Articles by: Gennaro Matino

  • Facts & Stories

    The Message of a ‘Migrant Pope’ in the Americas


    The Pope has come from the other side of the world to visit “his own” world, the Americas, which in just a few centuries has changed the fate of the planet and imposed its “style” on distant nations and ancient customs.


    It’s a continent predominantly composed of émigrés – a fact attested to by Francis’ own origins as the descendant of an Italian immigrant family in Argentina –, full of surprises, teeming with contradictions and blighted by inequality. Traveling from north to south, one witnesses a lightning-quick shift from economic power to economic marginalization, from the promise of development to hopeless scarcity.


    “Lightning-quick” could also describe the way the Pope took up the cause of the poor on his trip to Ecuador, Bolivia and Paraguay this past summer; prophetically acknowledged the world’s new sense of solidarity with Cuba; and persuasively argued for the protection of all creation in the United States. “Let us protect Christ in our lives so that we can protect others,” said Pope Francis, “so that we can protect creation!” He also retraced what has been the essence of his preaching with renewed vigor.“


    Being a protector, however, is not something that involves Christians alone; it also has a prior dimension which is simply human, involving everyone. It means protecting all creation, the beauty of the created world, as the Book of Genesis tells us and as Saint Francis of Assisi showed us. It means respecting each of God’s creatures and respecting the environment in which we live. It means protecting people, showing loving concern for each and every person, especially children, the elderly, those in need, who are often the last we think about.” Protecting creation. In other words, not just protecting individual lifestyles but building a community of brotherly love. Such protection, he continued, “requires kindness, requires tenderness.”


    We can’t become men without engaging our fellow man. And yet we prefer to hide; going it alone is our daily bread. By vying for the world’s supplies, nations risk waging war. “The urgent challenge to protect our common home,” said the Pope, “includes a concern to bring the whole human family together to seek a sustainable and integral development, for we know that things can change. I offer an urgent appeal then for a new dialogue about how we are shaping the future of our planet. The environmental challenge we are facing, and its human roots, concern and affect us  all.”


    When forced to talk to one another, in our differences we discover demons, fears that hound us and disturb our peace. And if we have to engage one another, if we’re really compelled to, then we tend to prefer engaging with our doubles, mirror images of ourselves, those who won’t talk back, whose existence we recognize precisely because it does not conflict with our own. Our fear of confrontation leaves us few options and what options it does, are destructive: we choose to either run away from or attack and annihilate the other.


    We live together, work together, walk side by side down the same chaotic roads, yet we remain cut-off, irremediably alone. And yet it is imperative we reach out to one another. There’s a beautiful Midrash passage (Ecclesiastes Rabbah 7:13) in which God says to Adam: “Now all that I have created, I created for your benefit. Be careful that you do not ruin and destroy my world;

    for if you destroy it, there is no one to repair it after you.” Our fear of losing possessions generates more suffering and anxiety than the pleasure we derive from possessing them in the first place. It’s clear that calls like Pope Francis’ in New York, to be rid of possessions, are really a re-proposal of the proper use of our earthly goods.


    They do not threaten the idea of property. Instead they affirm the principle of sharing, “the duty to limit power in such a way that man, making use of it, can remain a man.” We can’t become men without engaging our fellow man. Harmonious existence is only produced by people through dialogue, understanding and confronting the perils of diversity, only through the agony and toil of the common word. There’s no doubt we are at risk of going out of existence. And we can’t make mankind without talking.

  • Opinioni

    Ancora "Senti che puzza" con la Lega



    LA Lega di Matteo Salvini è quanto di più volgare la politica del nostro Paese, dal dopoguerra a oggi, nel linguaggio, nei contenuti, negli atteggiamenti, abbia saputo produrre. Benché occorra avere sempre rispetto di chi la pensi diversamente, come i tanti simpatizzanti che sempre più numerosi, anche nel Meridione e a Napoli, seguono il verbo del giovane vate lombardo, non si può che restare allibiti.


    È disgustosa una visione di convivenza civile che nulla ha in sé della tradizione evangelica della nostra terra e dei valori profondi di libertà che sono stati difesi e perseguiti dai tanti martiri e giusti che con il loro sangue hanno resistito, anche per noi, all'inganno di un'Italia razzista, contribuendo a scrivere quella Carta costituzionale che nella sua parte fondamentale è sacramento inviolabile di appartenenza alla nazione.


    Piero Calamandrei diceva ai giovani del ‘55: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione».

     
    Quei cercatori di libertà perseguitati in patria, che riuscirono a fuggire dalla mannaia di un potere tiranno e ospitati da paesi liberi, una volta ritornati ricordarono il dovere della riconoscenza e affermarono che solo la solidarietà internazionale avrebbe garantito la tutela dei diritti umani, della pace e dello Stato di diritto. Per questo vollero che la Carta costituzionale conservasse memoria di quella fraternità a loro concessa e offrisse a chiunque avesse patito uguale sofferenza la restituzione della dignità defraudata: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha il diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge» (Articolo 10, comma 3).

     
    Mi è difficile pensare che quei poveri disgraziati che cercano aria sulle nostre sponde e in Europa fuggano dalla libertà. È doloroso che si dimentichi quanti dei nostri connazionali in fuga dalla fame abbiano in tempi diversi fatto la stessa loro esperienza, ma è ancora più drammatico constatare quanto sotto il martellante incedere del verbo leghista e dei suoi alleati si faccia della Carta costituzionale carta straccia. Vero è che quella norma della Costituzione avrebbe dovuto trovare applicazione in leggi che mai sono state fatte.


