Articles by: Tiziana Grassi

  • Fatti e Storie

    Nel segno di un giornalismo sociale al servizio dell’Altro

    ROMA - Sulle convergenze ideali che nella stima profonda da moltissimi anni mi legano in un sodalizio culturale e professionale all’amico fraterno e collega stimatissimo Goffredo Palmerini, un’annotazione. Quando mi ha chiesto di curare la prefazione al volume Grand Tour a volo d'Aquila, questa sua nuova creatura, ho accettato subito con slancio e l’ho ringraziato per questo privilegio, ma non nascondo che ho avuto anche un sobbalzo di emozione. E molto mi sono interrogata sulle motivazioni della sua scelta nell’affidarmi un ruolo così prestigioso, tanto più se accompagnata, in apertura di questo volume, da una personalità come Hafez Haidar, pluricandidato al Nobel per la Pace e la Letteratura.

    Riflettendo a lungo, mentre leggevo con l’ammirazione di sempre le bozze di questa antologia nel continuum con quelle precedenti, e ne penetravo i significati, i singoli contributi, le prospettive, le pregnanti immagini, emergeva una risposta che costantemente mi riconduceva a un punto, a quel modo che ci accomuna di aderire nel profondo alle questioni dell’Uomo, e dell’uomo migrante in particolare. Un’adesione profonda nata dall’incontro con Goffredo durante i miei dieci anni di lavoro come autrice di programmi di servizio per gli italiani all’estero a Rai International, nello storico “Sportello Italia”. Una tv di servizio pubblico di indiscusso valore.

    Un programma di servizio – dimensione di un giornalismo sociale, al servizio dell’Altro, che mi avvicina a Goffredo – di irripetibile portata perché esperienza umana, prima ancora che professionale, davvero fuori dall’ordinario. “Sportello Italia” mi ha spalancato mondi sul patrimonio sconfinato di tutte le storie di vita che hanno scritto la Storia del nostro Paese: milioni di emigranti che con il loro essenziale contributo, oggi riflesso attraverso i discendenti, hanno assicurato lo sviluppo della Madre Patria e dei Paesi di arrivo. È a partire da questa trasmissione che ho sviluppato la necessaria sensibilità e la passione civile per il successivo interesse all’approfondimento e alla ricerca nel vissuto migratorio di tutti quei milioni di donne e uomini che, ieri come oggi, conoscono lo strappo della migrazione.

    Conosco Goffredo Palmerini dal 2006, quando intervenne come ospite nel programma per rendere note le iniziative che la Regione Abruzzo, attraverso il Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo – di cui era un componente – aveva intrapreso a favore dei propri corregionali all’estero. Colsi subito il forte carattere morale che era capace di imprimere a questi temi, quel senso di responsabilità così particolare nel farsi ponte tra le ‘due Italie’. E questo era perfettamente in sintonia con la mission di un programma Rai che ponte era in ogni sua espressione di informazione per tutti gli italiani nel mondo. Un programma che è stato per me humus per realizzare poi il Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo di cui Goffredo è uno dei più prolifici autori oltre che membro del Comitato scientifico.

    Abruzzesi e abruzzesità, significato profondo dell’appartenenza e delle radici, associazionismo, rimesse, oriundi, stage universitari e gemellaggi, accordi e convenzioni bilaterali, rapporti con la stampa estera, criticità della rete diplomatico-consolare, Musei e Feste dell’Emigrazione, viaggi della memoria e del ritorno: con quella sua pacata modalità, Goffredo affrontava questioni nodali di un senso di comunità e di un’italianità tutta da coltivare, valorizzare e amare. Lo ascoltava partecipe Francesca Alderisi, per molti anni al timone del programma come autrice e conduttrice, e dal marzo di quest’anno impegnata come Senatrice della Repubblica Italiana; una vita dedicata con il cuore agli italiani all’estero, a dar loro ascolto, voce e rappresentanza. E sempre lei determinata promotrice e madrina del Giardino Italiani nel Mondo, inaugurato a Roma nel 2013, la prima targa toponomastica d’Italia dedicata ai nostri connazionali all’estero.

    Andando avanti nel tempo, ho ritrovato l’amico Goffredo col quale condividere attività performanti nel segno di un giornalismo sociale al servizio dell’Altro. A questo proposito non posso non ricordare il suo generoso sostegno nella condivisione con me della massima diffusione nel mondo delle molteplici attività di assistenza socio-sanitaria dell’INMP (Istituto Nazionale Salute Migrazioni e Povertà) a tutte le persone in difficoltà, italiane e immigrate, che cercano una vita migliore nel nostro Paese. Voglio qui ricordare il ‘viaggio spirituale’ della Croce di Lampedusa, realizzata con i resti dei barconi dei migranti morti nel Mediterraneo e benedetta da Papa Francesco. Una croce che proposi arrivasse da Roma fino a L’Aquila, da Goffredo, che la prese in custodia nelle tappe di Paganica, Pettino, Pizzoli e Vasto. Ancora oggi mi emoziona ricordare quella ‘strada’ che dal Lazio correva lungo le curve verso l’Abruzzo quale segno vivo del viaggio di tanti migranti alla ricerca di un futuro di speranza. Quella croce era ed è, nel suo viaggio che continua, testimonianza umana e spirituale di armonia tra fedi e culture diverse, di accoglienza e solidarietà compartecipativa.

    Lampedusa vuol dire ormai “porta”: porta del dolore, porta della speranza. Porta che accoglie. Lampedusa ci convoca tutti. E rimanda le nostre coscienze a quelle tre Madri che, ieri come oggi, ogni persona migrante ha lasciato: la propria Madre naturale, la Madre terra, la Madre lingua. Di fronte a queste luttuose perdite, dovremmo lasciare spazio solo al silenzio. E invece, nella ribalda mollezza di princìpi che il nostro tempo registra, abbiamo ridotto il delicatissimo tema dell’accoglienza a questioni di controllo, facendo prevalere logiche securitarie e di ‘contenimento’ sull’onda strumentale delle paure. Ci siamo ritrovati – e mi si perdoni, qui, il plurale – sguarniti di valori fondativi ed eticamente condivisi.

    Nella nuova storia sociale tutta da ricostruire, la domanda centrale è capire se l’Altro è per noi entità astratta e lontana o nucleo umano significante. Goffredo Palmerini, con la vigile consapevolezza che ritroviamo tra le pieghe di questo volume, ci consegna la risposta, unica e inequivocabile: i fatti sociali cui ognuno di noi può dare vita, ogni giorno, nel silenzio dei gesti più ordinari, sono ‘luoghi’ importanti di rigenerazione e ricchezza umana. Ecco perché tutti noi gli dobbiamo gratitudine profonda. Per il suo essere, in questo nostro tempo spaesato e spaesante, legame, punto di riferimento e aiuto al giusto porsi e giusto agire.

     

    *studiosa di migrazioni, scrittrice.

     

  • Fatti e Storie

    Salute e Migrazione: l’approccio transculturale

    Al progetto CARE, che ha l’obiettivo di promuovere e sostenere la salute dei migranti ed è coordinato dall’INMP, partecipano cinque Stati membri a forte pressione migratoria, Croazia, Grecia, Italia, Malta e Slovenia. Per realizzare un approccio comune nella presa in carico della salute dei migranti èstato progettato un pacchetto formativo dedicato alle diverse professionalità coinvolte a vario titolo in tale processo, che viene sviluppato nell’ambito di un evento di due giornate dedicato a diverse professioni che operano a favore della salute della popolazione straniera.

    L’evento ha l’obiettivo di integrare le conoscenze e le competenze dei partecipanti nell’accogliere, orientare e assistere gli stranieri, fornendo strumenti teorici, metodologici e operativi. L’incontro costituisce sul piano del networking una importante occasione di scambio di conoscenze ed esperienze tra i diversi attori coinvolti sul territorio.

    I lavori, aperti da Concetta Mirisola, Direttore Generale dell’INMP, e da Angelo Pellicanò, Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera per l’Emergenza Cannizzaro di Catania, affronteranno i molteplici aspetti legati alla presa in carico della salute dei migranti. Mauro Palma, Garante dei diritti delle persone detenute, inquadrerà gli aspetti legati ai diritti delle persone private della libertà personale.

    Il focus è su aspetti rilevanti dell’accoglienza ai migranti: Normativa in materia di immigrazione e asilo e la sua applicazione in Sicilia e nei centri di accoglienza e il diritto alla tutela della salute della popolazione straniera; La salute, la malattia e la cura nelle diverse culture; La comunicazione interculturale nella relazione tra operatore sanitario e straniero e il ruolo della mediazione transculturale in ambito sanitario. Temi che attraversano mission e ambiti di attività dell’INMP, ente pubblico del Servizio Sanitario Nazionale: il modello dell’Istituto è centrato su un’assistenza sanitaria di carattere inclusivo, offerta in un’ottica di piena accessibilità e prossimità, sulla presa in carico integrata della persona che coinvolge medici, psicologi, mediatori transculturali e antropologi nel poliambulatorio di Roma e negli Hotspot di Lampedusa e Trapani-Milo.

    Un modello che tende a sviluppare sistemi innovativi per contrastare le disuguaglianze di salute in Italia e che, nel rendere più agevole l’accesso al SSN da parte dei gruppi sociali più svantaggiati, dal 2008 ad oggi registra oltre 380mila accessi per 91mila pazienti, di cui il 67% composto da persone immigrate.

    “All’interno del Progetto CARE - dichiara il DG Mirisola - in un’ottica di sinergia con l’Azienda Ospedaliera per l’Emergenza Cannizzaro, l’evento formativo, attraverso la presentazione e la condivisione di esperienze cliniche e indicazioni utili per l’utilizzo del più adeguato approccio alla salute delle popolazioni migranti, si pone particolare attenzione all’ottica transculturale. Questi due giorni sono un’occasione per migliorare le conoscenze e le competenze dei partecipanti nell’accogliere, orientare e assistere gli stranieri, ma rappresentano anche un momento di scambio di conoscenze ed esperienze tra i diversi attori coinvolti sul territorio, come nelle linee di intervento dell’Istituto, che è Centro di riferimento della Rete nazionale per le problematiche di assistenza in campo socio-sanitario legato alle popolazioni migranti, nonché Centro per la mediazione transculturale in campo sanitario.

