra alcuni magistrati e l'intera istituzione della magistratura. Se uno ci mette anche la vittoria elettorale di Berlusconi ottenuta con la Lega e An, ecco che la preoccupazione per l'arrivo di una marea di destra autoritaria c'è. Napolitano deve essere molto preoccupato».
     
    Dovrebbe Napolitano firmare la legge sulla sicurezza, chiamata ormai salva premier, che vieta le intercettazioni per svariati reati e che fa rischiare la galera ai giornalisti?
    «Credo che stia riflettendo molto in proposito. Una legge che consente le intercettazioni solo per mafiosi e terroristi, quando si sa benissimo che sono proprio questi coloro che sanno bene come stare attenti ad essere intercettati, la dice lunga sulla sua efficacia. Sono i politici e certi imprenditori che invece cadono di solito nella rete... E comunque, a parte le questioni sicurezza, è una legge che in effetti renderà impossibile far arrivare a termine i processi come quello di Berlusconi. Sono vergognose le misure prese contro i giornalisti. Non si deve mai limitare così la libertà di informazione, è un classico istinto da regime autoritario. Ma sinceramente non so se Napolitano riuscirà a trovare ragioni costituzionali per respingerla».
     
    C'è anche la ripresentazione del "lodo Schifani" che dovrebbe riuscire a proteggere Berlusconi comunque... La legge è uguale per tutti: non avrà più lo stesso significato in Italia?
    «È un problema serio. Comunque ci sono tanti problemi nella giustizia italiana. Di Pietro ha detto che è un criminale chi si adopera a fermare un processo. Vorrei anche ricordare che quando un padre era stato arrestato con l'accusa di aver ucciso i figli, e la difesa si era appellata per la scarcerazione, c'era stata una prima risposta negativa perché il sospettato non era stato ancora in grado di dimostrare la sua innocenza! Siamo veramente in un contesto molto diverso da quello che è la tradizione giuridica occidentale, dove avviene l'esatto contrario. Comunque sulla sicurezza, la sinistra non è riuscita ad avere una posizione chiara dando la possibilità a Berlusconi e ai suoi alleati di innestare tutto in questo contesto, la necessità della gente di avere risposte nel campo della sicurezza. L'opinione pubblica era ben disposta e gli errori della sinistra hanno facilitato le mosse di Berlusconi. Poi ci sono dinamiche all'interno della sinistra che sono state condizionate anche dagli interventi della magistratura. Pensiamo all'ascesa di Veltroni a capo del PD: fu anche favorita dalla pubblicazione delle intercettazioni sugli scandali bancari che colpirono Fassino e D'Alema, sicuramente fino ad allora due possibili contendenti alla leadereship. Delle registrazioni che in fin dei conti non erano poi così gravi ma che bastarono a togliergli qualsiasi possibilità. In quel momento la coda dello scorpione ha colpito anche a sinistra. La questione sembra ora essere se il cittadino italiano abbia più paura della criminalità, o dell'accumulo di potere da parte di una destra muscolare e a tratti autoritaria. Da certi risultati elettorali, non ci sono dubbi quale sia la paura e chi se ne stia avvantaggiando».
     
    La stesso stato d'animo che portò al potere Mussolini?
    «Qualcosa di simile c'é... Se Berlusconi non esagererà troppo, ma quella lettera in Senato è stata una mossa pericolosa, e se a Roma la destra al governo frenerà certi istinti, la sinistra avrà difficoltà a trasmettere agli italiani il pericolo di crescita di una destra autoritaria. La destra invece è riuscita a far allarmare l'opinione pubblica su un problema sicurezza che sinceramente, se si guardano alle statistiche, non appare così giustificato».
     
    In questo momento l'Italia, rispetto agli anni novanta, è un paese più in difficoltà?
    «Sono più preoccupato oggi che ai tempi di Mani Pulite. La ragione è una conseguenza di quello che successe allora. Infatti oltre a far saltare le teste di tanti leader, quella stagione tolse di mezzo anche valorosi giovani che stavano emergendo dietro ai loro leader, molti andarono a fare altri mestieri, abbandonando la politica. Una classe politica più preparata è stata sostituita da una che non appare affatto brillante. Forse avremo un Berlusconi più statesman? Forse, ma finora non ho visto molto rispetto per le istituzioni. Temo, nel confronto con la magistratura, la reazione della destra non verso un numero limitato di magistrati ma verso una istituzione, che ha bisogno di riforme ma non di essere distrutta. Tutto può diventare molto pericoloso».

    (Pubblicato su Oggi7 del 22 giugno 2008)

  • I cortigiani della mafia


    Intervista con Lirio Abbate, autore con Peter Gomez de "I complici: tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento"

     

    Dispiace pensarlo, ma la democrazia Italian Style, riguardo alla libertà d'informazione ci appare sempre più, almeno da qui, in uno stato regressivo. Oltre che nell'efficenza e nelle garanzie della giustizia, è in questo campo che si misura il livello di maturità raggiunto da una democrazia. La Cina per esempio oggi ci appare un po' meno dittatoriale grazie ai seppur lenti progressi sulla libertà d'informazione avvenuti grazie alle olimpiadi e, purtroppo, alla tragedia del terremoto. Nella Birmania altrettanto colpita da una tragedia naturale, spicca agli occhi del mondo democratico invece la quasi impossibilità di ricevere una corretta informazione.

    Ebbene, pochi giorni fa è accaduto in Italia che un giornalista ha attaccato la seconda carica dello Stato in televisione dando informazioni su fatti pubblicati già in un libro uscito un anno fa, ed è successo il finimondo. Ecco perché l'Italia ci appare come la Birmania d'Europa. A pagina 4 e 5 trovate altri due commenti su questo episodio, qui invece ci occupiamo del libro "I complici" (Fazi Editore, 2007), scritto dai giornalisti Lirio Abbate e Peter Gomez. Ci occupiamo di mafia, politica e libertà di informazione intervistando l'autore che da mesi vive e lavora in Sicilia sotto scorta per le minacce e gli attentati mafiosi nei suoi confronti.



     

    Quando il libro esce più di un anno fa, Lirio Abbate, cronista dell'Ansa in Sicilia, è subito fatto oggetto di minacce. Addirittura dovrà lasciare Palermo per un periodo, dopo che la polizia scopre una bomba sotto la sua macchina. Al telefono, da Palermo, ci racconta: «Il libro esce a fine febbraio del 2007 e suscita subito grande clamore almeno nell'ambiente della politica e della borghesia mafiosa palermitana. Dopodiché iniziano una serie di problemini. Poi si scopre questo progetto di attentato nei miei confronti e questo ordigno sotto la mia macchina. L'idea degli investigatori è stata quella che la minaccia fosse già legata alla mia attività giornalistica e che fosse stata accelerata dalla pubblicazione del libro in cui si parla di fatti realmente accaduti e in cui si fanno nomi di politici che in qualche modo sono stati collusi con la mafia, i professionisti che andavano a braccetto con i boss. Quando parlo di politici collusi con la mafia, parlo di collusione morale».

    Nell'introduzione del loro libro, Abbate e Gomez scrivono:

    "Il principio di elementare prudenza che porta, nelle democrazie mature, a escludere ed emarginare chi ha amicizie discutibili, chi tiene comportamenti non trasparenti, in Italia non scatta mai... Il garantismo deve valere nelle aule di tribunale, dove l'imputato va condannato solo se è colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. In politica invece deve prevalere il buon senso. Tra chi è specchiato e chi ha addosso una macchia, candido solo il primo, non il secondo".



     

    Nel tuo libro non si parla solo dell'attuale presidente del Senato Renato Schifani, ma di altri politici e anche del centrosinistra. Ecco forse per questo il libro non è stato dibattuto in tv? Insomma la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica italiana, fino all'episodio di sabato scorso con Marco Travaglio alla Rai, non ne conosceva l'esistenza. Chiediamo a Lirio: forse a nessuno, né a destra così come a sinistra, interessava "spingere" quel libro, dato che colpiva tutti?

     

    «Sì, hai centrato in pieno la situazione. Nel libro noi raccontiamo questa storia come se fosse un romanzo ma è tristemente tutto vero, e i protagonisti sono reali. E questi non sono sempre mafiosi puri, i Riina, i Bagarella, i Provenzano, ma parliamo anche di coloro che sono i cortigiani di Cosa Nostra, cioè quell'ambiente borghese, fatto di medici, avvocati, politici, gente che in qualche modo ha un ruolo anche nelle istituzioni. Ecco parlare di certe persone che appartengono a diversi schieramenti politici e dei loro rapporti con certa gente ti attiri molte inimicizie e soprattuto non fa promuovere il tuo libro. Infatti il nostro è stato boicottato all'inizio dai giornali e poi soprattutto dalle televisioni, raccontare la realtà in tv in Italia fa male... ».

     

    Ed eccoci alla cronaca di questi giorni. Solo dopo oltre un anno dall'uscita de "I complici", Travaglio attacca in tv il neo presidente del Senato Schifani e ricorda quando era "in affari" con personaggi discussi che alla fine verrano perseguiti e condannati per mafia. Travaglio parla alla Rai, scatenando un putiferio con conseguente querela nei suoi confronti da parte di Schifani e con il presentatore della trasmissione Fazio che chiede pubblicamente scusa.... Travaglio è querelato da Schifani, ma il tuo libro no. Eppure voi scrivete quello solo accennato da Travaglio in tv. È così?

    «Quello che posso dirti è che il libro quando è uscito fu subito letto dall'avvocato di Schifani che poi ci disse di averlo letto due volte proprio per verificare se c'erano gli estremi per la querela.. Lui stesso ci disse che leggendo non aveva trovato alcun spiraglio per denunciare. Perché i fatti erano i fatti, non c'era alcuna sfumatura di calunnia. Poi sono arrivate le minacce, gli attentati, è arrivato soprattuto una sorta di isolamento mediatico nei confronti del libro. Se alla fine ha venduto le sue copie, questo è avvenuto grazie al passa parola che c'è stato in Italia».