    Tuttavia la Corte costituzionale, anche in assenza di una legge chiara che regolasse i flussi immigratori e di accoglienza, nel 2001 volle ricordare a chi aveva responsabilità politica e di governo che nel rispetto del principio costituzionale le garanzie della libertà personale non possono subire attenuazioni rispetto agli stranieri in vista della tutela di altri beni costituzionalmente tutelati: «Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell'immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultare minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani» (Corte costituzionali 105/2001).


    Già, perché di esseri umani si parla quando si parla di migranti, difficile che possa capirlo e accettarlo chi non è per niente esperto di umanità. Ma chi dell'umano sente ancora il suo richiamo non può per vile interesse elettorale inseguire la scelleratezza di chi ne ha perso la fragranza, perché la pagherebbe cara nel tempo della avvedutezza quando finalmente essa arriverà. Prima o poi, come già è avvenuto nel passato, si dovranno fare i conti con la storia.


    Conviene alla destra democratica di questo Paese inseguire Salvini e a certa sinistra fare finta che non sia un problema di tenuta democratica? Soprattutto non conviene ai meridionali e ai napoletani di poca memoria restare affascinati dal seducente canto del leghista di oggi, che ieri riservava a loro lo stesso trattamento riservato ai migranti: «Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani… ». Certamente non può convenire a chi dal Maestro ha ereditato il Vangelo: «Ero forestiero e mi avete ospitato».


  • Opinioni

    Erano solo parole al vento?


    Entrambe le visite annunciate con grande enfasi, quella di Francesco ancor di più, avrebbero dovuto dare nuovo slancio alla città e alla Chiesa, una rivoluzione di speranza significata dai tanti manifesti affissi su chiese e palazzi, che ancora da qualche parte restano stancamente a svolazzare, lentamente ingiallendosi, memoria di una festa alle spalle.


    Ricordo le parole pesanti di Papa Francesco nel suo correre dalla periferia al centro, non solo luoghi fisici, ma per lui il sogno che il centro della città, di ogni uomo di buona volontà, fosse perennemente in uscita, avesse come meta ogni periferia dimenticata, sfruttata, ammalata. Migliaia di uomini e donne per le strade ad aspettarlo per ore. E poi le promesse ufficiali, la Chiesa, il governo della città, le istituzioni, tutti ai primi posti per raccogliere la sfida di Francesco.


    Tutti pronti a mettere mano all’ambizioso disegno di una grande metropoli e di una Chiesa che grazie a quell’avvenimento avrebbero cambiato il loro volto. Fotografie di circostanza, analisi soddisfatta il giorno dopo per la buona riuscita della festa, avvalorata anche dai commenti di altissimo profilo della stampa.


    Tutto bene allora? Tutto bene se si fosse trattato solo di una festa di piazza, solo di un avvenimento pubblicitario che avrebbe dovuto produrre risultati per numero di partecipanti e buon esito dell’organizzazione.


    Ma un papa che io sappia non si presta a una festa di piazza e la sua parola pretende che corra dopo la festa. Mi sovviene la canzone di Edoardo Bennato: “Feste di piazza, le carte colorate, gli sguardi sempre ben disposti.


    I capintesta con i distintivi sfavillanti si sbracciano come dannati solo per sentirsi più importanti. Tutto è finito, si smonta il palco in fretta perché anche gli ultimi degli addetti ai lavori hanno a casa qualcuno che l’aspetta. Restano sparsi disordinatamente i vuoti a perdere mentali abbandonati dalla gente”.


    Un papa non si presta a una festa di piazza perché la Chiesa non ha bisogno di consensi fugaci ma di sofferte e coraggiose parole che sappiano riempire il vuoto dei tempi peggiori.

    Un papa non va fatto salire su un palco come per un comizio elettorale perché la consegna che gli deriva dal Vangelo non è quella di cercare compromessi accomodanti ma la verità che salva.


    Un papa non si presta ad essere l’attrazione più importante di una sagra paesana con annessa consegna di pacchi sorpresa perché è esperto di altre pesche e di sicuro più miracolose. Un papa non pensa al suo ministero come a un set cinematografico che racconti insieme verità e finzione, ma raccoglie, fissa immagini, sguardi di storia nel suo percorso terreno per consegnarli al cielo.


    Soprattutto un papa sa bene che la Chiesa non è un circo di nani e di pagliacci e i biglietti di entrata non si possono facilmente prenotare in qualsivoglia botteghino. Ricordo le parole di Papa Francesco pronunciate a Scampia contro la corruzione, coraggio di significato di parole alte, lanciate in una terra lacerata da troppo tempo per mali non solo suoi, promesse tante, pochissime avverate.


    Ricordo quelle ai carcerati di Poggioreale, profezia di riscatto in luogo di dignità divorata, quelle alla Chiesa locale di riprendere in mano il proprio destino, incarnata nel destino dei fratelli suoi compagni di cordata.


    Ricordo la commossa presenza del successore di Pietro in una piazza Plebiscito in preghiera e il suo sguardo, le sue parole a raccontare alla città la speranza di poter ritornare ad essere luminosa, forte di memoria, ricca di futuro.


    Non una festa di piazza, quella di Francesco, per lui di certo no, ma un programma socio pastorale che azzarderei a definire perfino politico nel più ampio senso della parola, che le istituzioni religiose e laiche, non solo ognuno per la propria parte, forti dell’entusiasmo di popolo, avrebbero dovuto da subito rilanciare insieme. Un tavolo programmatico di interessi comuni a partire dalle parole di Francesco, un tavolo che non c’è stato e che ora forse è tardi per organizzare.