    È una responsabilità che ci vede impegnati a tutto campo, 7 giorni alla settimana, nell’assistenza socio-sanitaria rivolta a tutti i cittadini, con particolare attenzione alle fasce più vulnerabili della popolazione, nella ricerca sulla promozione della salute per le popolazioni fragili e migranti anche attraverso lo studio di modelli sperimentali per la gestione di servizi sanitari dedicati, nella promozione e gestione di un network di stakeholder italiani e internazionali, come nella realizzazione di programmi di formazione e di educazione sanitaria. Un’opera di assistenza integrata - clinica, sociale e psicologica - a persone senza dimora, a poveri e nuovi poveri e, con l’aiuto di mediatori transculturali esperti nel campo della salute, a immigrati regolari e non. Il nostro modello di presa in carico prevede peraltro un’attenzione particolare alle diversità nelle culture, nelle religioni, nelle lingue. In un mondo globalizzato, che ci avvicina a plurimi universi e identità culturali - conclude Mirisola - la capacità di incontro, di ascolto e dialogo interpella tutti noi”.

    “L’Azienda Ospedaliera Cannizzaro – sottolinea il Direttore Generale, dott. Angelo Pellicanò – è lieta e onorata di ospitare l’evento formativo organizzato dall’INMP. In quanto Hub per l’emergenza, in rete con le altre aziende sanitarie della città, la nostra struttura è in prima linea nel prendere in carico i migranti già nell’immediatezza dello sbarco. Ma anche nell’assistenza ambulatoriale l’ospedale Cannizzaro è punto di riferimento per gli immigrati presenti sul territorio. Perciò consideriamo fondamentale la formazione delle varie professionalità ospedaliere coinvolte nell’accoglienza e nella cura degli immigrati. Con questa consapevolezza l’Azienda Cannizzaro ha collaborato con la massima disponibilità con l’INMP e ha messo a disposizione ogni risorsa necessaria per l’organizzazione dell’evento formativo, al quale parteciperanno tra l’altro varie figure professionali di ospedali e altre realtà dell’area metropolitana di Catania”.

    Info:

    www.inmp.it; care@inmp.it

    www.ospedale-cannizzaro.it

    www.careformigrants.eu

  • Università di Roma "La Sapienza"
    Fatti e Storie

    Paesaggi linguistici della migrazione

    Ad aprire i lavori introducendo le prospettive di riflessione - giornalismo, cinema, letteratura, antropologia, medicina - il Rettore Eugenio Gaudio, Mario Morcellini, Prorettore alle Comunicazioni istituzionali, che affronterà gli aspetti legati alla Sapienza, tra internazionalizzazione e nuove migrazioni, Raffaella Messinetti, Preside Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione, Luca Scuccimarra, Direttore Dipartimento di Scienze Politiche, il Prefetto Mario Morcone, Capo Dipartimento Libertà civili e Immigrazione del Ministero dell’Interno.

    “La categoria ‘Paesaggio’ racchiude rappresentazioni e significati tangibili, simbolici e storici strettamente legati alle rappresentazioni sociali e alle identità collettive - spiega Laura Mariottini, coordinatrice scientifica del convegno, professore aggregato di Lingua e Traduzione spagnola del Dipartimento di Scienze Politiche della Sapienza -. Per tale motivo, la sua lettura è centrale per l’ampio ventaglio delle scienze umane e sociali.

    L’obiettivo delle due giornate è esaminare sia le linee teoriche sia i nuovi approcci metodologici, inserendoli in contesti di ricerca e applicazione diversi, nei quali tale paradigma può risultare pertinente e rilevante per la lettura e l’interpretazione delle città contemporanee. La lingua - conclude Mariottini - gioca un ruolo centrale: in quanto specchio delle dinamiche globali, è un indicatore importante dei processi di cambiamento che connotano le sfide della contemporaneità”.

    Tra gli interventi, la giornalista e studiosa di migrazioni Tiziana Grassi, direttore del “Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo”(SER ItaliAteneo-Fondazione Migrantes) - opera realizzata con il contributo scientifico di Mario Morcellini e dei ricercatori del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza - affronterà costanti e variabili delle vecchie e nuove mobilità che intersecano identità e codici linguistici nel difficile processo di costruzione di nuove territorialità, tra cultura di origine e di adozione. “La lingua conferisce identità - osserva Grassi - ma è messa a dura prova nello sradicamento, nei processi adattivi che ieri come oggi il migrante è costretto ad elaborare nei contesti di arrivo, spesso ostili.

    Lo sguardo d’insieme sui fenomeni migratori evidenzia un’altra prospettiva su cui è necessario fermarsi a riflettere, come da molti anni peraltro indicano gli studi e le ricerche di Morcellini e del suo Dipartimento, insieme alle issues di questo convegno, ovvero la dimensione della narrazione e della rappresentazione mediatica della persona migrante. Un racconto che, ieri come oggi, già a partire dal lessico rivela costanti e criticità spesso legate a stereotipi e pregiudizi, a sommarie e fuorvianti generalizzazioni sull’altro che generano allarmismi, e pensiamo all’uso improprio – alla luce del reale numero dei flussi migratori in arrivo o transito nel nostro Paese – del termine <invasione>.

    Che non c’è. Un titolo emergenziale ad effetto può alimentare irrazionali paure e strumentali resistenze nel sentire collettivo, mentre le implosioni fatte di muri e filo spinato a cui oggi assistiamo necessitano con urgenza di sguardi più amplianti, di approfondimenti e soprattutto di continuità che non si fermi alla notiziabilità del qui e ora, del solo arrivo dei migranti sulle nostre coste. I media, con la loro narrazione che concorre a delineare i paesaggi linguistici, mentali e cognitivi, possono accompagnare i cambiamenti storici e sociali in corso aprendo finestre e consapevolezze sulla complessificazione del nostro tempo e le sue multiformi istanze”. Per info: www.edisoportal.org

    Il workshop si terrà al Rettorato-Sala Organi Collegiali, piazzale Aldo Moro, 5.

  • L'altra Italia

    La Croce di Lampedusa dall’Abruzzo verso la Puglia

    Un arrivo molto atteso dalla comunità squinzanese, dopo la tappa di Roma (Basilica di San Vitale), seguita dalla giornalista pugliese, esperta di temi migratori Tiziana Grassi, e dopo le numerose tappe abruzzesi dell’Aquila, Pettino, Pizzoli, Paganica e Vasto, grazie alla straordinaria attivazione del giornalista aquilano Goffredo Palmerini.

    Una Croce che vuole dunque essere un forte segno di testimonianza umana e spirituale, di armonia tra fedi e culture diverse, di accoglienza e solidarietà compartecipativa.

    Come infatti hanno dato occasione di riflessione due importanti incontri di riflessione, a Pizzoli con Mons. Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, e a Paganica con Oliviero Forti, responsabile nazionale del Servizio Immigrazione della Caritas italiana.

    Nella mattina del 22 aprile, una delegazione di Squinzano, guidata dal Sindaco Mino Miccoli, dal Parroco della Chiesa Madre San Nicola, don Nicola Macculi, da Angelo Giovanni Capoccia, Vincenzo Maggio e alcune membri delle comunità parrocchiali locali, riceverà nella bella città costiera di Vasto la Croce di Lampedusa dal Parroco della Chiesa di Santa Maria del Sabato Santo, don Antonio Totaro, dopo la permanenza nella Chiesa di San Marco Evangelista di Vasto di cui è Parroco don Gianni Carozza, dove la Croce è stata venerata con grande partecipazione dalla comunità locale attraverso una suggestiva Via Lucis.

    All’interno del viaggio spirituale della Croce di Lampedusa, occasione per riflettere sulle migrazioni, l’accoglienza, la pace e il multiculturalismo, la tappa nel Comune salentino è stata fortemente voluta e seguita in tutti i suoi aspetti organizzativi dal Sottufficiale dell’Arma dei Carabinieri Angelo Giovanni Capoccia.

    Originario di Squinzano, Capoccia vive e lavora a Roma, esperto di internazionalizzazione del Sistema Paese (in questi giorni ospite del programma televisivo di servizio “Community” della Rai, che ha trovato immediata e propulsiva disponibilità nel Sindaco di Squinzano, l’avv. Mino Miccoli, e nel Parroco della Chiesa Madre dedicata al patrono San Nicola, don Nicola Macculi, chiesa di straordinaria bellezza architettonica edificata intorno al 1600 dove la Croce verrà accolta fino alla seconda metà di maggio.

    La città di Squinzano, dalla forte e stratificata vocazione all’accoglienza, che già intorno al 1100 ospitò un gran numero di profughi della vicina città messapica di Valesio, si prepara a ricevere la preziosa Croce di Lampedusa.

    Questa, realizzata dall’artista lampedusano Franco Tuccio e custodita dalla Fondazione “Casa dello Spirito e delle Arti”, fu fondata da Arnoldo Mosca Mondadori e presieduta da Emanuele Vai - con una fitta programmazione di eventi che coinvolgeranno estesamente tutta la comunità locale e salentina. All’arrivo dall’Abruzzo a Squinzano, il 22 aprile alle ore 18,30, con una processione verso la Chiesa di San Nicola la Croce sarà accolta con una solenne celebrazione eucaristica. Dopo il rito seguirà la consegna di una Targa, da parte del Sindaco Mino Miccoli, al concittadino Angelo G. Capoccia, quale segno di profonda gratitudine della città di Squinzano, sia per aver onorato tutta la comunità per l’arrivo della Croce benedetta da Papa Francesco che per l’aver egli sempre mantenuto vivi legami e rapporti – anche attraverso un costante e proficuo impegno di promozione del territorio e dei prodotti enogastronomici locali nel mondo, e negli Stati Uniti in particolare - con la propria Madre-Terra pugliese.