     

    Quando è stato eletto Schifani alla presidenza del Senato, nei profili che uscivano nei giornali mancava la parte raccontata nel tuo libro. Ora tu non affermi che Schifani sia un mafioso, quello che però sostiene il libro è che ha avuto rapporti, chiamiamoli così, troppo ravvicinati con persone che poi sono risultate mafiose e di rango, dato che i Mandalà assicurarono per un certo periodo la latitanza del boss Provenzano. Ecco come ti spieghi che in Italia qualcuno possa essere eletto alla seconda carica dello Stato e a quasi nessuno venga in mente di raccontare all'opinione pubblica quello che c'é scritto nel tuo libro? Ciò che avverrebbe in qualsiasi democrazia, in America come in Europa, perché non accade in Italia?



    «È quello che mi chiedono altri giornalisti americani e anche francesi, spagnoli, svedesi... che hanno letto "I complici" e sono rimasti meravigliati. Un giornalista straniero, che segue molto la politica italiana, il giorno dopo le elezioni mi chiamò dicendo: "Li hai azzeccati proprio tutti i politici nel tuo libro, sono stati tutti rieletti e non so come ti finirà..." Quando abbiamo scritto il volume io e Peter non volevamo fare un libro su Schifani. Sono semplicemente dei fatti, delle circostanze che abbiamo trovato nelle carte giudiziarie e nelle intercettazioni, conversazioni e verbali e così li abbiamo raccontati. Abbiamo fato una inchiesta giornalistica, che parte da inchieste giudiziarie per arrivare fino ai giorni nostri, il tutto incentrato su un pentito, Francesco Campanella, che ha continuato a parlare. Così abbiamo raccontato la vicenda di Schifani così come di altri politici che erano vicini a persone che erano tra i favoreggiatori di Provenzano, favoreggiatori morali di un capomafia rimansto latitante per 43 anni».

     

    Provenzano non deve scappare in questi anni. Anzi sembra un manager di un'azienda, ben posizionata in un vortice di interessi economici nel campo del business della sanità.. Solo verso la fine si riduce in fuggiasco, e così va a finire in quella casupola nei pressi di Corleone, dove verrà trovato e tu sarai il primo giornalista a dare la notizia della sua cattura. Eppure prima, intorno alla zona tra Villabate e Bagheria Provenzano fa per anni una vita da, come dire, stimato professionista... Ecco pensi che possa accadere solo in Italia che un latitante, ritenuto uno dei capi della mafia, possa restare tale per 40 anni restando coinvolto in affari con personaggi che sono importanti esponenti della società civile? Potrebbe accadere questo in un altro paese democratico dell'Occidente?

    «Credo che non possa accadere nemmeno in un altra regione italiana, ma solo in Sicilia. Vedi Cosa Nostra è mafia proprio perché riesce a tenere questi contatti con la politica, perché riesce ad andare a braccetto con i politici. Altrimenti sarebbe semplice organizzazione criminale, sarebbe quella che è la Camorra, che spara e ammazza, ma non sono gente che pensa alla politica in un certo modo, che riesce a far legiferare in suo favore».

    Ovviamente non c'è solo l'attuale presidente del Senato tra i protagonisti di questo libro... «Infatti, per noi Schifani è soltanto un piccolo paragrafo in tutta la storia... ».

     

    Appare ancora più vicino ad antichi legami con certi personaggi, l'ex ministro Enrico La Loggia, compagno di partito di Schifani che notiamo, a differenza del suo amico e collega, in quest'ultimo governo Berlusconi non ha ricevuto ancora un prestigioso incarico come in passato. Che certi fatti narrati ne "I complici" abbiano influito? O si tratta solo di una coincidenza?



    «Io penso che possa essere una coincidenza che non abbia più avuto un ruolo al governo La Loggia, e può anche essere una coincidenza che non sia stato ricandidato un altro deputato, l'avvocato Mormino, che è stato anche vice presidente alla commissione giustizia. Certo è che il libro su di loro ha raccontato dei fatti che forse sono arrivati all'orecchio di Berlusconi e il libro potrebbe essere una scusa per non dargli altri incarichi. Comunque il libro ha contribuito a far emergere storie che non sono penalmente rilevanti, ma che possono far riflettere i cittadini e farli indignare».

     

    Si indignano forse i cittadini che certi fatti riescono a conoscerli, perché sembrerebbe invece che non è che la gente sapesse granché...

    «In Italia purtroppo è così, se tu racconti la verità con nomi e cognomi, e se poi quei cognomi appartengono a persone importanti in politica, allora non vai avanti. Se tu invece racconti delle storie, anche di criminalità ma che sono fantastiche, in cui si mette ogni tanto qualche nome di qualche criminale vero, ma ci fai un grande romanzo allora sì che piace. La gente vuole quello, vuole la fiction. Altrimenti, faranno in modo che sia ignorato».

    Ci sono certe ricostruzioni nel tuo libro sconvolgenti. Mi riferisco all'omicidio del leader comunista siciliano Pio La Torre. Le riflessioni su a chi giovasse quella morte, portano a conclusioni terribili. Elencate gli affari che le cooperative rosse avrebbero cercato con certi ambienti mafiosi. Forse neanche questo ha giovato alla pubblicità del libro, hai avuto la sensazione che dava fastidio a tutti?

    «Si certo, abbiamo notato, facciamo delle ricostruzioni, anche su quelli della sinistra, che hanno fatto male a qualcuno. Ma noi riportiamo fatti non solo sulla vicenda dell'omicidio La Torre, arrivando ai giorni nostri, nel libro riportiamo la registrazione di un filmato che la polizia fa dell'incontro di un politico della sinistra con un capo mafia.... ».

     

    Vladimiro Crisafulli, rieletto nelle file del Pd anche a queste ultime elezioni?
     
     

    «Sì, Crisafulli viene filmato mentre si abbraccia e bacia con un capomafia in un incontro riservato, in cui parlano di affari. Per questa vicenda Crisafulli viene indagato dalla Procura, caso poi archiviato, perché non c'è dolo. Ma nonostante il filmato ecco che il partito a cui appartiene Crisafulli lo prende e lo candida al Parlamento nazionale. Cioè lo promuove, invece di cacciarlo dal partito»

     

    Questo prima dell'uscita del libro, poi anche dopo la sua pubblicazione non accade granché dato che Crisafulli viene ripresentato alle ultime elezioni con un posto in lista sicuro e quindi ovviamente rieletto....

    «Sì, noi nel libro raccontiamo le sue vicende ma non serve a nulla, lui viene nuovamente ricandidato mentre non veniva ricandidato Beppe Lumia, ex presidente della Commissione antimafia. Chiedi se questi libri possono far cambiare la politica? Per certi versi se ne fregano, però quando venne fuori che non candidavano Lumia, già presidente della Commissione Antimafia, ma c'era posto per Crisafulli, è successo qualcosa. A Genova, durante un comizio di Veltroni, dei ragazzi fotocopiano delle pagine del libro e davanti al palco protestano, gridando a Veltroni slogan contro la mafia e di vergogna per la candidatura di Crisafulli. Così Veltroni ci ripensa e almeno a Lumia lo ha candidato al Senato».

     

    Ecco l'informazione che diventa fondamentale, ma se i cittadini non vengono informati, di cosa potrebbero protestare? Assistiamo in questi giorni allo scontro tra il vicedirettore di Repubblica Giuseppe D'Avanzo che attacca il collega Travaglio accusandolo, in occasione delle sue dichiarazioni in tv su Schifani, di fare un giornalismo sensazionalistico su storie vecchie... Attacchi da un giornale vicino al Pd proprio quando tra Berlusconi e Veltroni scoppia una luna di miele. Anche questa una coincidenza? Il presidente del Senato Schifani, se non sbaglio, prima ancora di annunciare la querela per Travaglio, aveva avvertito che certi atteggiamenti mettevano in pericolo l'atmosfera d'intesa tra governo e opposizione sulle riforme...

    «Io non penso che dietro le idee espresse da Beppe D'Avanzo ci possa esere la politica. Sono delle idee che lui ha e le ha espresse. La libertà di pensiero ci deve essere sempre, spero che ci possa essere ancora in futuro. Io mi preoccupo che vogliano mettere il bavaglio a chi vuol fare giornalismo d'inchiesta».

     

    La notizia dell'elezione di Schifani alla presidenza del Senato, non ti ha fatto sentire inutile il tuo libro come moralizzatore della politica? Con che spirito riesci a continuare il tuo mestiere?



    «Il libro non vuole moralizzare la politica, vuole raccontare soltanto ai cittadini cosa è la politica italiana. Questa è la democrazia, alla fine è stato eletto Schifani e a larga maggioranza. Io mi rammarico che in Italia il sistema elettorale non consenta ai cittadini di scegliere il candidato per cui votare. I partiti impongono i loro, anche quelli moralmente discutibili e poi sono loro che legiferano e decidono per le leggi contro la criminalità organizzata, ecco tutto questo fa rabbia e fa venire un groppo allo stomaco».

     

    Il tuo mestiere lo continui in maniera serena o hai paura?


    «Continuo a farlo in maniera serena. Certo ho paura per me e la mia famiglia, ma finché lo stato mi potrà proteggere, il mio mestiere continuerò a farlo. Continuo a fare il lavoro che facevo prima, il bavaglio ancora non mi è stato messo».

    (Published in America Oggi/Oggi7, May 18, 2008)

  • Commento. La sconfitta che cambia l'Italia


    Nelle elezioni italiane ha vinto Berlusconi con il PDL; ha stravinto Bossi con la Lega Nord; vinciu Lombardo in Sicilia; ha pareggiato, grazie sempre alla Sicilia e alla Calabria, Casini con l’Udc; ha vinto perdendo o perso vincendo Di Pietro e la sua Italia dei Valori raddoppiando i voti dentro al PD; infine, pur sconfitto, ha centrato uno storico trionfo Veltroni col suo PD.

     

    Ha trionfato Veltroni? Proprio così, perché con il nuovo Partito democratico, Veltroni ha di fatto raggiunto un risultato inedito nella Repubblica, un risultato quindi storico: ha fatto sparire dal Parlamento italiano la sinistra massimalista, quella chiamata Arcobaleno ma, meglio dire, quella sinistra antagonista di ispirazione marxista. Con ciò il leader del PD ha cambiato per sempre la storia d’Italia (come a sua volta ha fatto, anche se era un risultato meno importante e sicuramente più prevedibile, l’accoppiata Berlusconi-Fini lasciando fuori dal Parlamento l’estrema destra rappresentata da Storace-Santaché).