    Tavoli istituzionali prima dei grandi eventi ce ne sono tanti, dopo è improbabile. Per le feste di piazza servono solo i primi.


  • Opinioni

    La vera pace parte dal dialogo con le differenze


    I COLORI del Mediterranean Pride hanno invaso Napoli, colori di una festa rumorosa, stravagante, capricciosa, innocente e stracciona, sfacciata e coraggiosa, processione di uomini e donne impropriamente chiamati diversi che rivendicando l'orgoglio del proprio stato, altro non hanno gridato che desiderio di pace.


    Desiderio di una pace duratura conquistata sopra le resistenze di un mondo spesso ottuso che giudica e condanna prima di amare, ancor prima di conoscere. Pace duratura che è guerra duratura per chi ama la propria armonia, il bene preziosissimo della propria vita, unica e irripetibile, per chi si ama e si accetta per quello che è e non vuole sottostare a un modo perverso di incasellare le storie individuali, tutte già codificate, strutturate, decise, consentendo a chi governa di dividere presuntuosamente il mondo tra ciò che è il bene e ciò che è il male. Pace che ingaggi contro l'immobilismo dell'anima che uccide ogni aspirazione, offende ogni emozione, affonda ogni vero desiderio di novità, che ti metta in discussione con il tuo evolverti come storia, come uomo.

     
    Può far piacere o meno, può far storcere il naso a qualcuno, a qualcun altro divertire, può muovere tenerezza o condanna, assenso o disgusto, ma in quella processione diseguale, varia di cultura, di gente e di genere hanno marciato coraggiosamente e a viso aperto, anche per coloro che ancora hanno paura di venire allo scoperto, i nostri figli, i nostri fratelli e sorelle, amici e compagni.


    Piccola rappresentanza di un mondo molto più ampio che ci appartiene e ci interpella e, ci piaccia o meno, costringe e invita tutti, anche chi quel mondo proprio non riesce a capirlo, a prendere posizione, senza far finta di non vedere, e convincersi che quel mondo, qualsiasi siano i nostri convincimenti, continuerà ad esistere. I colori dell'orgoglio omosessuale, per strano caso e fortunata coincidenza, anche se dicono altro e altro raccontano, comunque rimandano per simpatia alla bandiera della pace, parola che per me, uomo di Chiesa, è fondamento di ogni relazione, è premessa di ogni annuncio, è dinamica di ogni relazione.


    Parola che oltre la festa gay, troppo chiassosa per essere affine al mio modo di pensare ma non per questo meno degna di rispetto, ha provocato un ardente, profondo desiderio di riconciliazione tra mondi ingiustamente contrapposti. Pace vera, non accomodante, non fatta di parole che vengono smentite, di aperture promesse che in realtà sono chiusure più perverse, che raccontano di accoglienza ma nel profondo non dicono accettazione, che sembrano inaugurare nuove frontiere di vicinanza e in realtà restano parole ambigue per accontentare piazza e stampa. Un desiderio ardente di pace che finalmente dia a ognuno lo spazio di dignità che, oltre gli steccati ideologici, culturali, religiosi, sociali, merita ognuno per il solo fatto di essere uomo e, per chi è credente, figlio amato dell'Altissimo.


    Desiderio di pace e non compromesso accomodante che proponga una libertà senza valori e un amore senza regole, ma pace come volontà assoluta di superare il tempo dell'odio spesso colluso con la falsa tranquillità della requie. La pace come requie genera mostruosità, è calma piatta senza conflitto d'amore, quella che porta ognuno ad infischiarsene dell'altro, che quando per sfortuna lo si incrocia nella propria vita lo si percepisce come contrario, perciò diverso e si comincia ad odiarlo, respingerlo, combatterlo: la requie è per i morti. La pace vera è la lotta che descrive la vita, è il dolore del superamento dell'odio, dell'avversità che dà emozioni, che sprigiona l'ebbrezza della gioventù eterna nel cuore di ciascuno. Una pace che sa di morte non serve a nessuno.


    Le mille paure che attanagliano la nostra quotidianità spesso sono generate dall'ignoranza. Quante vittime miete la disistima, quante ne uccide il senso di colpa. E quanto danno è stato fatto dagli educatori, dalle ideologie, dalle politiche, dalle religioni usando il senso di colpa come arma di dominio o di controllo. La pace è figlia dall'accettazione, della misericordia, del perdono, del dialogo con le differenze e con ogni diversità. Possiamo farcela, questo mi è sembrato il messaggio del Gay Pride, possiamo volerci un po' più di bene. Possiamo fare pace con noi stessi, con il mondo, stimarci quel tanto che basta e ci consenta di partire insieme, senza steccati, alla trasformazione del mondo perché sia più giusto e accogliente.


  • Opinioni

    Napoli. Tra rimpianto e presente


    BASSOLINO e Maradona sono ridiscesi in campo insieme per strana coincidenza, inconsapevole coppia che ha riacceso il dibattito su un passato pesante per Napoli, provocando, come era da aspettarsi, contrastanti giudizi. Succede sempre così in tempo di trasformazione, quando in città o nel club si inaugurano scenari di possibili mutamenti, la stessa musica di sempre accompagna la danza: "Quando c'era lui!". Nel nostro vocabolario la parola che più si avvicina a questo stato d'animo, per più di qualche napoletano quasi una protesi psicologica permanente, è nostalgia, un desiderio ardente di rivivere situazioni già trascorse.