    Tra i numerosi eventi di grande significato sociale, spirituale e culturale intorno alla Croce di Lampedusa, promossi nei giorni di ospitalità dalla Città di Squinzano in collaborazione con l’Arcidiocesi di Lecce, sono previsti momenti di incontro sulla Croce (presso l’Oratorio Vicariale “Don Tonino Bello” con una manifestazione sportiva multietnica) e di riflessione etica sui temi migratori che oggi interpellano in maniera stringente il nostro Paese, ed in particolare i territori che si affacciano sulle coste del mar Mediterraneo quali la Puglia.

    Una Via Lucis a cura dei gruppi giovanili della Vicarìa, incontri con le terze classi della Scuola Media “G. Carducci” (23 aprile, ore 9), con gli studenti della Scuola Media “G. Abbate” (24 aprile, ore 9) e del Liceo Scientifico “F. Redi” (27 aprile, ore 9,30), un incontro-dibattito sull’integrazione presso l’Auditorium “Giovanni Paolo II” con Anna Caputo, Vincenzo Paticchio, Marco D’Antonio, Marcello Favale e con la testimonianza di alcuni immigrati che vivono nella città salentina che attualmente frequentano Corsi per l’inserimento sociale all’interno di un Progetto sull’accoglienza gestito dal Ministero dell’Interno.

    Particolare partecipazione è prevista per la “Festa dei Popoli” che si terrà a Squinzano sabato 25 aprile alle 20, con musica etnica e degustazione di piatti internazionali. Il 27 aprile alle 18,30, nella Chiesa Madre di San Nicola, si terrà la solenne Celebrazione presieduta da Mons. Domenico D’Ambrosio, Arcivescovo di Lecce, alla presenza dei cresimandi di Squinzano e delle loro famiglie, con un saluto di tutta la comunità locale alla Croce di Lampedusa in Piazza San Nicola.

    Ogni giorno, durante tutte le celebrazioni della Santa Messa nella Chiesa di San Nicola, saranno accolti momenti di meditazione sulla Croce di Lampedusa e sui nevralgici temi ontologici legati ai Migranti, ai Diritti umani e alla solidarietà, a partire dalle amplianti testimonianze di persone immigrate integrate nel territorio di Squinzano e del Salento, per un Tempo senza frontiere, che metta sempre più al centro delle proprie riflessioni la Persona, verso una più inclusiva coscienza collettiva attenta ai bisogni dell’Altro.

  • L'altra Italia

    “Per Crucem ad Lucem - Ai piedi della Croce”

    ROMA - Le celebrazioni della Settimana Santa, a Roma, nella Basilica di San Vitale, si sono aperte il Lunedì Santo con la sacra rappresentazione dell’Oratorio “Per Crucem ad Lucem - Ai piedi della Croce”, scritto dalla poetessa Anna Maria Murgolo, con musica del compositore Mons. Giuseppe de Candia, direttore della Fondazione Migrantes Puglia. L’Oratorio di Anna Maria Murgolo, trasposto in sacra rappresentazione a cura di Edoardo Siravo con la consulenza liturgica di Mons. Vittorio Formenti, si compone di quattro parti: I. “Io sono la Resurrezione e la vita: chi crede in me, anche se morto, vivrà” (Gv, 11,25); II. Il Ritorno; III. Esaltazione della Croce; IV. Ai piedi della Croce.

    L’Oratorio “Per Crucem ad Lucem - Ai piedi della Croce” è stato magistralmente interpretato dagli attori Virginia Barrett, Edoardo Siravo e Gabriella Casali. All’organo il M° Michele Loda, curatore della parte artistico-musicale dell’evento su spartito di Mons. Giuseppe de Candia, con l’intensa voce del Soprano Keiko Morikawa. Suggestivo il contesto della maestosa Basilica, che trae le sue origini nel IV secolo, con portico d’epoca paleocristiana ed all’interno gli splendidi affreschi di Agostino Ciampelli, Tarquinio Ligustri ed Andrea Commodi.

    “Per Crucem ad Lucem - Ai piedi della Croce”, in comunione con il pensiero di Papa Francesco che invita ad essere vicini e compartecipi alle periferie esistenziali e alle vulnerabilità sociali del nostro tempo, attraverso il dialogo tra la penitente e il Cristo, si è soffermato sul dolore dell’umanità di ieri e di oggi ai piedi della Croce, nei vari risvolti della sofferenza: dalla vedova all’orfano, dal malato al disoccupato al migrante. Il dolore della Passione emergeva dalle note dolenti di Mons. de Candia in una partitura che ha accompagnato e sottolineato il palpitante testo della Murgolo, e che con singolare maestria il M° Loda – con il Soprano Keiko Morikawa – ha eseguito, amplificando i passaggi di un testo denso di sentimenti e intriso di profonda Pietas. Sentimenti particolarmente sentiti nell’interpretazione della Barrett e di Siravo – mirabile anche nell’adattamento drammaturgico – con il sincopato alternarsi della Casali nel ruolo del Coro. Tre voci recitanti che hanno saputo coinvolgere un pubblico numeroso, attento e partecipe in un’atmosfera di palpabile spiritualità.

    La serata è stata aperta con ineguagliabile competenza da Mons. Vittorio Formenti, della Segreteria di Stato della Santa Sede, curatore della consulenza liturgica dell’Oratorio che, tra le numerose personalità presenti, ha salutato il “padrone di casa”, il Parroco della Basilica di San Vitale Mons. Daniele Micheletti, che con slancio ha ospitato la sacra rappresentazione e la preziosa Croce di Lampedusa, Mons. Gian Carlo Perego, Direttore Generale della Fondazione Migrantes della CEI, e Goffredo Palmerini, scrittore e firma prestigiosa di numerose testate giornalistiche in Italia e all’estero. Citati da Mons. Formenti anche tutti coloro che hanno generosamente contribuito alla realizzazione dell’evento, la cui organizzazione è stata ideata e diretta da Angelo Giovanni Capoccia. Particolarmente apprezzata la presenza rappresentativa dell’Arma dei Carabinieri che ha assistito e reso onore alla sacra rappresentazione dell’Oratorio, cui hanno concesso Patrocinio morale  prestigiose istituzioni vaticane, tra le quali la Segreteria di Stato della Santa Sede, il Vicariato di Roma, la Pontificia Università Lateranense, la Fondazione Migrantes della CEI e l’Arcidiocesi di Agrigento.

    Dopo l’intervento introduttivo di Mons. Vittorio Formenti, un momento di particolare emozione è stato quello della consegna, da parte dello stesso Prelato, della speciale Pergamena con la Benedizione apostolica di Sua Santità Papa Francesco all’autrice dell’Oratorio Anna Maria Murgolo. Sono poi seguiti gli interventi di saluto di Arnoldo Mosca Mondadori ed Emanuele Vai, rispettivamente fondatore e presidente della “Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti”, onlus attiva nel sostegno di cause sociali a favore di coloro che oggi vivono nella marginalità e che, tra i numerosi progetti etico-culturali, segue “Il Viaggio della Croce di Lampedusa”. La Croce è stata realizzata dall’artista lampedusano Franco Tuccio con il legno dei resti dei barconi di migranti morti nel mar Mediterraneo e benedetta da Papa Francesco il 9 aprile 2014. Da quella data è iniziata una “staffetta spirituale” attraverso l’Italia che ha visto realizzare la quindicesima tappa appunto a Roma, in diverse parrocchie, dal 5 marzo al 9 aprile 2015.

    Dopo Roma la Croce di Lampedusa proseguirà per L’Aquila, dove resterà fino al 17 aprile, accolta nelle parrocchie di Pettino, Pizzoli e Paganica, quindi il 17 proseguirà per Vasto (Chieti) e il 22 aprile per Squinzano (Lecce), grazie alla preziosa collaborazione di Goffredo Palmerini e Angelo Giovanni Capoccia. La presenza della Croce di Lampedusa in Basilica di San Vitale per l’evento della Sacra rappresentazione del Lunedì Santo è stata pensata per sottolineare tutto il portato simbolico ed espressivo che essa rappresenta, mettendo in comunione spirituale la tragica pagina del nostro tempo, spesso dimentico della dignità dell’Uomo e dei diritti umani dei Migranti, con la sofferenza, la Crocifissione e la Resurrezione di Cristo.

  • L'altra Italia

    Percorso migratorio e vulnerabilità di chi lo vive. In garanzia del diritto alla salute



     
    ROMA - La società plurale e il pregiudizio come rischio clinico sono stati al centro di un Workshop tematico organizzato dal Centro per la Vulnerabilità e lo Stress da Trauma delle popolazioni migranti e richiedenti Asilo del Policlinico “A. Gemelli” di Roma in collaborazione con il Centro di ricerca “Health Human care and social intercultural Assessments” e il Master di II livello “Politiche migratorie, Human care e Management sostenibile” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore “Gemelli”.
     
    Al momento di riflessione sono intervenuti il Prof. Pietro Bria, Responsabile del Progetto dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il Prof. Emanuele Caroppo, Coordinatore scientifico del Progetto e la Dott.ssa Concetta Mirisola, Direttore Generale dell’INMP, Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà, afferente al Ministero della Salute. Focus del Workshop, la discussione della tesi di specializzazione del Master universitario della mediatrice culturale Dott.ssa Chiara Cianciulli dal titolo “People on the move: mediazione transculturale e migrazioni forzate” e “Modello monitoraggio salute migranti. Una proposta di Networking” discussa dal Dott. Antonio Ciravolo, a cui è seguita la presentazione dei risultati del Progetto OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) Equi Health di Rosella Celmi.  Un’occasione per tematizzare le complesse dinamiche interrelazionali date dalla contemporanea società multiculturale connotata da sempre più densi fenomeni migratori in entrata e in uscita dal nostro Paese, e che necessitano di nuove consapevolezze e amplianti prospettive di approccio. Tra queste, la Medicina transculturale, una medicina di prossimità, che focalizza l’attenzione sulla persona e, in una dimensione antropocentrica, ne affronta il vissuto migratorio attraversando identità plurime, problemi legati agli ibridismi culturali nell’eterna sospensione tra due mondi e forme di disagio insite in ogni processo migratorio, tra spaesamento-sradicamento, resilienza, solitudine e senso di perdita nell’altrove.
     