     

    Il nuovo partito democratico fondato dall’ex sindaco di Roma non andrà al governo e quindi è lo sconfitto delle elezioni, ma ha comunque centrato un obiettivo, crediamo, nel lungo periodo politicamente molto più importante e per questo storico, che cambierà il futuro dell’Italia. Per la prima volta la democrazia italiana ha la possibilità di diventare, rispetto all’Occidente, “normale”, perché per la prima volta il partito che vuole rappresentare le forze progressiste-riformiste e che guiderà oggi l’opposizione e un giorno il governo, non sarà più condizionato da forze di ispirazione marxista (alla sua sinistra Veltroni però dovrà recuperare i pochi ma importanti socialisti di Boselli, progressisti anche loro). A quasi vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ieri non è morta quindi in Italia la sinistra, come gli sconfitti della lista Arcobaleno hanno cercato di affermare. È crollata la sinistra di ispirazione comunista, quella che già in Francia, in Germania, nel Regno Unito, in Spagna e insomma in tutta l’Europa occidentale non contava più nulla da almeno venti anni.

     

    È questo il dato analitico più importante delle elezioni del 2008.

     

    Ora, se Berlusconi ha trionfato, è soprattutto grazie al successo di Bossi che ha stravinto intercettando il malcontento delle sue tradizionali roccaforti del Nord e non solo (vedi Emilia e Romagna). La Lega ha raddoppiato i voti. Quindi, il Cavaliere avrà sì un’ampia maggioranza al Senato e alla Camera per poter governare senza più “scuse”, non potrà più affermare di sentirsi “frenato” dai democristiani di Casini. Però, e lo diciamo con preoccupazione, questa sua libertà di governare sarà “vigilata” dalla Lega Nord. Cioè, senza il visto di Bossi, il Cavaliere, dicono almeno i numeri che leggiamo a conteggi ancora in corso, non governa e per avere l’appoggio dei leghisti dovrà quindi soddisfarne le richieste. La Lega di Bossi e Maroni non darà problemi affinché il governo Berlusconi duri cinque anni, ma questo solo se il PDL farà passare tutte le riforme richieste dalla Lega. Queste, in certe istanze, come quelle federaliste soprattutto in materia fiscale, non sono campate in aria, ma provengono da precise istanze della parte più produttiva del Paese e devono essere, magari moderandole un po’, soddisfatte. Ma, in certi atteggiamenti leghisti, pensiamo per esempio al problema dell’immigrazione, è tutto ancora da vedere come il governo di Berlusconi potrà riuscire a frenare certe posizioni xenofobe, pericolose, vergognose per una democrazia.

     

    Ma torniamo al fattore storico di queste elezioni, cioè alla grande sconfitta della sinistra Arcobaleno. Nelle analisi ascoltate ieri dai suoi vari leader sconfitti, questi hanno ripetuto che l’Italia con la loro uscita di scena va verso “l’americanizzazione” del sistema democratico, cioè verso il bipolarismo, e quindi, dicono loro, il disastro. In realtà sarà ancora lunga e difficile la strada da percorrere per una vera “americanizzazione” del sistema politico italiano, soprattutto nella scelta democratica dei candidati. Speriamo però che in questo i comunisti abbiano avuto ragione, che il voto del 2008 abbia avviato questa da loro tanto odiata “americanizzazione” del sistema democratico. Sarebbe il merito più grande di Veltroni, che pur avendo perso queste elezioni, entrerebbe per sempre nella storia della Repubblica.

     

    Un ultima nota sulle elezioni all’estero. Chi scrive le ha già definite il “voto dei quaquaraquà”, perché questo sistema va cambiato, quello che c’é è stato inventato apposta per non far pesare il nostro voto. Tanto, lo sanno tutti, i 18 tra senatori e deputati saranno distribuiti più o meno equamente tra i maggiori partiti e quindi, ben “annacquati”, non conteranno nulla. Da certe notizie che abbiamo sentito mentre scriviamo queste righe, cioè i soliti ritardi rispetto al conteggio nelle sezioni nazionali, con diecimila (diecimila!) di scrutinatori in mezzo a una vergognosa confusione etc etc, ecco speriamo che non sia proprio così, che siano notizie esagerate, e che insomma qualcuno non riesca adesso pure a far diventare il nostro voto quello “di Pulcinella”.

     

    (Published in America Oggi, April 15, 2008)

     

  • Perché l'Italia non è "attraente"


    Quando tre anni fa il presidente George W. Bush annunciò che sarebbe stato Ronald Spogli a sostituire a Roma l'ambasciatore americano Mel Sembler, si dovette subito ricredere chi pensò alla scelta dettata dalla solita "ricompensa post elettorale" da elargire ad un ricco sostenitore della rielezione. A Villa Taverna non si inviava soltanto un ex compagno di studi di Bush dei tempi di Harvard che, dopo l'MBA, avrebbe avuto tanto successo nel business. Negli ultimi anni Spogli era stato magari pure molto efficace per le campagne elettorali dell'ex collega universitario. Ma la Casa Bianca, nel 2005, all'Italia riusciva a mandare anche il top delle scelte possibili: infatti quello che era stato un ragazzo italoamericano della California (il nonno arrivò da Gubbio) conosciuto da Bush tra i viali di Harvard, prima di studiare business accanto al futuro presidente era stato un diligente e appassionato studioso di storia sociale italiana. Spogli prima di arrivare a Cambridge aveva infatti frequentato la Stanford University, e la sua passione per l'Italia lo aveva portato, alla fine degli anni Sessanta, a vivere e fare ricerche nel Bel Paese allora sconvolto dal '68 e dai primi fuochi degli anni di piombo. Così per Bush Spogli non era solo l'ex compagno d'università tanto bravo a far soldi da meritare la ricompensa con un po' di dolce vita romana, ma era soprattutto anche un raro "italianist" dall'approfondita conoscenza della lingua, della cultura e dei problemi dell'Italia.

     

    Per questo, quando martedì scorso siamo andati ad ascoltare l'ambasciatore Spogli alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University, sospettavamo che non sarebbe stata la solita "lecture" di un diplomatico ancora in carica, dolci parole sulla "forte amicizia" tra i due paesi con risposte senza mordente per schivare domande troppo dirette. Certo, Spogli nella sua relazione introduttiva non poteva che ribadire come le relazioni tra Italia e Stati Uniti restino "eccellenti". Perché è la verità, soprattutto se messe a confronto con quelle che gli Usa hanno con altri storici alleati. Spogli non ha negato che ci siano stati, anche recentemente, "momenti di frizione" nei tre anni passati a Villa Taverna, ma il fatto che Usa e Italia "siano d'accordo su dove vogliamo arrivare, sugli obiettivi, anche se a volte abbiamo divergenze sulla strada da fare, è alla fine ciò che conta di più".

     

    Così ecco scodellati dall'ambasciatore i punti dove l'azione del governo italiano è stata apprezzata di più: dai Balcani con il riconoscimento del Kosovo, al Libano con l'invio di truppe Onu, all'Iran con l'attento lavoro sulle sanzioni, fino all'Iraq (perché anche se si sapeva che il governo Prodi avrebbe ritirato le truppe italiane come promesso durante le elezione del 2006, ha detto Spogli, "per noi americani il modo con cui è stata condotta l'operazione è stata un modello"). E ancora lodi per gli aiuti umanitari per l'Africa così come per il ruolo giocato nella difficilissima operazione in Afghanistan, anche se su quest'ultimo e delicato campo strategico, l'ambasciatore Spogli non ha nascosto i problemi creatisi all'interno della NATO dove tutti dovrebbero avere gli stessi diritti ma anche condividere gli stessi doveri. Spogli così non si è lasciato sfuggire la battuta, dicendo che troppo spesso certi "multilateral effort" vengano poi interpretati da qualche alleato come se fosse la traduzione di "American effort".

     

    Quando il direttore della Casa Italiana Stefano Albertini ha iniziato con le domande, ha ricordato a Spogli l'ormai celebre articolo del "New York Times" firmato da Ian Fisher e uscito lo scorso ottobre in cui si sosteneva che l'Italia fosse in uno stato di "malessere" sempre più grave e pericoloso. È proprio così o solo esagerazioni di stampa?

     

    Qui l'analisi di Spogli è cominciata a farsi più sofisticata: "Gli italiani sono seriamente preoccupati di non poter passare ai figli lo standard di vita di cui hanno goduto per tanti anni". Dato che il miracolo economico degli anni precedenti è solo un ricordo, "qualcosa deve cambiare per rilanciare l'economia e ridare, specialmente ai giovani, ottimismo sul futuro". È sui giovani che l'Italia si gioca tutto perché, ha ricordato Spogli, quando i giovani sono ottimisti, questa carica si trasferisce sulla società, ma in Italia ciò non succede più. Così Spogli ha citato uno studio in cui si viene a sapere che se il 70% degli studenti universitari americani ritengono che il futuro dipenda da fattori che rientrano nel loro controllo, in Italia la percentuale è esattamente ribaltata, cioè il 70% dei giovani sono convinti del contrario, che il loro futuro non dipenda da loro ma da fattori incontrollabili: "Qualcosa deve cambiare perché ogni crescita economica è legata all'ottimismo dei giovani".

     

    Era scontato che alla domanda sulla campagna elettorale e sulle previsioni di chi governerà a Roma, l'ambasciatore americano non si sbilanciasse ma invece desse l'unica risposta possibile dopo la fine della Guerra Fredda: Washington sa che dopo lunedì, chiunque vinca, le relazioni tra Italia e gli Stati Uniti "resteranno eccellenti". Però poi ha aggiunto che le risposte fornite alla soluzione dei problemi da Berlusconi e da Veltroni praticamente si possono "sovrapporre... ed é un bene che ci sia un terreno comune anche perché ci vuole un terreno comune per fare cambiamenti che non sono facili". Insomma Spogli ha detto una verità che al di là delle scaramucce verbali ha distinto questa campagna elettorale italiana. Ma con chi Spogli tra Berlusconi e Prodi, a livello personale, si è trovato meglio a lavorare? "A livello personale sono tutte persone piacevoli, sia Silvio Berlusconi e l'allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, sia Romano Prodi e Massimo D'Alema", ha risposto l'ambasciatore, qui diplomatico fino al midollo.