    Milan Kundera nel suo romanzo "L'ignoranza" parte dall'analisi etimologica della parola, che vede essere composta dal greco nòstos, che significa ritorno, e àlgos che invece significa sofferenza. Dunque la nostalgia sarebbe provocata dal sofferto desiderio inappagato di ritornare a ciò che si è perduto. Non è una novità per questa nostra malata città guardare al passato più che darsi una visione di futuro, non è una sorpresa che Napoli sia endemicamente affetta da struggente rimpianto, un suadente desiderio di trovare altrove, forse nel passato, la soluzione ai guasti del suo presente.


    Gli spagnoli la chiamano anoranza che proviene dal verbo anorar dal catalano enyorar: tutto dal latino ignorare. Quindi la nostalgia non sarebbe altro che la sofferenza dell'ignoranza: so quello che ho perso, perlomeno penso di saperlo, e non so quello che mi aspetta. Certo la storia è maestra di vita e vale sempre la pena fare i conti con le esperienze già date, ma in realtà questo sguardo all'indietro non è uno sforzo di umiltà e verità, piuttosto è una fuga oppiante. Maradona e Bassolino, per chiamare in causa gli ultimi ignari e incolpevoli attori di questa vicenda (di Bassolino si vocifera ogni tanto di un ritorno in campo), hanno segnato ognuno nei loro rispettivi ambiti momenti esaltanti per Napoli, entrambi sono stati profeti e attori di quello che qualcuno ha chiamato il rinascimento della città. Eppure entrambi sono il simbolo della miopia progettuale di questa nostra malata città, che lascia il tempo consumarsi alla sua emozione momentanea senza dare progetti al futuro.


    Napoli e il suo rinascimento morivano mentre venivano annunciati. Napoli non ha mai avuto una visione. La vittoria di uno scudetto o la riconquista di piazza del Plebiscito, raccontano un'emozione, certamente significativa, non un progetto a lungo respiro. La via di ogni liberazione passa attraverso il gioco faticoso della verità che arriva dal passato giocato nel presente insieme al tempo della profezia futura, un'alleanza di significati che diventa necessaria quando le parole del passato, dettate dalla convinzione di essere ormai arrivati, si perdono nel silenzio assordante del nuovo che avanza, che si cerca di acchiappare, e finalmente lasciano spazio alla «futurologia di senso».


    Il tempo della crisi che oggi viviamo a Napoli e che sembra intramontabile è caratterizzato dalla paura diffusa di non farcela, soprattutto manca il coraggio del futuro. Benché sia difficile gridarlo quando i venti sono contrari, è di ogni buon marinaio augurarsi di avvistare la terraferma in mezzo alla tempesta. Purtroppo, in una situazione estremamente complessa come quella che sta attraversando la città, anche persone responsabili e competenti soccombono alla tentazione di rimuovere la crisi ritornando al passato.


    La profezia, invece, come ogni sguardo aperto all'utopia, è ricerca di un futuro migliore fra i vari possibili. Non è fuga intellettuale dalla responsabilità di costruire il futuro, ma analisi scientifica e poetica del tempo per proiettare in avanti il meglio. Non sempre l'utopia può guardare al futuro positivamente ma, consapevole della possibilità insita nella trasformazione di una società, può indicare ragionevoli percorsi per permettere al bene di diffondersi nel modo più libero. Se tale orientamento si trasforma in azione, costringe gli eventi a mutare l'ordine esistente. L'utopia nasce proprio quando la realtà mostra un divario troppo marcato tra il socialmente vissuto e il desiderato possibile ed è qui che nasce il tempo alto della politica, ed qui che si passa dal rimpianto alla ricostruzione della città.

  • Opinioni

    Mezzogiorno. Solo un problema ereditato dal passato?



    GIORGIO Napolitano, ex Capo della Stato, torna a Napoli nel suo primo viaggio da presidente emerito e lancia un forte richiamo alle istituzioni: «Non esiste, non se ne vede traccia, una strategia per lo sviluppo del Mezzogiorno ».


    Parole che hanno scosso e provocato diverse reazioni, in verità limitate alla sola realtà napoletana, ma che avrebbero potuto riaprire un tema che a molti”politicamente” sembrava chiuso.


    Forse perfino alla stessa presidenza della Repubblica degli ultimi due decenni, più preoccupati di dare risalto alla complessa questione settentrionale che a risotterrare quella meridionale che, per opportunità politica, era conveniente ritenere superata. Superata ovviamente non nel merito, visto che lo sviluppo del Meridione resta incompiuto, distorto e frammentato, ma dal punto di vista delle priorità da affrontare: da quando l’Italia intera è scivolata tra i Sud dell’Europa e il Nord del Paese, il motore dell’economia, si è vista risucchiare in una crisi abissale.


    E non solo. Il Mezzogiorno evoca l’idea del fallimento, della delusione, dell’impresa impossibile, non appassiona più le coscienze e le intelligenze. Quindi strategicamente meglio evitare l’argomento. Vi è ormai una censura tra Mezzogiorno e gli italiani e la cosa che più deprime è che questa censura non risparmia i politici, gli intellettuali e perfino quelli meridionali stanchi di essere descritti come subalterni a quelli del Nord e per questo paradossalmente, invece di reagire, sfuggono dall’impegno di riflettere su se stessi, dalla responsabilità di andare oltre il tempo del vittimismo e rispondere a un’accusa incancrenita di parassitismo statale con un’appassionata lotta visionaria di riscatto.