    L’esperienza migratoria, ieri come oggi, comporta infatti nell’individuo un senso di vuoto, di lacerazione e rottura nel continuum esistenziale - spesso un avvenimento di portata catastrofica che marca indelebilmente un ‘prima’ e un ‘dopo’ nell’esistenza - che gli studiosi hanno definito “lutto migratorio”. Aspetti che riconducono al concetto di vulnerabilità esperenziale del migrante e a cui la branca psichiatrica della medicina oggi pone la massima attenzione per la necessità di una presa in carico multidimensionale della persona, di una valutazione olistica dell’individuo “in transito” - psichicamente e geograficamente -, tra contesti di partenza e di arrivo. Premesso che “l’art. 32 della Costituzione italiana ci ricorda che tutelare la salute è un diritto fondamentale dell’individuo – ha osservato il Direttore Generale dell’INMP Mirisola - oggi che l’immigrazione è diventata un fenomeno strutturale del nostro Paese, altrettanto strutturale deve essere la risposta, consapevoli che i problemi di salute della popolazione immigrata possono essere concettualmente classificati in tre grandi categorie: di ‘importazione’, di ‘sradicamento’ e di ‘acculturazione’. I problemi di importazione derivano dalle caratteristiche genetiche o dalle condizioni di vita nel Paese di origine. I problemi di sradicamento sono invece generati dall’esperienza migratoria, in particolare tra coloro che sono stati costretti a una migrazione forzata, come nel caso dei richiedenti protezione internazionale, e si manifestano principalmente come disturbi della sfera psichica. Il processo di acculturazione influisce sullo stato di salute soprattutto attraverso il cambiamento degli stili di vita degli immigrati che progressivamente tendono ad assumere quelli della popolazione del Paese ospite”. Sullo stato di salute dei migranti, la dottoressa Mirisola ha inoltre focalizzato che, in generale, il migrante arriva sul nostro territorio in buone condizioni di salute, si tratta del cosiddetto ‘effetto migrante sano’, una sorta di selezione naturale all’origine, per cui emigra soprattutto chi è giovane e in buone condizioni di salute, poiché il viaggio è lungo, difficile, a volte costoso e viene realizzato in condizioni di elevata precarietà. A conferma di ciò, vi è il dato sanitario relativo alla bassa prevalenza delle patologie infettive di importazione, i cui rischi di trasmissione alla popolazione ospite rimangono peraltro trascurabili. Tuttavia, con il passare del tempo, gli immigrati tendono a perdere tale vantaggio e il loro profilo di salute si approssima a quello della popolazione ospite o diventa addirittura peggiore, a causa dell’esposizione a peggiori condizioni di vita e di lavoro e delle disuguaglianze emergenti nell’accesso ai servizi: è il cosiddetto ‘effetto migrante esausto’. L’acculturazione può, tuttavia, determinare anche effetti positivi, ad esempio generando una maggiore partecipazione ai programmi di screening per l’anticipazione diagnostica”.
     
    L’INMP, tra i soggetti istituzionali che hanno partecipato al Workshop tematico, è centro di riferimento nazionale per l’assistenza socio-sanitaria alle popolazioni migranti e alle fragilità sociali, nonché centro nazionale per la mediazione transculturale in campo sanitario. In questa mission, si avvale di una struttura sanitaria poli-specialistica, in cui opera uno staff multidisciplinare di medici, psicologi, infermieri, mediatori transculturali e antropologi formati ad hoc per l’attività di accoglienza e di facilitazione all’accesso al Servizio Sanitario Nazionale. Una dimensione, quella della mediazione transculturale in una società che vede moltiplicarsi le geografie dell’umano, nevralgica, come ha evidenziato nella sua smagliante discussione di laurea la mediatrice culturale Cianciulli: “La prospettiva transculturale è un modello di analisi della realtà moderna, un ideale a cui tendere nella prassi quotidiana di interazione culturale perchè non si pone su un unico polo, ma attraversa le culture, nella contaminazione di scambi, incontri e ibridismi. E’ un approccio trasformativo, orientato al cambiamento, basato su una visione essenzialmente socio-comunicativa del conflitto umano, dove il conflitto è occasione di crescita morale e personale. La mediazione è dunque un processo attivo e dinamico, delineandosi come un lavoro di decodifica della comunicazione che si articola su tre livelli: pratico-orientativo, linguistico-comunicativo dove il mediatore deve entrare per un istante nell’immaginazione culturale dell’Altro e deve permettere alle due culture di incontrarsi creando un contesto comunicativo che faciliti la comprensione dei messaggi, anche non verbali. Tutto ciò, dimostrandosi imparziale, empatico ed evitando giudizi di valore o forme di censura che possano generare incompatibilità; l’altro livello è quello psico-sociale, dove la mediazione transculturale diviene agente di cambiamento e il mediatore rappresenta la possibilità di realizzare questo passaggio senza distruggere la stabilità psicologica del soggetto straniero verso un’uguaglianza emancipante, che è il fine di ogni percorso migratorio”.
     
    Una figura professionale, quella del Mediatore transculturale, che in Italia vive il grande paradosso di essere, da una parte, in attesa di un pieno riconoscimento giuridico nel mondo del lavoro (e a questo proposito va citata la valenza del Progetto FOR-ME, finanziato dal FEI Fondo Europeo per l’integrazione di cittadini di Paesi terzi, proposto dal Ministero dell’Interno e attuato in partenariato dal Ministero della Salute e INMP, e che ha l’obiettivo di contribuire a migliorare qualitativamente l’assistenza socio-sanitaria resa alla popolazione straniera, con particolare riferimento ai cittadini dei Paesi Terzi, nel rispetto del principio di garanzia del diritto alla salute e di un’appropriata erogazione dei livelli essenziali di assistenza sul territorio nazionale), mentre rivela tutta la sua nevralgica rilevanza nell’urgenza di dialogo, confronto e conoscenza dell’Altro, partendo da quegli “altri” che vivono insieme a noi e che contribuiscono a ri-disegnare i nuovi paesaggi dell’Italia multietnica e plurale, in un tempo pieno di incognite, contraccolpi e contraddizioni. Un tempo in cui gran parte delle categorie che ci ha lasciato in eredità il Novecento si rivelano inadeguate a spiegare e comprendere il presente, verso nuove, più mature e inclusive filosofie dell’alterità.
     


  • L'altra Italia

    La tragedia della Montagna. Tra Emigrazione e Storia del lavoro

    ROMA - “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”, questa l’emblematica frase di Max Frisch che – a testimonianza del ‘clima’ che ha accolto gli italiani emigrati all’estero tra Otto e Novecento – apre il Catalogo della mostra fotografica “Mattmark, Tragedia nella Montagna”, il primo degli eventi legati alle celebrazioni commemorative per il 50° anniversario della Catastrofe avvenuta nel 1965, e promosse dal Comites Vallese, dall’Associazione ItaliaVallese e dal Comitato ad hoc “Mattmark 1965-2015”. Un catalogo rigorosamente trilingue – tedesca, francese e italiana – per una mostra commemorativa inaugurata nei giorni scorsi presso la Sala degli Atti Parlamentari della Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini” che ci immerge in una tragica pagina dell’Emigrazione italiana e delle migrazioni tout court, tragedie della montagna ieri, tragedie del mare oggi, nell’eclissi di ogni Pietas. Scorrono, a richiamare l’urgenza della Memoria, le immagini di una Mostra-racconto che ci riguarda: lo studio del progetto della diga, il ghiacciaio dell’Allalin e il sottostante lago di Mattmark, la benedizione, la conferenza stampa che annuncia l’inizio dei lavori di costruzione, il cantiere al lavoro di notte. Lo struggente racconto per immagini procede con la festa alla fine dei lavori e l’inaugurazione ufficiale, secondo la liturgia del Rito propiziatorio.

    Seguono immagini con operai che ci guardano, sorridenti, dai loro enormi camion per il trasporto pesante. E’ l’Innocenza contro la Morte, in quei sorrisi di uomini al lavoro. Epperciò risulta tanto più stridente e straniante quella didascalia: “La vigilia della catastrofe. Da sinistra a destra: Giancarlo Acquis, Merlin da Meano, Augusto Praloran”. Il fotogramma successivo è il silenzio di una distesa infinita di neve. Il Dopo. E’ il 1° settembre 1965. Le fotografie ci restituiscono uomini al lavoro mentre cercano di salvare i compagni sepolti sotto il ghiaccio. Le immagini della mostra/catalogo scorrono: l’immensa massa di neve sul cantiere della diga vista dall’aereo il giorno successivo alla catastrofe lascia sgomenti. Come il Registro dei dispersi, le ricerche dei corpi delle vittime della valanga, gli articoli di giornale di quei giorni: “Non c’è speranza per i sepolti vivi di Mattmark. Solo otto salme dissepolte. Secondo un rapporto delle autorità i ‘dispersi’ sono ottantadue, di cui forse cinquantacinque italiani. Dieci si sono salvati fuggendo sulle montagne. Oggi bombardamenti con ‘bazooka’ contro il ghiacciaio superiore. Il pianto dei compagni di lavoro. Impressionanti racconti dei superstiti e messaggi degli scampati alle famiglie in Italia. ‘Erano tre giorni che la montagna faceva la mossa’ ”. (Corriere della Sera). Dopo, siamo lì con loro, con i sopravvissuti. Con i fermo-immagine delle vedove avvolte nei veli neri del lutto, impietrite mentre stringono rosari. Siamo con gli orfani di Mattmark. In giacca nera. Serissimi. Bambini, e già consapevoli. Seguono le fotografie dei processi, inquietanti. Sono i dolorosi fotogrammi di una tragedia annunciata, sequenze della Storia, la nostra. Perché la tragedia di Mattmark del 30 agosto 1965 resta, ancora oggi, a distanza di 50 anni, un ricordo vivo nella popolazione del Vallese, accomunando nello stesso tragico destino lavoratori migranti e svizzeri. Una sciagura in cui perirono 88 lavoratori di diverse nazionalità di cui 56 italiani. In questo triste numero era presente l’Italia intera, dalle Alpi alla Sicilia.