     

    Ma il piatto forte della serata Spogli lo avrebbe riservato per i problemi dell'economia italiana, che non cresce più. Ecco che qui il linguaggio del diplomatico sparisce per far posto a quello diretto dell'uomo d'affari che, caso più unico che raro in America, in questo caso ha anche una conoscenza così profonda della storia italiana. Quando Albertini ha chiesto cosa l'Italia dovrebbe apprendere dagli Usa, ecco la risposta secca di Spogli: "La meritocrazia. In Italia si deve tornare ad un sistema dove le capacità di competere siano premiate. Parlo soprattutto nelle università e non solo per quanto riguarda gli studenti, ma anche i docenti."

     

    Per cercare di spingere la collaborazione delle idee e delle imprese e stimolare l'economia italiana, Spogli ha ricordato il suo programma "Partnership for Growth", in cui ha praticamente investito molto della sua missione diplomatica. A questo punto abbiamo avuto l'occasione di porre la nostra domanda ricordando quello che Spogli aveva detto, in un pranzo a New York con il Gruppo Esponenti Italiani tenuto a pochi mesi dalla sua nomina, che nella sua missione in Italia egli avrebbe cercato di risolvere un problema grave: quello di essere, l'Italia, il paese europeo che attrae meno capitali americani. Quindi abbiamo chiesto: dopo tre anni il problema non è stato risolto, anche il famoso articolo del New Yortk Times lo ha ricordato. Ma quale sarebbe per Spogli il motivo principale che rende l'Italia ancora così poco attraente? Forse una politica troppo sprecona e troppo coinvolta negli affari? Forse la minaccia della criminalità organizzata? Una giustizia così disastrata da essere un fattore di alto rischio per il business? Quale? Ecco la risposta di Spogli diretta al cuore del problema:

    "Mi verrebbe di dire tutti questi motivi... Già, dagli Stati Uniti vengono investiti più soldi in qualsiasi paese dell'Europa occidentale che in Italia, Portogallo escluso. Parliamo di investimenti cumulativi di diversi tipi di business. È una grande questione quella della mancanza degli investimenti dall'estero, perché cosa significa in realtà essere in grado di attrarre investimenti stranieri? A cosa serve? Questi investimenti sono importanti perché portano conoscenza, il cosidetto ‘know how'. Una volta ho sentito dire ad un businessman italiano che dopotutto non importava, tanto l'Italia i capitali li ha già. Ma non è così, tutti i paesi hanno bisogno di attrarre capitali stranieri, perché con quel capitale arriva anche la conoscenza. Perché i soldi non viaggiano senza essere accompagnati dall'intelligenza, altrimenti non ci sarebbero tutti questi soldi in giro. Quindi si riceve un beneficio tremendo nell'incoraggiare il capitale ad arrivare al business, ad entrare nel paese. Perché il capitale non arriva in Italia? Se dovessi scegliere di dare una risposta, un solo fattore, allora bisogna prima ricordare che l'economia italiana tra le due guerre fu strutturata all'interno di un capitalismo di stato. Durante il fascismo circa il 70% dell'economia del paese era controllata dallo stato. E fino ad oggi noi stiamo ancora vivendo in Italia una incompleta rivoluzione che avrebbe dovuto allontanare l'Italia da quel sistema in cui lo stato controllava tutti i mezzi di produzione. E a causa di quell'incompleto passaggio, manca ancora in Italia quella fiducia nel mercato che invece abbiamo negli Usa. Noi sappiamo che un mercato in competizione è un toccasana per l'economia, come avviene con le università. Noi negli Usa crediamo fermamente nella nozione della competizione. Questo non avviene così in Italia e per questo paga un prezzo. Così una serie di servizi non sono efficenti come dovrebbero perché non c'é il livello di competizione simile agli altri. Quindi fattori che possono stimolare, meno barriere alla competzione più opportunità per il business di entrare in competizione, e infine avere una più positiva attitudine nei confronti del ‘risk taking' come antidoto di lungo periodo allo sviluppo. Si deve dare l'opportunità di poter prendere dei rischi calcolati e non temere che così il sistema diventi squilibrato e ingiusto. Ed ecco il fattore per il quale il business dei capitali americano non viene attratto dall'Italia, perché in qualche modo ci vede un mercato troppo opaco, dove le regole non sono le stesse per tutti. Questa è la ragione per cui manca un investimento dall'estero maggiore. Altrimenti non ci sarebbe ragione per cui certi capitali che vanno così numerosi in altri paesi non vengano attratti anche dall'Italia. Ma si deve avere un sistema che appaia meno complicato e soprattutto dove le regole siano valide per tutti e allo stesso modo, invece di restare più vantaggiose solo per coloro che sono già dentro quel sistema economico".

     

    Una "rivoluzione" ancora tutta da compiere quindi e, ovviamente, Berlusconi o Veltroni permettendo...

    (Published in America Oggi/Oggi7,  April 13, 2008)

  • Facts & Stories

    Napolitano a New York e le "coincidenze" sulla stampa


    Grande trambusto ieri tra la delegazione di diplomatici, consiglieri e la carovana di inviati della stampa che seguivano il viaggio del presidente Giorgio Napolitano a New York. Motivo? Un articolo uscito in prima pagina sul "New York Times" e intitolato "In a Funk, Italy Sings an Aria of Disappointment". Durante la colazione al Council on Foreign Relations, l'ex ambasciatore Richard Gardner aveva iniziato una domanda riferendosi proprio alla "coincidenza" di quel lungo articolo del NYT. Poi, prima della conferenza stampa con i giornalisti italiani al Consolato, la meraviglia nell'osservare i colleghi arrivati dall'Italia far gruppo per cercare di decrittare il linguaggio di quell'articolo del Times.

    Meraviglia perché prima di arrivare al Council on Foreign Relations, l'articolo del NYT a firma del corrispondente Ian Fisher ci era sembrato un bel reportage. Descriveva una realtà in maniera abbastanza precisa. Le insoddisfazioni e i problemi degli italiani, soprattutto dei loro giovani, quelli che conosciamo e che ogni giorno potete leggere in queste pagine. Di quell'Italia "non felice", che rischia la decandenza, che fa fatica a tenere il passo con il resto d'Europa, soprattutto per colpa di quella casta politica che non riesce a guidarla, a far quelle riforme per modernizzarla. L'articolo, secondo il parere di chi scrive, non meritava tutta l'attenzione di "sacrale lesa maestà" all'Italia e al suo presidente in visita a New York. Perché oltre ai fatti, nell'articolo emergeva comunque la simpatia nei confronti degli italiani, sempre in grado di invertire la marcia.

    Quindi meraviglia quando ieri mattina, invece, attorno al Presidente Napolitano non si discuteva di un articolo ben più grave, apparso ieri nella prima pagina di un altro autorevole - e per certi versi più "influente" - quodiano: "The Wall Street Journal". Almeno per quanto riguarda gli effetti finanziari-economici arrecati ad un Paese quando gli si "sporca" l'immagine, il WSJ di danni ne può far ben più gravi del NYT.

    Il titolo del lungo reportage del WSJ era più allarmante: "In Europe, Some Still Cling to Revolution".  Cioè un articolo che analizzava il pericolo del terrorismo interno rosso ("Group Nabbed in Italy Appears to Hark Back to Lethal Red Brigades"). Prendendo spunto da un arresto dello scorso febbraio di una cellula terrorista tra Torino-Milano-Padova, l'articolo poteva lasciare il lettore con la sensazione che i giovani italiani di buona famiglia, non trovando un lavoro che li soddisfi, più che annoiarsi restando troppo a lungo a casa da mamma e papà (come si leggeva sul NYT), semmai correvano il pericolo di essere arruolati e diventare militanti terroristi, in un Paese ancora facile preda di una ideologia comunista non sepolta e che riesce a far proseliti per la lotta armata.

    Al Presidente Napolitano, che sfoggia un perfetto inglese, gli sarebbe bastato guardare solo il titolo, dove non c'era "In Italy, Some Still Cling..." ma "In Europe, Some Still Cling to Dream of Revolutions". Cioè non una manciata di isolati tra milioni di italiani sperano ancora nella rivoluzione, ma in qualcuno dei Paesi europei si sogna ancora la rivoluzione...

    A Napolitano abbiamo posto una domanda su una "terza coincidenza" avvenuta a Washington mentre incontrava Bush (ma di questo ne scriveremo sul magazine Oggi7 di domenica), ma gli abbiamo fatto notare anche che tra le due "concidenze" newyorkesi, quella del WSJ ci sembrava ben più grave di quella del NYT.  Il presidente sopreso ci ha detto: "Vedo che lei è più informato di me..." Cioè, l'articolo del WSJ il Presidente non lo aveva ancora visto!

    Si voleva discutere della "coincidenza" di far uscire certi articoli sull'Italia proprio quando il suo Presidente parla a New York? Allora sarebbe stato meglio portare Napolitano nella redazione del WSJ. Invece, abbiamo saputo, è stato ospite nel Palazzo del "New York Times", quello disegnato da Renzo Piano. Lì avrà anche convinto sulle potenzialità dell'Italia, certamente. Ma quando il NYT scrive che in Spagna nel 2004 arrivavano investimenti Usa per $ 49.3 miliardi mentre quelli destinati in Italia erano solo 16.9 miliardi, a determinare questa situazione sono quei manager di fondi che mostrano di avere sempre più scarsa fiducia nel Bel Paese e che purtroppo leggono prima il WSJ. 

     

    (Pubblicato su America Oggi del 14 dicembre 2007)

  • Life & People

    Books. A Day in the Life of Lucia



    In a world where thousands of lives are woven together but never intersect, sometimes it will happen that one of the more extraordinary of those lives, after having faced and survived the darkest century, at the age of 106 – and just a month before her death – would meet another, only a quarter her age, and destines her to be the witness to the strength of her passage.

     

    Lucia Servadio Bedarida, born in Ancona in 1900, died last year in Cornwall-on-Hudson, a village 50 miles from New York. Between these two places is the life of a woman that everyone will now be able to know and be moved by her: a woman that embodies the value of attachment to life, the value of every life.

     

    This is how it all came about.

     

    Olivia Fincato is a young freelance journalist, born in 1980 in Bassano del Grappa. After getting her college degree in Milan, she was offered a job by an esteemed professor, but instead of accepting she left for New York.