    C’è ancora chi, pochi in verità, sostiene a ragione che non c’è futuro per l’Italia intera se l’unità del Paese non sarà compiuta anche dal punto di vista dello sviluppo economico, convinto che il Paese crescerà solo se sarà insieme.


    Ma la percezione che in realtà si rileva attraversando l’Italia è un’altra, quasi oltraggiosa nei confronti della gente del Sud, nei commenti degli opinionisti, nei sondaggi, nell’aggressiva politica protezionistica di movimenti populistici: «Vi è stata data l’opportunità», sembrano voler dire al Sud, «l’avete sprecata. Ora non potete essere una palla al piede del Paese».


    Anche Renzi nell’ultima direzione del suo partito ha affermato che solo per pudore la Lega Nord non parla più di secessione ma che nei fatti resta la rappresentanza politica, il collante di quegli egoismi in progressiva espansione che sempre di più coagula una larga parte di cittadini italiani che a loro dire sono stanchi di pagare per tutti. Soprattutto di quei cittadini del Nord e del Sud che non ritengono più di poter essere solidali con chi ha sprecato risorse pubbliche, con un Meridione dove ogni centesimo di euro dovrebbe essere allocato a spesa come se fosse l’ultima risorsa e dove invece il denaro pubblico viene utilizzato come se fosse solo una parte di una serie mai terminata e che mai terminerà. A fronte di ciò il Sud più che un progetto per il futuro, diviene per la politica solo un problema ereditato da un passato che non ha futuro.


    La fuga della politica dal Sud uguale a quella dei rappresentanti eletti dal popolo che cercano voti nel meridione solo per scappare a Roma, lontani anni luce dai problemi della gente, la dice lunga su quanto opportuna, ma tardiva, sia stata la provocazione di Napolitano: è giusto che il Meridione e Napoli diventino protagonisti di un cambiamento ora più che mai necessario che deve poter contare sulle energie intellettuali, professionali, culturali.


    Opportuno l’invito di Napolitano ma da rivolgere soprattutto al mondo delle decisioni perché se nuove visioni di sviluppo del Sud non verranno coniugate con una nuova proposta culturale e politica che affascini la classe dirigente e che costringa le istituzioni di governo a ripensare se stesse, difficile che produca qualche risultato.


    Oggi il Meridione d’Italia è per intero governato da giunte di centrosinistra. Le riforme del “sistema Italia” volute dal presidente del Consiglio forse renderanno migliore nel suo complesso l’Italia, ma non ravvicineranno da sole aree del Paese che si allontanano sempre di più.

    Può permetterselo il governo Renzi? Può permetterselo l’Italia?

     


  • Opinioni

    Riflettiamo su quel voto non dato



    AD URNE chiuse a prevalere in Campania, ancora di più a Napoli, è stato il non voto. Sarebbe un errore imperdonabile per tutti i partiti o i movimenti che hanno partecipato alle elezioni regionali e comunali non raccogliere la sfida politica che emerge dai numeri impressionati dell'astensione, raccontata dai politici di mestiere ancora una volta come antipolitica e che invece, come ho sostenuto in un mio fondo di inizio aprile, è un fatto squisitamente politico.

     
    Avevo previsto che l'astensionismo sarebbe stato una sconfitta per tutti e non certo per essere solo una vile protesta, ma perché risponde sempre più frequentemente negli ultimi anni, e in questa tornata elettorale è stato più evidente che mai, a una scelta ponderata dell'elettore. Chi ha deciso di non avvalersi del diritto di voto ha dichiarato di non volersi sentire complice di un sistema che sta uccidendo la vita politica, la sta umiliando, affermando in questo modo il disprezzo per politici non ritenuti all'altezza e la propria ripugnanza per una classe dirigente ancora largamente lontana dalla passione per il bene comune.

     
    Questa volta per molti cittadini non andare a votare è stata una scelta addirittura più dura e sofferta, soprattutto per coloro che hanno sempre votato, per quei tanti adulti e anziani che, educati a considerare il voto come sacro, ancora risentono del giudizio morale negativo che la società della Prima Repubblica esprimeva nei confronti di chi non si recava alle urne. Se nella terza città d'Italia, la più grande del Meridione, vota solo poco più del 40 per cento degli aventi diritto e in Campania solo il 50 per cento, in linea peraltro con gran parte del Paese, non è l'antipolitica a vincere, ma è la questione democratica che il cittadino pone con il suo non voto al centro della discussione politica. La gente non si sente più rappresentata dai vecchi schieramenti e ancora non sa decifrare i nuovi. E così non partecipando al voto manda un messaggio forte e chiaro: "non in mio nome". Protesta alta che aspira a una politica diversa, la stessa che ha originato quei nuovi movimenti che stanno sbaragliando le vecchie formazioni partitiche frettolosamente liquidate come populistiche. D'altronde già Berlinguer ipotizzò il rischio dell'allontanamento dalla partecipazione politica dei cittadini quando nel lontano 1977, denunciando la "Questione morale", espresse la preoccupazione che il destino democratico del Paese poteva essere minato dalla corruzione della sua stessa classe politica.


    Non si può chiedere al cittadino di vivere lo Stato e le sue decisioni con la sola obbedienza al voto che in realtà sembra piuttosto trasformato, come canterebbe Fabrizio De Andrè, in quell'ora d'aria che ti concedono in galera prima di tornare dietro le sbarre. Se la libertà è partecipazione, la partecipazione falsata è offesa alla libertà. Il non voto racconta, a coloro che davvero vogliono politicamente interpretarlo, le aspirazioni represse della gente, di un popolo che sogna un Paese diverso, attese che se raccolte, comprese, decodificate possono trasformarsi in forza trainante, motore straordinario di lotta politica.