    Erano le 17 e 15 del 30 agosto 1965, quando il tempo si fermò. A 2.120 metri d’altitudine, un

    intero costone del ghiacciaio dell’Allalin, nelle Alpi del Vallese, si staccò e precipitò a valle travolgendo il cantiere e seppellendo sotto una montagna di ghiaccio gli operai che stavano lavorando alla costruzione della diga del lago di Mattmark, nella Valle di Saas, una delle infrastrutture più importanti d’Europa. 88 i morti, 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi ed un apolide. Gli orfani furono 85. “Pochi istanti prima che venisse giù parte del ghiacciaio, istintivamente, le vittime corsero verso le baracche nel vano tentativo di cercare rifugio, ignari che quella massa enorme era diretta proprio verso di loro – annota Toni Ricciardi, Docente all’Università di Ginevra, uno dei massimi studiosi di storia dell’emigrazione italiana in Svizzera -. In pochi secondi le baracche e quanti sperarono di aver trovato in esse riparo furono sepolti sotto oltre 50 metri di ghiaccio, ghiaia e sassi. La fase dei soccorsi fu complessa ed emotivamente molto toccante perché furono gli stessi colleghi di lavoro ad effettuare, insieme all’esercito, il recupero delle salme, o meglio, di ciò che rimase delle stesse. (…)”.

    “La gran parte di questi operai aveva lasciato la terra natale per far vivere le loro famiglie – annota Stéphane Marti, responsabile del “Progetto Mattmark 1965-2015”, curatore del catalogo della Mostra -. Questi si erano uniti ai lavoratori svizzeri e con essi avevano imposto a questo universo di ghiaccio, neve e roccia, un’opera titanica di cui non avrebbero mai visto la realizzazione. L’epopea delle grandi costruzioni di dighe deve essere raccontata al mondo moderno che ignora a quale prezzo e con quali sacrifici fu ottenuto il progresso. (…). Le immagini di questo libro richiamano la presenza di questi uomini dove giovani volti esprimono la giusta fierezza di un lavoro compiuto in un mondo dove la scala umana non ha più alcun valore, tra l’immensità della natura e la mostruosità delle macchine. Ma ciò che colpisce in tale contesto è la fraternità che salda tra loro questi ‘operai dell’impossibile’. Essi hanno condiviso un unico destino sul lavoro e nella vita, nella catastrofe e nella morte. La costruzione delle dighe, questa impresa inedita che riuscì a trasportare da una montagna all’altra tanta acqua per quanto il Rodano potesse portare in pianura, è una storia eroica. Il disastro va oltre le stesse parole. Gli enormi camion piegati come giocattoli, le ricerche patetiche e irrisorie nella notte, la confusione, solo i testimoni diretti ne possono parlare. Le parole sobrie d’un pioniere dell’aviazione alpina, Hermann Geiger, venuto con il suo elicottero tra tutte le forze di soccorso, militari, guide, polizia, ambulanze, operai, sottolineano ancora l’impotenza degli uomini di fronte alla smisurata e raccapricciante catastrofe. Ma, più forte di questa calamità, c’è la dignità delle famiglie, delle spose e degli orfani, dei colleghi sopravvissuti. E’ la lezione di questa tragedia. (…). Il crollo del ghiacciaio – conclude Marti – diventa la causa di una rottura più profonda, tra il mondo antico fatto di tradizione e la modernità conquistatrice, tra la pianura dove si trova il denaro, il potere e l’opinione pubblica, e la montagna dove domina la realtà del lavoro, in altri termini, tra il paese d’emigrazione e il paese d’immigrazione”.

    La massa di ghiaccio ricoprì come un mostruoso manto bianco uomini, storie, costruzioni, macchinari. Le vittime provenivano dalla provincia di Belluno e da altri centri veneti, da Friuli, Trentino, Emilia, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria (soprattutto da San Giovanni in Fiore), Sicilia e Sardegna. La sciagura avvenne circa un’ora prima della fine del turno diurno (il cantiere a Mattmark non si fermava mai, si lavorava 24 ore su 24 ininterrottamente per 6 giorni a settimana), se fosse accaduta verso l’ora di pranzo, i morti sarebbero stati 600 e la tragedia avrebbe assunto dimensioni abnormi più di quanto accadde. “Cercavamo di trovare compagni ancora in vita… una desolazione che non posso descrivere. Quando vedevo qualcuno in vita, era un miracolo…”, dice tra le lacrime Nereo Mazzari, operaio all’epoca impegnato nei lavori della diga, in una delle toccanti testimonianze del toccante filmato che ha aperto i lavori, elaborato sulla base di documentazione storica e di interviste a persone che hanno vissuto quei momenti direttamente sui luoghi della tragedia, realizzato con la collaborazione di Nicolas Brun.

    Sull’eco di quelle parole e sull’applauso dolente di una gremita Aula “Spadolini”, a conferma che quella tragedia è ancora ‘viva’, si accendono le luci per dare inizio ad un pomeriggio molto denso di riflessioni. Ad aprire i lavori il senatore Claudio Micheloni, Presidente del Comitato per le Questioni degli Italiani all’Estero del Senato, assieme al Presidente della Commissione Esteri del Senato Pier Ferdinando Casini, la deputata Valentina Piras della Commissione Lavoro della Camera, il Presidente del Comites Vallese e del Comitato ad hoc per le celebrazioni, Domenico Mesiano, il responsabile esecutivo del Progetto Mattmark 2015, Stephane Marti, e Sandro Cattacin, ordinario di Sociologia dell’Università di Ginevra. Tra i presenti, nella Sala della Biblioteca, anche alcuni dei figli e parenti dei sopravvissuti, autorità locali e tutti i rappresentanti del mondo dell’Associazionismo degli italiani all’estero, nonché l’Ambasciatore svizzero a Roma, Giancarlo Kessler.

    Come primo atto dei lavori, il senatore Micheloni ha letto ai presenti il messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel messaggio, il Capo dello Stato ha sottolineato l’importanza di non dimenticare “una delle pagine più drammatiche della storia della nostra emigrazione”, aggiungendo che “oggi come ieri le nostre comunità italiane all’estero si sono integrate nei Paesi che le hanno accolte, contribuendo al loro sviluppo e mantenendo al tempo stesso un forte legame con l’Italia”. Il promotore dell’evento, sen. Micheloni, ha sottolineato che “tutte le celebrazioni di quest’anno sono finanziate da Istituzioni ed Enti etici Vallesani e non è un dettaglio di poco conto. Credo che il nostro dovere sia ricordare e onorare: ricordare è il dovere di cittadini e politici; la storia dell’emigrazione è piena di parole che non ci piacciono: discriminazione, xenofobia, stragi, le migrazioni forzate del dopoguerra. Ricordare non è onorare. Non basta ricordare per onorare la memoria delle vittime. Come farlo? Come ci comportiamo oggi nei confronti degli immigrati? Nel processo Mattmark furono rinviati a giudizio 17 imputati: tutti assolti in primo e secondo grado; le spese processuali furono a carico delle vittime. Una cosa che scandalizzò tutti. E allora mi chiedo: se voglio onorare le vittime, se considero ingiusta la ‘giustizia’ di allora, da senatore e da politico italiano che responsabilità ho dei 300 morti ieri nel Mediterraneo e di tutti gli altri? Abbiamo votato l’abbandono di ‘Mare Nostrum’; siamo pronti a riflettere su questo? Le cose sono complicate, certo, ma come rappresentante degli italiani all’estero devo onorare veramente le vittime, facendo in modo che noi non permettiamo oggi le tragedie degli immigrati”.

    Secondo Valentina Paris il caso di Mattmark testimonia come “Sia stato l’uomo a sfidare la natura. L’ha fatto allora, continua a farlo oggi. Compito della politica è riflettere sulle grandi opere da fare, ma anche su come farle per prevenire le tragedie”. Pier Ferdinando Casini ha lodato l’iniziativa promossa dal senatore Micheloni, dichiarando che “Dobbiamo essergli grati anche nei termini politici perché, come ha detto la collega Paris, un Paese che non coltiva la Memoria fa torto a se stesso. Italia e Svizzera hanno intrecciato a lungo le loro vicende, ma è importante sottolineare come la storia dell’emigrazione sia anche la storia costitutiva di un Paese straordinario come la Svizzera che, senza gli italiani, probabilmente oggi sarebbe diverso”. Casini ha poi aggiunto: “E’ necessario parlare di integrazione. Di fronte alle ‘primavere arabe’ non possiamo pensare di costruire muri, ma neanche ad una politica di accoglienza che finirebbe per essere autolesionista. L’integrazione è la chiave”.

    In una prospettiva socio-storica, il prof. Sandro Cattacin, ordinario di sociologia all’Università di Ginevra eresponsabile della ricerca storico-sociale sulla Tragedia di Mattmark a cui hanno partecipato Rémi Baudoui, Toni Ricciardi, Irina Radu e Blaise Dupuis “la catastrofe di Mattmark segna indelebilmente la recente storia migratoria della Svizzera. Per la prima volta i migranti muoiono sul luogo di lavoro accanto a lavoratori svizzeri. Data la diversa provenienza delle 88 vittime, questo avvenimento, di portata nazionale, acquista una dimensione internazionale. Sia in Svizzera che in Europa dà inizio al dibattito sulle condizioni umane e sociali delle migrazioni economiche e sulle condizioni di lavoro dei migranti. Nella stessa Svizzera, al di là della polemica pubblica in merito agli errori di gestione commessi nel cantiere, le vittime di Mattmark acquistano lo status di esseri umani, meritevoli di compassione e di ristoro. Improvvisamente la Svizzera scopre i rischi quotidiani che la manodopera straniera corre per la costruzione di un Paese al passo con i tempi. (…). L’obiettivo di questa ricerca è stato duplice: innanzitutto, recuperare il ruolo che la catastrofe ha avuto nella storia della costruzione della Svizzera contemporanea e quindi del suo Stato sociale e, in secondo luogo, quello di restituire la memoria dei fatti, andando oltre la semplice cronaca degli avvenimenti. La prospettiva socio-storica – attraverso l’analisi approfondita di tutto il patrimonio archivistico sulla catastrofe, contestualizzandolo all’interno delle questioni relative alla migrazione, la sicurezza sul lavoro e alle politiche pubbliche – ha fornito la possibilità di ridare a questo tragico avvenimento un posto centrale nella recente storia della Svizzera”.