     

    Olivia knew a few people among which Giovanna Adler, another Italian woman living in the Hudson Valley. Giovanna was friends Lucia Servadio Bedarida and felt the urge to introduce her centenary friend to the young and sensitive Olivia. “I introduced Lucia and Olivia in the fall of 2005…I listened in silence, feeling their vibrations. On one side youth, ready to embrace life, searching for the secret of survival. On the other side Lucia, wanting to reveal that secret to someone ready to listen and understand her words…” so writes Giovanna in the preface to “Un giorno con Lucia” [A day with Lucia] (ed. Zeropuntozerozero, 2007) by Olivia Fincato and Renato D’Agostin.

     

    But that first exciting meeting between Olivia and Lucia is interrupted almost immediately. Olivia asks Lucia about that beautiful antique chair, and she answers that it was her mother’s, who died at Auschwitz along with her grandmother: “Please go now. Come again.”

     

    “Her calm and quiet recollection suddenly soured and became painful and the thin membranes can’t hold the weight. We slipped down to the depths of the most terrible memories of humanity.” Olivia will write in the book, of why she has to leave that day, certain to return.

     

    Some weeks later Olivia calls Lucia, who responds: “What took you so long? When are you coming back?”

     

    Olivia goes back to Cornwall but this time she brings Renato D’Agostin with her, another young Italian talent living in New York: a photographer born in 1983. She has just met him, but all she needed was to look at a couple of Renato’s photos to have an intuition. “Would you come with me, there is this wonderful 106-year-old lady…I don’t have a budget, I’m not sure what I’m doing…want to come?” “I said yes immediately,” remembers Renato, “because I felt an incredible energy coming from Olivia. I didn’t know what to expect but I knew I had to go.”

     

    “We both liked the idea of taking portraits of her during the conversation,” Olivia will write, “without being indiscreet or intrusive. We didn’t know what Lucia’s reaction might be in front of the camera. We were going to see her the coming week.”

     

    On March 16th, 2006 in that village on the Hudson it was “one of those first spring days, fresh, bright. Lucia was in her study when we arrived. A small desk, two small armchairs and dozens of photos hanging on the walls filled the room. It was her life. It could be seen by how every memory had its own specific place. From Ancona to Vasto, from Tangiers to New York. What was left, what had survived through time and space, was there, in that room, with us.

     

    Lucia immediately broke the veil of embarrassment by asking me to reposition her hearing device so she could hear. I had never done it. I approached her head and delicately inserted one of those tiny devices in her ears.”

     

    “Thank you. Now I feel like a normal person. Ask me anything you want, I belong to you now.”

     

    In the hours spent with the two young artists in the room facing the Hudson, Lucia Servadio Bedarida remembers her life, opening herself up to 106 years of memories. Olivia and Renato’s book tells the story of Lucia but it’s not a biography as much conversation between her and the author as the photographer adds depth to the dialogue with images. Lucia’s hands become the guiding force of the story. Olivia only has to hint at something that Lucia brings words to life with her hands. “Those hands that gave so much to life” Olivia writes.

     

    “The sharp cuts of life, the horrible loss of her mother, the suffered separation from her daughters, and finally the death of her husband. These are events that Lucia was able to face with courage while continuing in her mission as doctor…

     

    Dr. Lucia Servadio Bedarida, was first the youngest doctor in Italy and then the first female doctor in a Muslim country and mother, Mama Rida, of all her patients”

     

    “... I had a revelation and I knew that studying medicine was the path that I was to follow. I have to say that in my 65 years in the medical field I have never regretted it.... When I remember how I felt, this influence on the female spirit to cure those in suffering, it must have been strong in that moment because many young lives were being shattered and many others were subjected to incredible suffering”.

     

    Lucia Servadio receives her medical degree in 1922 in Surgery and Obstetrics at the University of Rome. A short while later she marries a doctor from Turin, Dr. Nino Vittorio Bedarida. They have three daughters: Paola, Mirella, Adria. He is transferred to the hospital in Vasto. They are in this small town in Abruzzi when suddenly they lose everything due to the Racial Laws of 1938. Nino and Lucia have to save their family, and try to leave Italy. They succeed, after many unsuccessful and costly tries, thanks to one of Nino’s former students, who is able to get him a job in a private clinic in Tangiers, Morocco.

     

    Lucia tries to get her mother Gemma Vitale Servadio to come to Tangiers as well, succeeding through many difficulties in getting a permit for her, but Gemma is not able to leave her own mother, Nina Levi Vitale – Lucia’s grandmother – behind. Both will later suffer the wrath of the Nazis and Fascists.

     

    Nino and Lucia work side by side in North Africa, with great success. He dies in 1965, after a long illness, and she continues alone, practicing her profession in Morocco until 1980. At the end of the war she had sent her daughters to study in the United States, where they would be able to start new lives. She crosses the ocean many times, but she never lets go, as long as she has her strength, of her Muslim women who only want to be treated by “Mama Rida”, for years the only Jewish, as well as female, doctor in an Islamic country.

     

    In the early eighties Lucia goes to the United States to live with her daughters in Cornwall-on-Hudson. A quarter of a century later, and a few days before her death, comes the meeting with Olivia and Renato. A book emerges from this incredible meeting between two women captured in D’Agostin’s amazing photographs (the photographs are on exhibit at the Italian Cultural Institute in New York).

     

    When Olivia asks “what has guided and accompanied her through that century – witness to violent changes, survivor of the unjustifiable Nazi hatred and courageous in letting herself be affected” here is Lucia’s answer: “Having faith in life, life is stronger than death. The Jewish faith emphasizes life”.

     

    Last Thursday the Italian Cultural Institute in New York celebrated the book. In an overflowing room, Renato Miracco, director of the Institute, spoke of how moved he was and how he had believed in this project from the beginning. Even though he hadn’t met Lucia personally, he say that he could feel her presence in the room and at the end of his opening remarks he addressed her, thanking and welcoming her.

     

    The Consul General Francesco Maria Talò in his remarks mentioned he was curious to know more of the story of the “Italian Citizen of the World” that was known by his employees at the consulate because in the last few years she would often go there to pick up her “Certificate of Existence”.

     

    Giovanna Adler spoke as well, the person responsible for introducing Lucia and Olivia, and more than friend – Lucia called her “my adopted daughter”. Historian Stanislao Pugliese, who read an excerpt from a speech Lucia gave at a conference in 1996 on Italian Jews held at Hofstra University. Stefano Albertini, the director of NYU’s Casa Italiana Zerilli Marimò, remembered how Lucia was the only one, amongst thousands, that responded to all the invitations for the Casa Italiana events, even when she was unable to attend…Albertini remembered how Dante reminded us that we all carry the scars of our own existence, and that those wrinkles on Lucia’s hands, forever immortalized in the photographs by D’Agostin, transmit the courageous message of that life.

     

    Olivia Fincato and Renato D’Agostin founded a publishing house to produce their book. When I asked them how the meeting with Lucia would influence even their professional lives, they paused for a second…then they said they would continue to try and give a voice to lives that deserve to have their stories told. This will be the purpose of the publishing house, created with limited funds and means, but made strong by Lucia’s message of how life should be faced.

     

    Olivia Fincato and Renato D'Agostin “Un giorno con Lucia” [A Day with Lucia] (ed. Zeropuntozerozero, 2007)

     

    For more information on the book contact@zeropuntozerozero.com www.zeropuntozerozero.com

     

    Sunday December 16th at 4 pm, at the Center for Jewish History the event: “Lucia Servadio Bedarida: from Rome to Tangier, the journey of a Jewish doctor.” (15 West 16th St, New York, tel. 917 606 8202)

     

     

    (Translated by Daria Masullo)

     

  • Facts & Stories

    Libri. Mario Calabresi. La verità della sofferenza


    "Spingendo la notte più in là" (Mondadori, 2007) è il bellissimo libro scritto da Mario Calabresi, figlio primogenito di Luigi, il Commissario di polizia ucciso a Milanonel 1972. Calabresi cadde sotto casa, ucciso a colpi di pistola dopo essere stato prima oggetto di una intensa campagna denigratoria alimentata da numerosi giornali che lo avevano indicato come il poliziotto responsabile della morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della Questura nei giorni convulsi dopo l'attentato di piazza Fontana. Un libro, quello del figlio Mario, che finalmente racconta all'Italia una parte tragica della sua storia da una prospettiva diversa da come finora era stata divulgata. Il risultato è importante, quelle pagine sono una boccata di aria vera. Non un libro rabbioso, ma un libro al quale per far capire meglio cosa furono quegli anni basta semplicemente ricostruirli insieme a chi ha sofferto di più (nel racconto Mario entra in contatto con altri familiari di vittime del terrorismo ideologico).  



    Mario Calabresi è un mio amico, conosciuto 15 anni fa a Boston, prima che diventasse un giornalista famoso. Ero con lui durante la sua prima esperienza giornalistica, una bella intervista con Arthur Schlesinger jr, il grande storico americano recentemente scomparso. Da allora Mario non si è più fermato. Dopo essersi fatto le ossa all'Ansa, la chiamata a Repubblica, breve passaggio alla Stampa, e poi di nuovo al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari dove Mario è salito rapidamente fino al gradino di capo redattore centrale. Ora, per scelta passionale più che carrieristica ("forse potevo diventare vicedirettore, ma volevo venire a New York") fa il corrispondente dagli Stati Uniti, il lavoro che aveva sempre sognato. Quel bambino costretto dalla follia degli assassini del padre a farsi forte per spingere le notti più in là, ora è un uomo felice. Sposato con Caterina, Mario Calabresi è padre di due gemelle nate proprio a New York.



    Questo libro così importante per cercare di capire l'Italia e gli italiani, viene presentato alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University martedì 27 novembre, alle 6 pm. Oltre all'autore, ci sarà anche il direttore di Repubblica Ezio Mauro.

    Quella che leggerete non si può definire una vera e propria intervista. E' semmai un dialogo in cui si è cercato di provocare l'autore-amico per tirargli fuori quello che magari qualsiasi lettore si sarebbe aspettato di trovare nel libro. Ero arrabbiato per lui infatti, per la vita che quel bimbo aveva dovuto sopportare da quando era rimasto terrorizzato attaccato alla gonna di sua madre il giorno che disperata piangeva alla notizia che avevano sparato sotto casa ad un commissario. Cercavo certe parole da lui che invece, finalmente mi rendo conto, non ci potevano essere nel suo libro. Mario definitivamente convince che quel suo libro è perfetto così, perchè così fa conoscere meglio certe verità importanti, necessarie per capire veramente quegli anni. Non avrebbe potuto farcela una rancorosa rabbia in cerca di vendetta, ma solo la forza del carattere cresciuto in un bambino protetto da una eroica madre, il carattere giusto di un giovane uomo capace di esprimere a testa alta la superiorità dei valori trasmessi da chi in quegli anni cadeva vittima della follia terrorista.