    Quel voto non dato è la lotta espressa con il silenzio rumoroso dell'astensione di chi paga le tasse con estenuanti sacrifici e vede dilapidato il suo capitale dalla corruzione o peggio dal dilettantismo degli amministratori locali incapaci di trasformare le risorse in bene comune; è la lotta di chi serve quotidianamente lo Stato rispettando le regole della libertà per non offendere l'altrui spazio vitale, di chi è stanco di vedere prevalere quotidianamente il sopruso e l'arroganza dei violenti sotto lo sguardo complice di quanti dovrebbero difendere la giustizia; è la lotta di chi non vede futuro per i propri figli e non regge più alla falsità di uno Stato che dichiara di garantire a tutti uguali diritti e invece premia i figli di, senza competenze, senza mestiere, solo per essere figli di chi sa rubare spazio e dignità a chi lo merita. E soprattutto, quel non voto, è la presa d'atto del cittadino che sa che per ora non esiste una visione alta della politica che sappia convincerlo che quei guasti possano essere superati.


    Lysander Sponeer, anarchico americano dell'ottocento, sosteneva che un uomo non cessa di essere schiavo perché gli si permette di scegliere il padrone ogni quattro anni. Un' affermazione forte ma che assume una rilevanza particolare in un contesto come quello italiano ed europeo di oggi, in cui non solo i parlamenti, ma anche gli enti amministrativi e le burocrazie esercitano un potere apparentemente illimitato sulla vita dei cittadini. Se qualcuno volesse fare i conti con questa provocazione sono convinto che potrebbe trasformare l'astensione di oggi nella sua forza elettorale di domani.
     


  • Opinioni

    “Laudato sii”. Per sfidare i potenti della terra e custodire il Creato


    “Laudato sii”, l’enciclica ecologica del pontefice che sfida i potenti della terra che, avendo eretto altari all’economia diabolica, hanno messo a rischio la vita del pianeta. “Laudato sii”, il perenne cantico delle creature che, da San Francesco a Papa Francesco, sprona gli uomini di buona volontà ad essere custodi della terra.


    Un testo suggestivo, una visione alta e commovente della storia umana, centonovanta pagine di scrittura creativa, meditativa, emotiva. Un inno alla speranza contro ogni speranza, desiderio di nuova sostanza, di fiducia, di  potercela fare insieme, tutti gli uomini, tutta la vita che brulica intorno e dentro al giardino di Dio, mentre previsioni apocalittiche condannano il pianeta ad una fine drammatica.


    Il futuro, per quanto compromesso, è rimesso ancora nelle mani dell’uomo. Parola di Papa, ci si può credere. Comunque si deve, in assenza di alternative: “…sappiamo che le cose possono cambiare, il Creatore non ci abbandona, non fa mai marcia indietro nel suo progetto di amore, non si pente di averci creato”.


    “Viviamo in un giardino affidato alle nostre mani”, ricordarlo è difendere la vita stessa, è rendere grazie al Signore del creato. Un impegno che riguarda ogni uomo e che obbliga il credente a dare ragione della propria fede, amando e custodendo ciò che gli è stato dato in consegna.


    Custodire piuttosto che salvaguardare, rimando alla pagina biblica dell’origine: l’universo e il mondo, l’uomo e le creature, tutte sono famiglia di Dio. Custode è l’uomo e, nella missione che gli è stata affidata, il suo ruolo non è di padrone. Coltivare la terra, proteggerla, difenderla (cf. Gn2,15) è dare spazio all’armonia del dialogo con i diversi vissuti, non solo è affondo di aratro e tenuta di briglie ma è dialogo intraumano. E’ permettere all’uomo, difendendo il suo ambiente vitale, di restare tale.


    “Custodire il creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino… Noi, invece, siamo guidati dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare”.


    La lotta per la bellezza, per conservare intatta l’opera di Dio, si è dimostrata titanica: l’uomo deve lottare perfino contro un perfido ingranaggio di autodistruzione messo in moto dagli egoismi più perniciosi. Lotta quotidiana che si aggiunge a quella che deve mettere in atto per la difesa del creato. I cieli e i mari ridotti a immondezzai: piogge acide, inquinamento atmosferico, rifiuti tossici aggrediscono ogni giorno il giardino di Dio. Gli animali della terra, compagni di viaggio dell’uomo, seviziati in ogni modo. La bramosia di potere che ha creato le mille Babele dell’incomprensione ha ridotto il mondo in spazzatura. E come conseguenza di tutto questo i custodi sono diventati gli avidi soppressori delle cose che avrebbero dovuto custodire. E tra di loro si è organizzata un’aspra contesa di chi ha più diritti, di chi deve avere più spazi, di chi deve possederne più parti, di chi deve appropriarsi di più beni. La più bella delle creature, imbastardita dalla bruttezza dell’avidità, rischia di perdere i connotati dell’umanità che rimanda ai tratti del divino.


    È fondamentale cercare «soluzioni integrali», sentenzia il papa, «che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura».


    Nel pensiero di Bergoglio, «la crescita economica tende a produrre automatismi e ad omogeneizzare, al fine di semplificare i processi e ridurre i costi. Per questo è necessaria un’ecologia economica, capace di indurre a considerare la realtà in maniera più ampia. Infatti, «la protezione dell’ambiente dovrà costituire parte integrante del processo di sviluppo e non potrà considerarsi in maniera isolata». 