    Riflessioni che si correlano alla prospettiva storica dello studioso Ricciardi, che in “Studi Emigrazione” CSER (n.196, 2014), “Mattmark: l’amara favola dimenticata”, annota: “L’amara favola, così titolò Dino Buzzati l’articolo di commento del ‘Corriere della Sera’ dell’1 settembre 1965 che raccontò la storia di quanto avvenne nel Cantone Vallese, alle pendici del ghiacciaio Allalin, il 30 agosto del 1965. La catastrofe di Mattmark ebbe la stessa risonanza, se non maggiore, di quanto accadde un decennio prima in Belgio a Marcinelle. Come a Charleroi, - dove per la prima volta la televisione e la radio seguirono in diretta i momenti più tragici dell’attesa e del lutto – si recarono sul posto oltre duecento giornalisti svizzeri e corrispondenti da tutto il mondo. Le immagini delle baracche sepolte sotto oltre 2 milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti fecero il giro del mondo. Per la Svizzera fu un vero e proprio shock. (…). La catastrofe suscitò scalpore in tutta Europa e rappresenta, ancora oggi, la più grave catastrofe della storia svizzera dell’edilizia. L’opinione pubblica elvetica fu molto scossa dalla tragedia, perché per la prima volta immigrati e svizzeri morirono l’uno a fianco all’altro. Accomunati tutti, senza alcuna differenza, dal dolore e dall’incomprensione per quanto fosse accaduto. (…). Tuttavia, l’elemento che più di ogni altro lascia interdetti – commenta lo storico - è la successiva rimozione, casuale e/o voluta, di questa immane tragedia. Paradossalmente, come Marcinelle e forse anche più della tragedia belga, nonostante le varie fasi (progettazione, catastrofe, inaugurazione, processo) abbiano avuto la giusta attenzione da parte dei media e dell’opinione pubblica, Mattmark è stata rimossa dalla memoria collettiva. L’oblìo nel quale è caduta questa tragica pagina dell’emigrazione italiana, e più in generale della recente storia svizzera, ci fa parlare di Mattmark come di una Marcinelle dimenticata”.   

    Sulla necessità della Memoria, Domenico Mesiano, co-curatore dellaMostra e Presidente del Comitato per le celebrazioni del 50° Anniversario di Mattmark, ha osservato che “con le celebrazioni in programma quest’anno, il Comitato intende scongiurare l’oblìo su fatti importanti, ma anche discutere, rendere fruibile un patrimonio di conoscenza che stimoli un dibattito sull’integrazione degli stranieri. Oggi, nel Vallese ci sono 18mila italiani, la metà ha la doppia cittadinanza. Anche per questo il Cantone ha scelto l’italianità come uno dei pilastri fondanti del suo patrimonio culturale. Dopo Roma, la Mostra verrà allestita a Sion e altre città del Vallese per arrivare a fine agosto del 2016 a Briga. Sempre all’interno delle scuole, e non a caso, perché dobbiamo far conoscere questa storia ai giovani e con loro parlare di integrazione”. Per il prof. Stéphane Marti, co-curatore della Mostra, responsabile del “Progetto Mattmark 2015” e Presidente della “Fondazione Fellini” “le energie messe per commemorare questa tragedia hanno come scopo quello di creare un memoriale moderno, di ispirazione romana: nel senso che con questo lavoro vogliamo trasmettere la verità alle nuove generazioni” perché “l’oblìo è una seconda morte. Raccontare la verità è un obbligo: abbiamo deciso di farlo attraverso queste foto e le testimonianze del doppio sacrificio delle vittime di allora, emigrare e morire per il progresso di un altro Paese”. Marti ha aggiunto che “la rappresentanza svizzera in Europa porterà questa Mostra nelle sedi dell’Unione europea come omaggio al lavoro italiano”.

    Il Senatore Micheloni ha successivamente omaggiato il Presidente Domenico Mesiano con una targa in argento del Senato per il suo pluriennale impegno civile e sociale “che ha permesso di valorizzare al meglio il ruolo della comunità italiana in Vallese – ha dichiarato Micheloni - come testimonia quest’ultima iniziativa sulla tragedia di Mattmark”. Mattmark, la più grande tragedia dei lavoratori italiani in Svizzera che scandalizzò per le sentenze di assoluzione dei responsabili e che colpì l’opinione pubblica, indusse a un doveroso cambio di passo nei rapporti tra autoctoni e immigrati: superando la diffidenza verso lo ‘straniero’, considerato fino ad allora solo come forza-lavoro - che tuttavia contribuiva a importanti processi di modernizzazione del Paese – si innescarono nuovi e inclusivi atteggiamenti di integrazione. Dopo quella catastrofe, maturò un nuovo senso di comunità tra persone di diversa nazionalità e cultura, insieme ad ormai necessarie consapevolezze sia sulla sicurezza nei luoghi di lavoro che sul fondamentale ruolo della politica e delle scelte di governo. Perché così come ieri non fu la Montagna a seppellire lavoratori, oggi non è il Mare a inghiottire migranti, è stato il messaggio più volte emerso durante l’intenso pomeriggio commemorativo.

    Sul cambio di ‘visione’ che la tragedia di Mattmark rappresentò, Toni Ricciardi puntualmente osserva che “l’effetto simbolico fu devastante: la Svizzera entrava così nell’immaginario collettivo come un Paese arrogante e crudele. Nel Parlamento italiano le voci critiche lessero la sentenza come una dimostrazione dei pregiudizi elvetici nei confronti della manodopera italiana, che contava più di mille morti nei cantieri elvetici negli anni Sessanta. A conferma dell’inadeguatezza delle misure di sicurezza sul lavoro, l’OIL (Ufficio Internazionale del Lavoro) dimostrò come i livelli di sicurezza, durante tutto il decennio 1960, furono i più bassi dell’intera area OCSE. Infine, nonostante il Governo italiano si dichiarasse pronto a farsi carico delle spese processuali tramite il fondo del consolato per la tutela giuridica costituito presso l’Ambasciata italiana a Berna, la giustizia vallese non prese in considerazione una remissione delle spese a favore delle famiglie delle vittime. Come per il Belgio dopo la sciagura di Marcinelle, le pressioni internazionali produssero effetti anche in Svizzera, con l’istituzione di una Commissione italo-svizzera per la prevenzione degli infortuni nell’edilizia. Inoltre, per la prima volta, le autorità elvetiche interloquirono direttamente con i sindacati italiani e il mondo associativo in emigrazione sui temi della sicurezza sul lavoro e delle assicurazioni sociali. In definitiva, politici, economisti, intellettuali e gente comune trovarono nella tragedia di Mattmark un ulteriore stimolo per approfondire il dibattito, già in corso da alcuni anni, sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato che richiedeva sempre più manodopera estera, soprattutto per le grandi opere infrastrutturali (di per sé molto rischiose) e per le attività a bassa intensità di qualifica abbandonate dagli svizzeri (…)”. Corsi e ricorsi storici.

    L’attenta analisi di Ricciardi individua altri focus di riflessione socio-storica: “Anche per la collettività italiana in Svizzera la tragedia rappresentò un’occasione per interrogarsi sul senso della propria presenza in un Paese in cui, benché parte attiva e persino determinante del benessere, non si sentiva accettata e corresponsabile, anzi oggetto di discriminazione e ostilità. Questi furono gli anni della svolta e del cambio di prospettiva. Quanto abbia inciso Mattmark (la Marcinelle elvetica) nel rifiuto delle campagne referendarie del 1965, del 1970 e del 1974, non ci è dato sapere. Certamente, però, questa tragedia segnò un momento di cesura nell’arco della lunga storia della presenza italiana in Svizzera”.

    Cinquant’anni dopo quella tragedia – sottolinea ancora, a conclusione dei lavori, Marti - il Cantone Vallese iscrive l’italianità all’interno del progetto per la salvaguardia del suo patrimonio immateriale depositato all’UNESCO. Cinquant’anni dopo quella tragedia, 18mila italiani vivono in Vallese e sono riconosciuti come facenti parte integrante della sua identità. Questa diga di Mattmark è dunque molto di più che una grande opera della montagna. E’ un monumento eloquente della nostra storia ed un simbolo che fa di questo luogo quello che già fu nell’antichità: un luogo di passaggio tra l’Italia e la Svizzera, un ponte che unisce e dà continuità alla storia dei nostri due Paesi”. Mattmark, un ‘fatto sociale totale’ che ci invita a guardarci più da vicino, nella duplice prospettiva passata e futura, sollecitando a tutte le latitudini la consapevolezza della complessità dell’essere migranti. Ieri come oggi.

  • L'altra Italia

    La Grande Emigrazione italiana tra Otto e Novecento

    Continua lo “Speciale DEMIM” per approfondire temi e prospettive disciplinari dell’opera dedicata alla Grande Emigrazione italiana tra Otto e Novecento. Oggi si propone l’intervista a Delfina Licata, coordinatore scientifico del Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo, pubblicato dalla SER ItaliAteneo in collaborazione con la Fondazione Migrantes.

    Dottoressa Licata, dopo Mons. Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, che ha fortemente sostenuto e seguito con la massima attenzione la realizzazione del Dizionario Enciclopedico, e il prof. Enzo Caffarelli, direttore editoriale di questa monumentale opera, la intervisto nel terzo ruolo-cardine di questo Dizionario, aperto da un pregnante messaggio del Card. Francesco Montenegro, presidente della Fondazione Migrantes, sul ruolo della Chiesa Cattolica nell’assistenza ai migranti, e che il Presidente Giorgio Napolitano, nel suo Saluto di apertura a tutti gli italiani nel mondo, ha definito “una vera e propria summa di un fenomeno che ha segnato indelebilmente la storia del nostro Paese”. Lei, oltre ad essere autrice e co-curatrice del Dizionario Enciclopedico, ne è stata il coordinatore scientifico. Una grande responsabilità, se si pensa che il Comitato scientifico dell’opera è composto da oltre 50 tra i massimi studiosi ed esperti di Emigrazione italiana, in Italia e all’estero, e che l’opera ha visto il coinvolgimento di ben 168 autori. Come ha affrontato, sul piano metodologico e contenutistico, quest’impegno? Quali sono state le priorità che si è data nello sviluppo e nell’impostazione di un’opera così articolata e complessa?