    Mario Calabresi lavora da un ufficio in cima ad un grattacielo sulla Madison. Si vedono le luci di mezza Manhattan. Un attimo prima di accendere il registratore immaginiamo l'orgoglio del padre nel vederlo così in alto.

    Mario Calabresi

    Per trent'anni negli scaffali delle librerie italiane si vedevano solo libri sul terrorismo scritti dai terroristi, mai dal punto di vista delle vittime. Era questo il tuo scopo, dar voce alle vittime?

    "Il dibattito italiano sugli anni settanta e il superamento di quella stagione era fatto con una sola voce, quella degli ex terroristi, la storia la stavano raccontando solo loro, ed erano loro gli unici interlocutori della politica e dei giornali. Mancava completamente la voce delle vittime. Naturalmente queste non possono più parlare, ma mancava totalmente la loro memoria e mancava un punto di vista che facesse emergere come gli anni settanta, la stagione del terrorismo avesse lasciato il segno, nel senso di aver provocato lutti, distruzione, strappi e mancanze. Allora io per tanto tempo ho aspettato e mi auguravo di poter trovare un libro che invece riequilibrasse la situazione. Ad un certo punto non trovandolo mi sono detto: allora è proprio necessario fare questo libro, lo devo proprio scrivere."



    Ma perché si è dovuto aspettare così tanto, che dovesse arrivare un giornalista figlio di una vittima per scrivere questo libro, perché non è successo prima? Te lo sei spiegato il motivo?

    "Diciamo così, le vittime sono più faticose, perché portatrici di dolore, faticose da gestire, certe volte possono essere imbarazzanti, certe volte possono essere recriminatorie, poi creano anche problemi, creano disagio, quindi era molto più facile rivolgersi a quelli che avevano sparato, gli ex terroristi i quali avevano delle storie più spendibili, anche più avvincenti, avevano continuato a vivere... cioè tutta la società ha avuto più attenzione, ha prestato più orecchio a quella parte."

    Il "cattivo" è sempre più affascinate del buono? Oppure perché molte coscienze sporche magari facevano sì che... "Guarda il primo motivo è quello che dicevo prima, perché c'è una fascinazione verso quello che tu chiami ‘il cattivo' ma ci sono altri motivi, uno di questi è una sorta di, chiamiamola compiacenza generazionale. Cioè la generazione di chi ha fatto gli anni settanta, anche la gran parte delle persone che hanno contestato la società e sono scesi in piazza quegli anni e poi non hanno preso mica le armi, non hanno sparato, per carità, però in un certo senso..."

    Qui Mario fa una pausa un po' più lunga, cerca le parole giuste, e dice: "Hanno evitato di giudicare con troppa severità, hanno cercato di salvare quegli anni".

    Hanno evitato di fare i conti col passato...



    "Sì, non sono stati fatti i conti fino in fondo. Perché voleva dire per molti fare i conti con la propria gioventù, con gli anni dell'università, con gli anni di quando si è giovani e che sono gli anni in cui tutte le generazioni, chiunque ricorda sempre con nostalgia, dolcezza e per molti significava fare i conti con quegli anni e non hanno avuto voglia di farlo. E poi perchè nel mondo intellettuale italiano avevano riconosciuto tardi il fenomeno terroristico. Avevano riconosciuto tardi, per esempio, la sua appartenenza all'area della sinistra, lo avevano sottovalutato, ci avevano flirtato, basta vedere i documenti che accusavano mio padre, firmati da centinaia di intellettuali. C'era stato un conformismo intellettuale e quindi in un certo senso era più facile rimuovere, da parte di tutti, e cercare di chiudere la stagione piuttosto che riaprire..."



    Allora questo libro ha dato fastidio a certe coscienze che...

    "No, non ha dato fastidio in Italia, ha un grande successo di vendite. La reazione non è stata di fastidio. Devo dire che invece la reazione, anche in modo inaspettato per me, è stata di sollievo.  La reazione di chi mi ha scritto, di chi mi ha telefonato è stata ‘finalmente, siamo usciti da un conformismo in cui si dicevano sempre le stesse cose, sempre e solo una rilettura stereotipata, ecco finalmente si da voce...' Tante persone normali che hanno vissuto gli anni Settanta, erano bambini, ragazzi o erano genitori, erano adulti e ricordavano l'ansia e l'angoscia in famiglia, con cui si viveva in Italia in quegli anni per la paura della violenza, ecco queste persone hanno detto: ‘finalmente si riconosce che la violenza ha portato distruzione, dolore...' E anche tante altre persone, con grande onestà, che ai tempi stavano sulla barricata opposta a quella di mio padre, hanno trovato questo libro scritto in una forma dialogante, perché la mia idea non è di regolare i conti e usare il libro come un manganello. E' un libro che vuole rimettere a posto le cose, restituire spazio alla memoria, però guardando avanti, perché il paese non può stare inchiodato in questo scontro perenne. Allora ci sono persone che sono state capaci di rimettersi in discussione, di riconoscere gli errori che sono stati fatti, riconoscere l'errore della violenza".

    Appunto nel dire che poteva dare fastidio, non mi riferivo al lettore normale, ma invece a chi deve avere la coscienza sporca perché pur ricoprendo certi ruoli, quando poteva dire o anche scrivere certe cose non lo ha fatto. Per non aver agito né allora né dopo, anche da posti di grande responsabilità... Ma si rimane sconvolti leggendo il libro quando si vede come tuo padre, dalla campagna di stampa contro di lui, sapesse bene cosa potesse capitargli, tu descrivi le lettere di minacce che lui raccoglieva dalla cassetta la mattina presto per non farle vedere a tua madre... Ecco, come è possibile uccidere il commissario Calabresi così, sotto casa? Nessuno lo proteggeva? Dove erano quelle istituzioni quando dovevano proteggere chi era più esposto?  Ci viene in mente Libero Grassi, l'imprenditore palermitano che dopo le denunce del pizzo viene ammazzato come un cane sotto casa, come Calabresi. O anche il povero professor Biagi, nonostante le minacce e le richieste di aiuto allo Stato e agli amici dentro le istituzioni, anche lui ammazzato sotto casa...  Come è potuto succedere, come si poteva ammazzare sotto casa Calabresi così facilmente, nonostante certi articoli che praticamente annunciavano la sua esecuzione su Lotta Continua...



    "Perché era la prima volta! Mio padre è stato il primo in Italia ad essere ammazzato per motivi politici.  Probabilmente ci fu una sottovalutazione da un certo punto di vista grave, però non si pensava che questo potesse accadere, probabilmente, io penso. Guardando con il senso di poi è terribile, è tutto chiarissimo ma con il senno di allora forse non era così chiaro".

    Insistiamo, anche se ci viene difficile. Mario, eppure come racconti nel libro, tuo nonno avverte tuo padre, gli offre pure un lavoro per andare via da Milano, ma lui rifiuta.

    "No guarda, in famiglia la sensazione del pericolo era fortissima, mio padre sapeva. Probabilmente una sottovalutazione a livello..."

    Ma la lezione non sì è imparata, vedi Biagi trenta anni dopo...

    "E infatti io dico che la scorta mancata a Biagi è sicuramente più grave che la scorta mancata a mio padre".



    Quel particolare che il pentito Marino racconta nel processo, che l'attentato doveva avvenire il giorno prima ma non trovarono la macchina, infatti posteggiata altrove come era segnato nel diario di tua madre... Ecco questi riferimenti nel libro sono messi per sottolineare come tu e la tua famiglia credete al pentito Marino e alla colpevolezza degli imputati condannati?

    "Se mi stai chiedendo cosa noi pensiamo del processo giudiziario, sicuramente per noi le sentenze sono corrette, le rispettiamo e pensiamo che il lavoro che è stato fatto sia stato serio e scrupoloso."

    Magari dei tempi della giustizia un po' vi potreste lamentare...

    "Beh, ci sono state le richieste di revisione etc etc che hanno allungato i tempi del procedimento. Ma quelli sono i tempi della giustizia italiana".

    Nel libro ricordi quando scopristi che nel Corriere della Sera ci furono soltanto 4 necrologi non dovuti per tuo padre. Che effetto ti ha fatto scoprire che la tua città, Milano, reagì così all'assassinio di tuo padre, un poliziotto?

    "Ho capito che la propaganda costruita contro mio padre era stata talmente forte, talmente efficace, che lo aveva completamente distrutto da lasciarlo solo persino quando era morto. Secondo che la paura in città era talmente forte che nessuno voleva venire allo scoperto di essere dalla parte di mio padre. E terzo c'era un tale conformismo tra tutti quelli che avevano fatto la lotta contro mio padre che nessuno voleva uscir fuori, sono stati tutti zitti. La propaganda, la paura e il conformismo."

    Per tanti anni nessuno ricorda con una targa Calabresi.

    Solo quest'anno la città di Milano ha ricordato il commissario assassinato. Perché tutto questo ritardo?

    "Il motivo è lo stesso di prima. Perché in Italia non c'erano i libri, non si era mai coltivata la memoria delle vittime del terrorismo. Sono state rimosse e dimenticate. Mica mancava solo la targa di mio padre, ne mancavano e ne mancano tante altre... dall'altra parte perché su mio padre c'è stato per tanto tempo una sorta di macchia con questa campagna che era stata fatta contro di lui, di essere l'assassino dell'anarchico Pinelli che anche quando era stato, al di là di ogni dubbio dimstrato che mio padre non c'entrava nulla, era stata fatta ormai una campagna talmente forte che lo aveva comunque macchiato..."



    Ma vuoi dire che chi fece questa campagna estremista riuscì a condizionare anche le istituzioni?

    "In un certo senso sì, è così, sì. E sono riusciti anche a superare le generazioni. Oggi ci sono ancora dei ragazzini che ad una manifestazione per la Palestina gridano contro i militari italiani in Iraq e poi scrivono anche sul muro ‘Calabresi assassino', parliamo di ragazzi nati nel 1988!"