    Educare alla custodia del creato è educare alla vita stessa. Percorso faticoso, ma esaltante, che vede insieme diverse generazioni a riscoprire la bellezza del creato nella gratuità come libertà in tempo di odiose schiavitù, la reciprocità che permette di sentirsi parte e disponibili all’incontro in tempo di contrapposizioni violente, riparazione dal male che si oppone a ogni fatalistica rassegnazione che il mondo non possa cambiare. Un bellissimo midrash recita: «Guarda le mie opere, quanto sono belle e degne di lode. Tutto quanto ho creato, l’ho creato per te. Stai attento a non rovinare. E a non distruggere il mio mondo, perché se farai così non ci sarà dopo di te chi possa porre rimedio ai tuoi danni» (Qohelet Rabbah 7,28).







  • Ce la farà Scampia?



    CE la farà Scampia? Quel punto interrogativo era sproporzionato rispetto alla frase a margine del disegno: sullo sfondo una macchina della polizia con una sirena accesa, due triangoli aperti a ricordare il Vesuvio e il suo gemello, in primo piano una pistola che sputava fuoco, un uomo accasciato sul selciato nel suo rosso sangue e una donna scapigliata che urlava. Rigiravo tra le mani il foglio con quel disegno dai tratti ancora troppo infantili per essere di un ragazzo di seconda media che si firmava Antonio.

     
    Infantile non certo per la trama che raccontava morte, ennesimo delitto di una faida senza fine, una trama che per i suoi drammatici significati, benché l'abitudine nel rione al lutto prematuro, è troppo dura perfino per adulti avvezzi al disagio, figurarsi per un ragazzo di periferia che avrebbe diritto, come tanti suoi coetanei altrove, a una adolescenza spensierata.


    Quel punto interrogativo, quasi minaccioso, arrabbiato, aspettava una risposta: ce la farà Scampia? Quanti bravi ragazzi ha Scampia, quanti ne hanno le tante periferie malate della nostra regione. Ti invitano a parlare di legalità nelle scuole e certo non ti sottrai a portare la tua modesta esperienza, ma non è stato facile rispondere serenamente a quell'enorme punto interrogativo.

     
    Sentivo l'imbarazzo delle parole vuote dinanzi a quella storia raccontata con immediatezza da un ragazzino che, molto più efficacemente di dotti reportage, molto più vero di fiction preconfezionate per il "divertimento" del grande pubblico internazionale, con pochi colpi di pastello aveva ritratto su un foglio da disegno una tragica realtà: la sua. In quell'enorme punto interrogativo la paura e la speranza, l'eco sofferto di un adolescente che ha voglia di crescere: «E' la mia città, il quartiere dove vivo, la mia gente, ce la faremo? ».


    Avrei potuto rispondere: «Lo Stato interverrà, ognuno deve fare la propria parte, repressione della delinquenza e sviluppo sociale…», ma serravo tra le dite quel disegno dai colori forti e proprio non riuscivo a trovare le parole per Antonio che mi aveva coraggiosamente consegnato la sua storia, quello che i suoi occhi drammaticamente avevano fissato. Quanti bravi ragazzi ha Scampia, futuro in carne e ossa, occhi luminosi di giovani vite, che oltre lo scempio del territorio descritto impropriamente dai media solo come luogo di rovina e pianto, raccontano invece la fatica quotidiana di tanta gente onesta, di genitori premurosi, di maestri coraggiosi, di preti straordinari, di volontari sempre pronti a dare ragione della loro umanità, testimoni senza tempo per quelle giovani vite a loro affidate.


    Quanti bravi ragazzi ha Scampia che meritano parole libere dal preconcetto, dalla resistenza perbenistica che vorrebbe predestinato solo al malaffare chi abita territori ad alto rischio malavitoso, che meritano invece verità, l'unica che rende liberi. A chi cerca risposte raccontando la sua vita, e a maggior ragione se è un ragazzo, si deve offrire qualcosa che vada oltre le solite parole preconfezionate. A una vita che chiede aiuto si offre vita, a una storia vera si risponde con lealtà. Ai palazzi sventrati dall'abbandono e dalla miseria si offrono progetti di recupero ambientale; al territorio controllato dalla delinquenza si risponde con la presenza rassicurante dello Stato; all'evasione scolastica con progetti educativi alternativi; alla disoccupazione con l'avviamento al lavoro.


    Domenica scorsa si sono chiuse le urne, la Campania ha un nuovo presidente e una nuova giunta. I politici dell'una e dell'altra parte hanno fatto scorribande per le vie di Scampia per accaparrarsi consensi promettendo a parole una nuova consistenza di futuro. Parole pesanti che i galantuomini dovrebbero mantenere se davvero sono tali. A chi cerca risposte alla sua vita non bastano promesse, a storie che consegnano vita, si risponde con vita scambiata. Se un ragazzo come Antonio ti sbatte in faccia un punto interrogativo deciso è forse venuto il momento di dirgli la verità, di dirgli che è bene non aspirare a facili guadagni garantiti dalla malavita, al successo senza fatica promesso dalla cultura della menzogna ma so-prattutto di non fidarsi delle parole di fumo spese dalla politica senza dignità. Non fidarsi, ma costringere quelle promesse a diventare realtà rintuzzando quotidianamente la po-litica, costringendo le istituzioni a mantenere la parola data.