    “In realtà il Dizionario ha, come dire, bussato alla mia porta, professionalmente parlando, in un momento di maturità. Dopo anni di lavoro sull’emigrazione italiana dapprima per propensione e passione personale, poi con la Fondazione Migrantes e il Rapporto Italiani nel Mondo ho ormai chiaro nel mio percorso umano e di lavoro come il tema della mobilità, e in particolar modo riferito all’Italia e agli italiani, sia un universo in costante movimento, mai identico a se stesso e che chiede di essere studiato e approfondito in rete, lavorando cioè con altri, nella multidisciplinarietà e nella multilocalità. Intendo dire che occorre inevitabilmente rispettare il punto di vista di chi in Italia vive e guarda alla mobilità degli italiani e di chi non è in Italia e si occupa della stessa materia risiedendo fuori dei confini nazionali. Così come è inevitabile che gli approcci siano pluritematici perché è la stessa mobilità ad avere una ricchezza espressiva disarmante comprendendo la storia, l’economia, la politica, l’antropologia, la sociologia, la geografia, la poesia, la letteratura, il diritto e tutti gli argomenti che poi ha cercato di compendiare il Dizionario. Il metodo e i contenuti usati per il Dizionario derivano da quanto detto fino ad ora e tra le priorità c’è stata sicuramente quella di coinvolgere quanti più studiosi possibili incontrati soprattutto durante gli anni di Rapporto Italiani nel Mondo, ma anche in altri contesti diversi così da mettere in campo un coro a più voci.”

    Quali sono state, nel corso di un lavoro che ha richiesto molti anni di impegno, le difficoltà che ha incontrato nel coordinare, sul piano scientifico, tante ‘visioni’, approcci e prospettive disciplinari?

    “Quando si deve fare sintesi la cosa più difficile è il rispetto di ciascuna parte nella sua visione, nel suo modo di esprimersi, nei termini scelti per descrivere i concetti. Ciascun studioso, e questo vale ovviamente per ogni ambito, matura un proprio linguaggio e quando la regola comune reclama semplicità e massima accessibilità, tutto si complica. Il Dizionario è un’opera complessa realizzata in modo semplice per renderne facile la consultazione. Esso si rivolge, infatti, non solo ai tecnici, alle persone “di mestiere”, ma a un pubblico vasto per età e formazione. Abbiamo cercato di pensare anche agli studenti di ogni ordine e grado; a chi non parla italiano, ma si interessa dell’Italia e degli italiani; ai protagonisti che l’emigrazione italiana l’hanno scritta e che oggi possono ritrovare la loro storia personale e familiare nello snodarsi dell’alfabeto italiano.”

    Dalla sua prospettiva anche di co-curatrice, come si è interfacciata con questo lavoro?

    “Nella curatela paradossalmente si è vissuta per prima la multidisciplinarietà e la multilocalità di appartenenza, che poi è stata curata e rintracciata in tutta la splendida rete di 168 autori diversi. Intendo dire che ognuno dei cinque curatori ha una sua specificità professionale che ha messo al servizio dell’opera, amalgamandosi a quella degli altri. Ognuno dei curatori, quindi, ha dato il proprio imprinting professionale per una resa che fosse il più possibile vicina alla perfezione. È vero, ogni cosa è migliorabile, ma in quel momento abbiamo ritenuto che le scelte prese fossero le migliori che potevamo prendere in ragione di un unico fine: quello di rendere l’opera fruibile il più presto possibile considerando l’entusiasmo dell’attesa che si era creato intorno all’opera per i diversi anni di elaborazione e realizzazione che ha giustamente richiesto.

    Lei è anche tra gli autori di questo “Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo”: quali sono stati i lemmi, le voci a sua cura e quali focus di riflessione-approfondimento ha voluto porre, tematizzare?

    “L’opera è arrivata alla Migrantes e quindi nelle mie mani di coordinatrice scientifica con diversi lavori già realizzati e che dovevano solo trovare la giusta collocazione e la corretta espressione per rendere l’uniformità dell’opera. È stato interessante sistematizzare gli argomenti più diversi e lontani da ciò che mi è più vicino ed è stato stimolante riflettere e realizzare argomenti nuovi come i lemmi relativi ai principali Paesi di residenza degli italiani. Argomenti sterminati che bisognava riassumere senza semplicemente “togliere”, ma cercando di valorizzare una sintesi ardua e faticosa che considerasse e raccontasse il passato arrivando sino alloggi, a chi sono gli italiani nel mondo dove per mondo si intende davvero ogni lembo di terra. Paesi “scontati” come Argentina, Stati Uniti, Germania, Canada, Svizzera, Australia, Spagna, Brasile ma anche Cina, Romania, Sudafrica, Egitto, India, Finlandia, Irlanda, Perù, Portogallo, Marocco e tanti altri. Un vero e proprio “viaggio in giro per il mondo” dove gli italiani non sono stati e non sono solo presenza, ma promotori di cultura e professionalità, tenaci lavoratori, uomini, donne e intere famiglie dedite al sacrificio, dai valori indiscutibili e dalla devozione profonda.

    È stato bello non occuparsi di materie “scontate” come può essere, nel mio caso, la riflessione sui numeri, presenze e flussi nel tempo e nello spazio, ma cercare di dare un volto agli uomini e alle donne attraverso un Dizionarietto biografico degli italiani emigrati e degli oriundi celebri, circa 300 mini-biografie di personaggi, italiani viventi e non, vissuti o nati all’estero, e oriundi, discendenti di famiglie italiane emigrati, indipendentemente dal fatto che possiedano o abbiano posseduto la cittadinanza italiana. Si tratta di uomini e donne distintisi in campo politico, sociale, religioso, artistico, scientifico, sportivo, ecc. che hanno contribuito, nella stragrande maggioranza dei casi, alla crescita del Paese d’adozione (con qualche eccezione di celebrità raggiunta attraverso attività criminali) e che hanno reso o rendono tuttora onore all’Italia. Un mondo di sterminata genialità che fa riflettere: effettivamente, la mobilità umana è un “fatto sociale totale”, un fenomeno cioè che coinvolge più persone ognuna nella sua complessità individuale e di relazione con gli altri.”

    Lei è direttore e curatore del Rapporto Italiani nel Mondo, annuale pietra miliare della Fondazione Migrantes quale indispensabile finestra di osservazione e approfondimento sul mondo delle migrazioni di ieri e di oggi. Ne parliamo? Nel corso del suo lavoro di Coordinatore scientifico, ha riscontrato eventuali intersezioni amplianti, sinergie conoscitive, tra il Rapporto Italiani nel Mondo e questo Dizionario, una sorta di possibile effetto moltiplicatore nel dibattito in corso sull’Emigrazione italiana nel mondo, che alcuni definiscono ‘storia del passato’, altri materia vivissima?

    “Sicuramente ho preso maggiore coscienza che nonostante il Rapporto Italiani nel Mondo sia, in questo 2015, al suo decimo anno di età, è più ciò che resta da fare di quanto sia stato fatto. Da anni mi spendo affinché il tema della mobilità italiana sia maggiormente presente nel dibattito pubblico e con nuove caratteristiche ovvero che si guardi al passato come imprescindibile passepartout per arrivare a meglio capire e interpretare la mobilità di oggi. Ogni strumento culturale che possa ampliare il dibattito è quindi importante. Il Dizionario è, qualcosa in più. Non esiste un’opera paragonabile e se ne aveva bisogno sicuramente anche come punto di riflessione comune degli studiosi di questo argomento dal quale ripartire alla luce del nuovo momento di mobilità italiana che stiamo vivendo. La mobilità non si può fermare; è innata nell’uomo e si trasforma con esso. Anche la riflessione va plasmata a seconda delle trasformazioni rilevate: nuovi strumenti, nuovi approcci. Occhi nuovi per il mondo diverso in cui siamo.”

    In un tempo che vive le contraddizioni e i contraccolpi della globalizzazione e della complessità, un tempo che necessita di sguardi più maturi, ampi e inclusivi verso l’Altro, può secondo lei essere utile - e per chi - questo Dizionario come strumento, come occasione di conoscenza, di sensibilizzazione sui fenomeni migratori e il loro portato umano, sociale, storico? Il nostro passato cosa può insegnare?

    “A me piacciono due cose in particolare di questo Dizionario: la sua modernità nonostante la sua pubblicazione lo abbia “fissato” in un determinato momento storico escludendolo, di fatto, da tutto ciò che dal mese della sua pubblicazione è avvenuto e la sua attenzione all’Altro. Dalla lettura attenta di ogni lemma emerge che l’obiettivo perseguito da ogni autore è sempre l’oggi anche quando parla di eventi dell’Ottocento. Guardare le foto delle navi delle Compagnie di navigazione, ad esempio, rimanda ai gommoni di oggi, alle “navi” con cui arrivano in migliaia alle coste italiane dai porti del Nordafrica. Ricostruire la parola ‘straniero’ attraverso le voci dei sociologi lungo l’arco del tempo ci riporta all’uso improprio che ne facciamo oggi nel nostro parlare quotidiano, ma anche nello scrivere. Basta leggere i tanti dibattiti del giornalismo di oggi e l’uso di “etichette” improprie quando si “raccontano” le migrazioni di oggi.