    Nel libro racconti del tuo incontro con Antonia, la figlia del poliziotto Antonio Custra, lei ti dice che uccidendole il padre gli hanno spezzato la vita... Nel libro fai vedere come le vittime siano molto diverse. Ma sei forse tu, con questa forza che spinge la notte più in là, l'anormale? Tu hai avuto la fortuna di avere una madre, Gemma Calabresi, sorretta da una grande fede, religiosa ma anche civile, un donna giovanissima al momento della tragedia e che si rivela fortissima e che salva la sua famiglia...



    "Guarda che ci sono differenze anche nella mia famiglia, mio fratello più piccolo ha reagito diversamente da me. Perché le persone hanno percorsi diversi. Mia madre ha lavorato molto su di noi. Io so di tante altre donne vedove di terrorismo che magari non ce l'hanno fatta. Io conosco una famiglia alla quale è stato ucciso il padre, e magari non se ne parla più, si fa finta di niente. Si vive in questo dolore che magari non è stato mai affrontato perchè troppo grosso."

    Nel caso di Custra, lei non sapeva neanche il nome dell'assassino di suo padre, glielo dici tu...

    "Già, e questa estate lo ha incontrato. Questo l'ha aiutata, perché incontrandolo ha visto che oggi è un uomo distrutto e disperato, e questo, lei mi ha raccontato, le ha dato sollievo, sì vedere che non è che chi ha ammazzato suo padre abbia vissuto alla grande ma che ha pagato un prezzo. Col carcere ma anche con un senso di colpa. Questa persona le ha detto di essere devastata dall'idea di averle distrutto la vita. Questo le ha dato la sensazione di aver scosso qualcosa dentro di lei.

    Questo alla famiglia Calabresi però non è successo. Quelli che sono stati ritenuti gli assassini e mandanti, non si sono mai pentiti... Ecco voi avete avuto una verità giudiziaria, ma quanto è importante ancora per voi che queste persone paghino col carcere fino in fondo e anche una loro ammissione di colpa e, magari, pentimento, quanto sarebbe importante per voi?

    "Per noi, dopo tanti anni, soprattutto il carcere ora non restituisce nulla. Le cose che a noi stavano più a cuore erano: fare giustizia per avere chiarezza. Dati certi, verità. Ma che alla fine  questi qui dicessero sì, no, ci dispiace non ci dispiace, non ci cambia niente francamente. Però noi ci tenevamo che venisse riabilitata la figura di mio padre. Cioè che venisse ripulita la sua immagine. Come era giusto che fosse e che gli venisse restituito l'onore che gli spettava, che si tenesse viva la memoria. Io credo che questo siamo riusciti a farlo. Se pensi che mio padre fino a qualche anno fa era tenuto in un limbo perché era considerato un po' imbarazzante, oggi è invece una persona che ha ricevuto la medaglia d'oro dal presidente Ciampi alla memoria, un francobollo, una via a Roma intitolata a lui, le lapidi a Milano".



    Tutto però arrivato con terribile ritardo...

    "Ma non è che hanno meno valore. Io penso che questi riconoscimenti, seppur tardivi, siano importanti, sono da apprezzare e noi lo facciamo".

    Ma queste istituzioni fanno venire anche rabbia, alla figlia del poliziotto Custra, quando è il momento di aiutarla, lei che ha fatto il liceo classico, gli offrono un lavoro da spazzina, lei dice nel libro che diventa la prima spazzina donna di Napoli...

    "Sì, e io questo lo chiamo analfabetismo delle sensibilità, e da parte delle istituzioni sarà certe volte spaventoso.  Hanno avuto più senso delle istituzioni i familiari delle vittime del terrorismo piuttosto che le istituzioni stesse".



    Ma il sacrificio di tuo padre per uno stato che alla fine soffre di queste mancanze, di questo "analfabetismo", ecco ne valeva la pena? Quando tuo nonno gli offrì quel lavoro e lui lo rifiutò per senso del dovere, ma nei confronti di uno stato così assente?

    "Diciamo una cosa chiara, mio padre non è che anelasse a diventare un martire, lui amava la vita, sperava di vincere. Sperava e voleva far bene fino in fondo il suo lavoro. Ma non è che se le istituzioni non sono quelle che vorremmo, allora noi dobbiamo essere vigliacchi o cialtroni. Altrimenti tutto andrebbe a rotoli in Italia. Secondo me la lezione di mio padre è che uno deve tenere fede alla propria idea che ha delle istituzioni. Non è che pensando che se le istituzioni sono mediocri io mi comporto da mediocre."

    Ma più che le istituzioni mediocri, in questo caso sembrano cialtroni certi uomini che ne facevano parte...

    "Esatto. Noi in questi anni abbiamo sempre avuto rispetto per la magistratura, rispetto per le sentenze, mia madre ci ha insegnato questo.  Tante volte lo stato è stato carente, ma cosa avremmo dovuto fare noi? Rimettere in discussione le nostre convinzioni? No, noi abbiamo continuato con le nostre idee, altrimenti se lo stato è vile, ritardatario o semplicemente disordinato e burocratico, allora noi dobbiamo adeguarci ad esserlo anche noi? No".

    Tuo padre eroe per forza. Ma nel libro emerge un'altra figura eroica, tua madre.

    "Io ero partito per scrivere un libro su mio padre e quando l'ho riletto ho avuto la sensazione di aver scritto un libro su mia madre. Alla fine si vede che mia madre ha espresso il meglio per trent'anni fino ad oggi di quello che era ‘la lezione' di mio padre. Lei ha fatto poi di più, ha fatto un grande lavoro di scommessa sulla vita. E' una cosa bellissima, lei ha detto dobbiamo tutti i giorni vivere con passione non dovete coltivare l'odio, il rancore, la vendetta. Dovete coltivare la memoria e la giustizia. Perché odio e vendetta sono sentimenti che si mangiano la passione, la voglia di vivere. Quindi, ci diceva, vi impediranno nella vita di potere fare cose, di innamorarvi, di farvi una famiglia, di divertirvi, di appassionarvi ad un lavoro, perché sarete sempre presi dalla rabbia. Se, coltivando sentimenti negativi, ogni giorno vi svegliate rabbiosi, i terroristi avranno vinto ogni giorno. Perché significherà che ogni mattina della vostra vita, il gesto dei terroristi l'avrà determinata e condizionata".



    E arriviamo al punto quando tu racconti nel libro che, prima di accettare il lavoro a Repubblica, dove scrive pure Adriano Sofri che è stato condannato per l'assassinio di tuo padre,  chiedi consigli a tua madre. Lei,  nell'esortarti ad accettare, dice che tuo padre non avrebbe voluto che chi ti ha fatto del male possa continuare a condizionare la tua vita. E' una pagina intensa, che spiega la scelta di Mario Calabresi di lavorare a Repubblica. Eppure, onestamente, appare assurdo che la tua firma, giornalista ormai affermato, si veda ancora accanto a quella di chi è stato condannato come mandante dell'assassinio di tuo padre. Ma non è una cosa strana che accada ancora questo?

    "Sì, è una cosa strana. Io penso di averla spiegata con chiarezza la mia decisione. Soprattutto in questo momento, che sono a New York e racconto gli Stati Uniti, seguo la campagna elettorale, ho avuto due figlie che sono nate qui, che sono americane, soprattutto adesso che vedo tutte queste cose che mi piacciono, che penso sono importanti, che mi stanno dando una visione del mondo, ecco vedo tutto questo e penso: e io avrei dovuto rinunciarci per colpa di Adriano Sofri? No. La cosa che mi sta a cuore chiarire è questo. Non è che io per stare a Repubblica mi sia acconciato le mie idee, mi sia nascosto. Tanto che ho scritto un libro, che forse è il primo libro in Italia che dice apertamente quali sono i danni che i terroristi hanno fatto al nostro paese. Non mi sono nascosto, io sto a testa alta, fiero della mia storia e del mio cognome, senza imbarazzi".



    Ha fatto sicuramente bene Mario a continuare la sua formidabile e meritata carriera di giornalista nel più letto quotidiano d'Italia. Semmai spetterebbe ad altri ovviare alla stranezza unicamente italiana e non far apparire più quelle firme insieme sullo stesso giornale.

    Bisogna spingere via il rancore per poter andare avanti, per vivere e poter essere felici e non far vincere così chi ci ha fatto del male. Un messaggio nel libro di Calabresi per tutte le famiglie italiane vittime del terrorismo, ma anche un messaggio universale.

     

    Pubblicato su Oggi7 del 25 novembre 2007

  • Facts & Stories

    Libri. "La Casta". Ma i "palazzi" tremano veramente?


    E’ il caso editoriale italiano degli ultimi anni, è arrivato alla Ventunesima edizione e nella saggistica ha battuto tutti i record: un milione di copie. “La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili” (Rizzoli 2007), scritto a quattro mani dai giornalisti del Corriere della Sera Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, da circa sei mesi fa tremare i Palazzi della politica italiana. Il libro è uno spietato elenco degli sprechi e dei privilegi accumulati negli ultimi anni dalla classe politica italiana, una casta appunto. E Stella e Rizzo non hanno messo alla sbarra solo i politici attivi a Roma, ma anche coloro che fanno politica a livello regionale e locale, provando che questi si lasciano andare agli stessi sprechi e spesso anche più dei colleghi che lavorano nei Parlamenti nazionali.



    All’Istituto Italiano di Cultura di New York, lunedì scorso la sala era pierna per la presentazione del libro più venduto d’Italia. C’era infatti a dibatterlo uno dei co-autori, Gian Antonio Stella, editorialista del quotidiano di via Solferino. Claudio Angelini, in uno dei suoi ultimi interventi da direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, ha introdotto il libro di Stella ricordando come i dati e le cifre oggettive contenute riportano “notizie ustionanti”. E subito dopo Giampaolo Pioli, corrispondente del Quotidiano Nazionale e presidente dell’Associazione corrisponenti italiani in Nord America, ha aggiunto che il libro di Stella e Rizzo “si legge come una fiction senza che lo sia,” facendo notare come “più che nella casta, si scava sulla crosta del politico, dalla sua carriera iniziale fino a quando, non più eletto, continua ad essere ben dentro il sistema...”



    Pioli ha subito chiesto a Stella  una domanda che ci siamo fatti in tanti: perché questo successo editoriale adesso? Questo libro non poteva essere scritto 20 anni fa?