    Quanti bravi ragazzi ha Scampia, quanta gente onesta vive nel quartiere, ma l'onestà non fa rumore. Se l'onestà incominciasse a fare rumore, ad aggregare gli onesti tanto da originare una rivoluzione non violenta di gente non più disposta a subire soprusi, Scampia ce la farebbe, ne sono certo, e riconsegnerebbe una terra un tempo feconda al suo originario destino.


    Quanta gente onesta vive nel quartiere, ma l'onestà non fa rumore. Questa terra torni al suo originario destino/


  • Opinioni

    Quelle stragi per futili motivi nelle nostre città

     

    STRAGI per futili motivi, dal massacro per i panni stesi di Miano a quello mancato solo per miracolo per il cancello rumoroso di Afragola. Una settimana di follia, assurdo da raccontare, morti e feriti, tanti, lacrime di chi resta, domande insopportabili per chi farà i conti con il lutto, per chi si chiede se erano tragedie che potevano essere evitate o se il rischio di altra rovina è da mettere in serio conto, dato l'aumento anche in Campania dei porti di armi da fuoco e la mania morbosa di collezionarle. Su tutte la domanda più rumorosa: Perché? Morire per niente. Assurdo. Quanto pesa questa parola sulla verità pesante raccolta, su quella da conservare o raccontare, "assurdo" dice ma non svela, non compromette fino in fondo chi la pronuncia lasciandolo alla periferia dell'avvenimento.

    Le parole si possono sprecare per descrivere l'ennesimo fatto di ordinaria e quotidiana violenza. Sprechiamole pure, chiamiamo a raccolta i dotti interpreti del declino della ragione che manifesta il suo squallido volto in un fucile scaricato per intero nel ventre di una vita recisa, ma anche in quella dello stesso omicida ugualmente finita. Copriamo ancora una volta con il velo dei nostri dibattiti il fatto che oggi si muoia per niente perché si vive di niente. Possiamo raccontare la cronaca del misfatto di Miano o di Afragola, l'ultimo che si differenzia dagli altri, dai tanti altri in Italia e nel mondo, solo per i nomi dei protagonisti che ormai puntuali quasi ogni settimana scandiscono il ritmo ossessivo dell'orrore sotto casa. Futili motivi all'origine che sfociano nella violenza gratuita.

    Quanto vale una vita? Se la risposta dovesse tener conto che si può rischiare di essere soppressi per un sorpasso non gradito, per una partita di pallone, per un problema di parcheggio, per uno sguardo di troppo, bisognerebbe pensarci bene visto che anche per meno si può morire. Allora è meglio trincerarci ben protetti dietro le sillabe che sembrano meglio dire quello che non riusciamo proprio ad accettare: assurdo! Una parola che esorcizza la verità crudele che può riguardarci, che può trasformare quell' "assurdo" in una via di fuga. Ma "assurdo" non è la parola giusta anche se ci conviene, non lo è per intero anche se vorremmo che fosse così, anche se spereremmo che potesse ancora essere assurdo morire per niente. Una cosa è assurda quando è contraria alla ragione, all'evidenza, al buon senso.

    Una situazione si dice assurda anche se reale per il fatto che è strana, incredibile, che ha in sé stessa una contraddizione e per questo è un fatto eccezionale. Proprio così: eccezionale, non ordinario. L'assurdo si oppone a ciò che diventa norma. Le periferie del mondo dicono che la violenza è ordinaria, le città, anche la nostra, non sono da meno anche se mascherano con il perfetto maquillage la loro disperazione che degenera in abbrutimenti urbani. Violente sono le parole che ordinariamente usiamo, violente le relazioni interpersonali che sconfinano nel sopruso, nel tradimento, nella volgarità. Gli adulti non sono più tali in una società irrimediabilmente adolescente ed essere ragionevoli nel tempo dell'irragionevolezza sembra non ripagare. E una società senza adulti è rissosa, è sfrontata, è disordinata, è senza regole, e perciò violenta.

    Violenza che subisci anche se tu stesso la provochi. E alla violenza rispondi con violenza, diventa il tuo linguaggio, ti fa forte coniando per te il motto: chi pecora si fa il lupo se lo mangia. E allora ripeteremo di fronte all'ennesimo fatto di ordinaria violenza: è assurdo? Assurdo è come dire impossibile, inspiegabile, ma da noi, nel nostro mondo occidentale è inspiegabile, piuttosto, come mai, viste le premesse, sono ancora contenibili le morti violente. Quante ce ne vorranno ancora perché possiamo finalmente dire: perché non cambiamo?

    Mangiamo violenza e per abitudine quotidiana abbiamo imparato a digerirla senza vomitarla. I nostri ragazzi crescono nel mito che essere più forti significa anche essere quelli che non si fanno passare la mosca per il naso, che sanno rispondere a tono, che gli schiaffi bisogna imparare a toglierseli da soli dalla faccia, anche con i coltelli. Si può morire per niente, certo, ed è drammatico ma ogni morte è provocata da una vita malata.

    Il delitto è sempre procurato da chi nel delitto ha visto la soluzione al proprio disagio. Assurdo è non capirlo, è non voler accettare che anche l'ultima tragedia, diversa dalle altre solo per i protagonisti, si annoveri in quella disperata condizione che si chiama disagio e che alle necessarie analisi degli esperti richiede l'indispensabile impegno di tutti a ripensare la vita. Altrimenti continueremo a raccontare morti assurde e assurde vite. Stragi per futili motivi, il massacro per i panni stesi di Miano e quello mancato solo per miracolo ad Afragola.

     

     

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