    “No, non poteva essere scritto così 20 anni fa” ha replicato deciso Stella, aggiungendo: “Loro – i politici, ndr – dicono che poteva essere scritto 20 anni fa, dicono che è sempre stato così... ma non è vero, è falso. Negli anni ’50 c’era molto meno spreco. Esisteva un’Italia più sobria.  E anche negli anni a seguire dire che era esattamente come oggi è sbagliato, è un modo per discolparsi. Faccio un esempio: fino a 15 anni fa le spese per il Quirinale erano uguali a quelle di Buckingham Palace, ora sono quattro volte e mezzo quelle inglesi. E così vale anche per le Camere del Parlamento. Ora non si può dire che è sempe stato così.  Loro lo dicono, ma non è vero.  L’impennata degli sprechi c’é stata negli ultimi anni, dopo il crollo del Muro di Berlino.  E’ come se rimasti senza ideali, i politici abbiano pensato che l’unico scopo rimasto per far politica fosse quello di arricchirsi...”



    Dopo questo primo assaggio di Stella, è stata la volta del giornalista del Corriere Renzo Cianfanelli che ha subito elogiato il proprio collega di testata che “diversamente da molti palloni gonfiati, scrive le opinioni documentandosi con dati precisi. Lui afferma che la politica oggi in Italia si fa per far soldi e questi giudizi taglienti li supporta con i fatti...”

    Stella ad un certo punto ha ricordato un colloquio avuto qualche tempo fa con Giulio Andreotti, quando, ormai in confidenza con l’anziano senatore, gli chiese spiegazioni sullo spaventoso deficit pubblico accumulato durante i suoi governi. “Ricevetti questa incredibile riposta, inimmaginabile in America: ‘Sai’ mi rispose il senatore ‘in quegli anni far politica ci sembrava una cosa così nobile che ci sembrava male occuparci dei costi...”



    Quando Pioli ha punzecchiato Stella, ipotizzando che il suo libro potrebbe ormai diventare il “libretto rosso” di Beppe Grillo, il giornalista del Corriere non si è scomposto: “Io credo che Grillo abbia fatto delle battaglie sacrosante negli ultimi anni. Negli ultimi mesi non sono d’accordo con certe sue posizioni. Per esempio non sono d’accordo quando vuole la distruzione dei partiti. Anche a me non piacciono quelli di oggi, ma la democrazia ha comunque bisogno dei partiti. Senza i partiti c’é la dittatura. Però devo far notare che da quale pulpito si attacca Grillo” ha aggiunto Stella, “cose da far venire la pelle d’oca...”

    Poi Stella ha cominciato a rivelare il motivo che lo ha spinto a fare un libro del genere e forse anche le ragioni del successo de “La Casta”: “La denuncia di certi assurdi privilegi oggi serve perché in Italia non si governa più. L’età media dei suoi cittadini è di 42 anni contro i 26 del mondo; nel 2016 avremo più di 17 milioni di persone con più di 60 anni, quasi cinque milioni avranno più di 80 anni... Una classe dirigente seria avrebbe fatto già da tempo una riforma delle pensioni seria. Invece, come c’è scritto nel libro, abbiamo non solo chi è andato in pensione a quarant’anni, ma persino chi ci è andato a 29 anni, come una bidella... Certo, gli italiani ora potrebbero dire: ma perché proprio con me si deve cambiare... E così abbiamo anche le baby pensioni per i deputati... ma un grande paese non può più essere governato così, non può più.”

    “Il nostro paese ha invece tanto bisogno di essere governato” ha continuato Stella, “e ha tanto bisogno di una classe dirigente.”



    A questo punto è stato chiesto: ma siamo sicuri che gli italiani vogliano veramente essere governati?

    “Se potessimo isolarci del tutto, chiudere i confini, essere autosufficenti, potremmo benissimo rimanere come siamo. Ma se vogliamo continuare a far parte di una società globale, e quindi essere competitivi e mantenere un certo benessere, allora non abbiamo scelta. Questa classe politica è un peso che non possiamo più permetterci. Ma vi rendete conto che a Vibo Valentia, diventata provincia da pochi anni, si discuteva per mesi su quale dovesse essere il Santo Patrono della Provincia, se dovesse essere San Bruno il tedesco... e quando ormai erano quasi d’accordo, succede che il partito della Margherita si divide tra rutelliani e quelli fedeli al governatore Loriero. E allora sapete che succede? Che la discussione diventa se deve essere deliberato che sia San Bruno appoggiato dai rutelliani o San Francesco di Paola che invece trova le preferenze dei loreriani.. così alla fine, ‘visto e considerato che’ e tanti bla bla, santo Patrono sarà San Bruno e San Francesco sarà Santo Protettore. Capite? Capite dove stiamo andando a finire?”

    Ogni volta che Stella portava uno dei disarmanti esempi del livello di incapacità al buon governo contenuti nel suo libro, poteva venir sì da ridere, ma dentro dentro si può solo piangere. Perché si scrive un libro come la Casta? Cosa si vuol ottenere? “Il libro” risponde Stella, “è un atto d’amore nei confronti dell’Italia, un paese che  gli autori di questo libro amano e che non si vuole vedere in rovina.”.



    Quando dal pubblico qualcuno chiede delle altre caste, come quella dei giornalisti, di quanto abbiano guadagnato senza aver svolto il loro dovere nei confronti della casta dei politici, Stella non appare per nulla turbato: “Guardi che con me si sfonda una porta aperta, io sono stato, anni fa, credo il secondo firmatario nella lista che chiedeva l’abolizione dell’ordine dei giornalisti... Ma riguardo ai finanziamenti pubblici ai giornali, penso che in realtà questo sia stato uno stratagemma dei politici per far addolcire la pillola alla carta stampata, per non avere mai fatto una legge seria che fissasse i tetti della pubblicità nei media, perché ovviamente una legge del genere non conveniva alla Rai e Mediaset...”

    Il console Giovanni Favilli, ha chiesto se questa rabbia e indignazione possano essere paragonate a quelle espresse nella stagione di tangentopoli. Stella a questo punto ha fatto notare che finora “dai politici non è arrivata però una risposta adeguata alla rabbia della gente. Gattopardismo? Io credo che ormai la macchina sia impazzita, sia difficile fermarla. Noi speravamo che almeno un centesimo alla fine fosse tagliato da certe spese, almeno dopo che questo saggio è il più venduto della storia italiana ci aspettavamo una reazione da parte loro. Se non ora, quando? E invece... hanno fatto come si dice, ‘la mossa’. In Sicilia si dice ‘calati junco che passa la china’...”



    “Non hanno paura, e sapete perché? Perché Berlusconi non può dire niente alla sinistra al governo sugli sprechi, perché per esempio quegli assurdi voli di stato per andare alle feste si facevano anche negli anni quando c’era lui al governo... 15 anni fa Berlusconi avrebbe fatto sfraceli, adesso deve star zitto. Così la sinistra non ha paura della destra e viceversa, e nessuno si muove.”

    “Deve succedere qualcosa che porti ad uno schoc. Io per esempio voglio bene all’Alitalia, ma forse è meglio che fallisca, che chiuda perché solo così si può far capire alla gente che non tutto si può aggiustare. Ma invece non si muovono o sanno solo criticare chi li mette difronte alle loro responsabilità. Il presidente della Regione Veneto Galan ha chiamato questo libro ‘pornografico’ e me Tinto Brass del giornalismo... D’Alema, che all’inizio sembrava avesse recepito, dopo aver letto il libro aveva infatti detto che i politici rischiavano di essere travolti, poi deve averci ripensato, dato che ha cominciato a dire ‘ma guarda quante cose si sono inventate quei due giornalisti...’”



    Ma non si rischia alla fine di fare solo sfascismo? A questa preoccupazione Stella ha risposto: “Hanno accusato il libro di fare demagogia, di essere qualunquista, ma noi non abbiamo mai usato espressioni come magna magna, mai abbiamo scritto governo ladro. Noi non facciamo altro che dare cifre e dati per poi affermare: evviva le istituzioni repubblicane, ma non così! Noi non molliamo l’osso, non concederemo un millimetro al qualunquismo, abbiamo orrore della demagogia. Ma così l’Italia non può continuare”.

    Chi scrive ha fatto notare a Stella che il politico più al centro delle polemiche in questi ultimi mesi, il ministro Clemente Mastella, poche settimane fa, proprio qui a New York, durante una conferenza alla SUNY e poi in una intervista ad America Oggi, aveva dichiarato “sta crollando tutto, serve un governo che governi e quindi un premier eletto direttamente dal popolo...”. Stella  è apparso sorpreso dalle parole di Mastella, e ha esclamato: “Ma sei sicuro che non fosse un suo sosia?”

     

    Pubblicato su Oggi7 del 4 novembre 2007

     

  • Op-Eds

    How Many Identities?


    Once in a while it would expand to European, and every now and then, it would revert to its “Sicilitudine,” but it wasn’t American.  I can remember my shock in the summer of ’98, when I heard the then leader of the Italian opposition, Silvio Berlusconi, on live TV. He was angry about my interview with the magistrates in Milan, which had been published in America Oggi. He declared that he would sue that magistrate and that  “American journalist.”  Me, American? Oh, grazie! It seemed a compliment, at least in the field of journalism.  Then, as time passed, something changed.

    After ten years as a permanent resident, the day came for me to be sworn in as an American citizen.  From that moment on, at least on my passport, I was American.  Did I feel American? I certainly loved this country, but in terms of ethnic identity, what was I in America?

    I gained some clarity through my children. One day, on the way home from school, my son turned to me, “Papà, I’m an Italian American, right?” “Of course, Louis, you’re an Italian American.” My daughter Siena was Italian American as well, in spite of her name, or should I say, given her name.  It had to be. They were born in New York to an Italian American mother from Boston. I was Italian. How incredible! Would I be different from them? In the fabric of their identity, do they feel something different from what I feel?  Is this the way it is? Isn’t it possible for an Italian who lives in America to be considered, or to feel at the same time, Italian American?  Can’t an Italian American in the United States feel, at some point in time, just Italian?

    This is i-Italy, which will be a forum for debate about everything. I hope that it will also become an instrument for confronting the identity/ies of Italian America. Since there is not one Italian identity, but rather a mosaic of regional identities, why should crossing the ocean change this? Whether in a 19th-century steamship or in a 21st -century jet, isn’t it possible that this truth of multiplicity endure on this side of the ocean as well?

    Executive Editor Oggi7