    L’attenzione per l’Altro è un punto fondamentale e imprescindibile che richiede una particolare sensibilità. Alcuni studiosi di mobilità l’hanno innata magari perché loro stessi soggetti di mobilità, altri la imparano dal contatto con i migranti. Altri ancora, permettetemi, purtroppo non riescono a sintonizzarsi su questo “canale” che invece è, per la Fondazione Migrantes e i suoi collaboratori, insostituibile. Non ci si può accostare allo studio della mobilità umana senza sensibilità ai protagonisti, al fatto cioè che i percorsi migratori sono compiuti da uomini e donne di ogni età e provenienza, i quali proprio per la loro unicità determinano viaggi straordinari e danno vita a storie particolari. Non possono essere dimenticati i tanti italiani, emigrati o nati all’estero, e i discendenti che, con le loro vite semplici e comuni, contribuiscono o hanno contribuito in maniera determinante alla straordinarietà dell’emigrazione italiana.”

    Quali sono i passaggi del messaggio del Card. Francesco Montenegro - Arcivescovo di Agrigento - in apertura del Dizionario, circa il fondamentale impegno della Chiesa Cattolica nell’assistenza ai migranti del passato e del presente, che l’hanno colpita di più?

    “Nel suo messaggio breve ma intenso io ho immediatamente letto una sorta di mandato lavorativo per il domani; la meta a cui guardare e lo sprone a fare sempre di più e meglio. La ricerca non è mai arrivo, ma è continua ripartenza, per scrivere una pagina in più di conoscenza acquisita. “La società cambia, ma il destino migrante dell’uomo resta” scrive Montenegro. Al di là del credo di ciascuno di noi, al di là del luogo in cui ognuno di noi vive e opera, il destino migrante accomuna tutti.”

    In conclusione cosa si augura possa nascere da questa esperienza editoriale-culturale, a tutti i livelli? E a lei, cosa lascia come persona e come studiosa?

    “Io spero nel contributo attraverso ogni lavoro nel quale mi impegno e in questo Dizionario in particolare vista la sua unicità e l’interesse che ha suscitato, nella nascita di una nuova mentalità sulla mobilità, in una sensibilità diversa per il migrante al di là del luogo da cui proviene e della meta che si è prefissato di raggiungere. Una sensibilità che porta al semplice rispetto del motivo che lo ha portato a mettersi in viaggio ed è quella ricerca dello stare bene, la semplice e, allo stesso tempo, difficile ricerca della felicità a cui fa riferimento la Costituzione americana quale diritto di ogni individuo. La Dichiarazione d’Indipendenza americana riconosce a tutti gli uomini il diritto ad essere felici, una vita piena in termini collettivi però, e non come soddisfazione solo individuale. Questo pensarsi come insieme, come comunità e non come isole è quanto auspico.

    Da studiosa poi guardo alle nuove generazioni e mi auguro che questo Dizionario sia per loro esempio di un modo diverso di lavorare e studiare: lavorare insieme perché l’uno completa l’altro nella multidisciplinarietà e nella multilocalità di cui abbiamo a lungo parlato. Che la bibliografia di questo Dizionario - una delle cose probabilmente più difficili che mi sia mai trovata a curare - sia esempio concreto di quanto dico. L’aver dovuto mettere insieme il contributo di tutti in modo che fosse palese l’impegno di ognuno dei 168 autori, la loro unicità e particolarità, le scelte fatte rispetto a quanto chiesto loro dai coordinatori dell’opera. La bibliografia è segno concreto del lavoro di tutti al di là delle direzioni, al di là delle sigle nella certezza che l’incontro con l’Altro, nel lavoro come nella vita, è sempre arricchimento e mai perdita.”


  • L'altra Italia

    La Grande Emigrazione italiana tra Ottocento e Novecento



    Ascoltiamo il Prof. Enzo Caffarelli, direttore editoriale del Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo. Dell’opera è stato anche co-curatore e autore.
     
    Professore, che cosa le resta di più come studioso e come persona dalla realizzazione di quest’opera?
    La parola chiave è: scoperta. La continua scoperta di un mondo che non conoscevo e che riserva sorprese d’ogni genere. Parlo di scoperte – o di approfondimenti – di temi alti, la sofferenza, la povertà, il riscatto, le tragedie naturali o procurate dall’egoismo e dalla discriminazione. Ha ragione Gian Antonio Stella e chi come lui ripetono che tutto ciò che capita agli immigrati stranieri in Italia è già accaduto agli italiani all’estero. Proprio tutto. Soprusi, angherie, abitazioni indegne d’un uomo, abbandoni, bambini venduti, mestieri umilissimi, ma anche tanto lavoro, impegno, buona volontà, coraggio. E parlo anche di fatti curiosi, aneddoti, singolarità che sono emerse via via dalle ricerche dei curatori e degli autori.
     
    Per esempio?
    Beh, forse non tutti sanno che il mondo è pieno di città e paesi che ripetono quello di centri italiani. C’è una voce del dizionario che riguarda appunto la “replicazione dei toponimi”. Non tutti sanno che una volta eravamo noi a emigrare in Romania. O che le squadre di calcio più famose del Sudamerica sono state fondate da italiani o avevano nomi italiani. Che la famosa seminatrice che figura sui francobolli e sulle monete francesi (la semeuse) era una ragazza di Gallinaro, in Ciociaria, e che i modelli ciociari hanno posato per Manet, Degas, Renoir, Van Gogh, Picasso, Matisse, Cezanne... Per esempio ho scoperto che la seconda città dell’Alaska, Fairbanks, è stata fondata da un modenese di Fanano, Felice Pedroni. Ho potuto documentarmi e documentare i lettori sulle isole dialettofone italiane sparse nel mondo: i trevisani di Segusino a Chipilo in Messico, i modenesi di Pavullo a Capitan Pastene in Cile, i liguri di Riva Trigoso a Santa Cruz in California... Con 700 voci e 160 box, oltre alle 600 pagine di appendici, davvero è stata una scoperta continua ed entusiasmante.
     
    Anche con le pagine più tristi e drammatiche per i nostri emigrati...
    Certo. In Italia sappiamo a stento di Marcinelle e Monongah, le due sciagure minerarie che sono costate più vite umane. Ma nel Dizionario abbiamo documentato anche le due tragedie minerarie di Dawson, dimenticate perfino negli Stati Uniti. Le stragi e gli eccidi di Aigues-Mortes in Provenza, di New Orleans, di Eureka in Nevada, di Lawrence in Massachusetts, di Tallulah in Louisiana, di Tandil a Buenos Aires, di Ybor City in Florida, oltre ai tanti naufragi in cui perirono migliaia e migliaia di italiani. Abbiamo ricostruito le storie, cercando dati precisi: una carneficina. A stento sappiamo della condanna a morte degli innocenti Sacco e Vanzetti. E mi pare davvero ingiusto che l’Italia, in particolare negli Stati Uniti, sia così spesso associata prima di tutto alla criminalità mafiosa.
     
    Perché ha voluto un così ricco apparato statistico nel Dizionario?
    Banalmente, potrei rispondere perché amo i numeri e so che i numeri, le graduatorie, le percentuali piacciono agli italiani. In realtà ritengo che solo le cifre aiutino a capire la portata dei fenomeni. Certe conoscenze sono appannaggio esclusivo degli studiosi, di poche istituzioni e dei membri delle associazioni di/con emigrati. Di pochissimi, cioè. Alzi la mano chi è consapevole del fatto che gli italiani e oriundi (ossia discendenti di italiani) all’estero sono stimabili in quasi 80 milioni, la metà dei quali in Brasile e in Argentina. Alzi la mano chi sa che, dopo quella di Roma, le province con più emigrati oggi all’estero sono Cosenza e Agrigento. Lo sapevate che nella Grande Emigrazione di fine Ottocento le regioni che hanno visto partire più persone sono Piemonte, Veneto e Friuli Venezia Giulia? Che negli anni precedenti la prima guerra mondiale la 1ª regione per numero di emigrati è stata la Lombardia? Il Sud è venuto dopo... Che gli Stati Uniti sono stati il 1º Paese di destinazione in modo continuativo solo tra il 1898 e il 1916? Che oggi i più presenti in Argentina e in Brasile vengono alla provincia di Roma, in Germania e in Belgio da quella di Agrigento, in Svizzera dal Leccese, in Francia e in Australia dal Reggino, in Canada dal Cosentino, in Cile da Genova e dintorni, in Irlanda dal Frusinate?
     
    A proposito, i ciociari in Irlanda sono diventati i grandi gestori della ristorazione a base di “fish & chips”...
    Ecco un altro aspetto interessantissimo degli emigrati all’estero. Si sono specializzati in nuovi mestieri – penso per esempio anche alla gente di Pantianicco vicino Udine, che monopolizzarono come infermieri e portantini i principali ospedali di Buenos Aires – oppure hanno esportato ciò che sapevano fare nel loro paese e in giro per l’Italia: i figurinai lucchesi, i librai massesi, i vetrai savonesi, gli scalpellini friulani, gli arrotini trentini, i costruttori di reti fognarie molisani, gli orsanti e gli scimmiari parmensi, i pescatori di aragoste baresi e messinesi... la lista è davvero lunga e straordinariamente interessante.
     
    Come esperto di onomastica, quali argomenti di maggior interesse ha trovato nel mondo dell’emigrazione e ha riproposto nel Dizionario?
    Tanto, davvero. Cito solo tre casi. Primo, il cambiamento di nomi, cognomi, toponimi di provenienza degli italiani all’estero. Qualche volta per sciatteria, per fraintendimento o anche per scelta consapevole e voluta dei nostri emigrati, al fine di meglio integrarsi. Secondo, le strade dedicate agli italiani nel mondo e le vie e le piazze che i comuni italiani stanno intitolando sempre più numerosi ai loro emigrati. Terzo: i nomi commerciali italiani che stanno acquistendo crescente prestigio internazionale: abbiamo focalizzato l’attenzione sui nomi di alcuni alimenti, sui nomi italiani delle automobili e sulle insegne di luoghi di ristorazione, ma gli àmbiti sono numerosissimi.
     
    Nella prefazione al DEMIM si legge che l’opera dovrebbe interessare tanto gli italiani in Italia quanto gli italiani all’estero. Perché?
    Gli italiani d’Italia perché auguro a tanti di fare le scoperte che ho fatto io e di conoscere più da vicino un’altra Italia che è più grande, parla più lingue, si esprime in modi più numerosi rispetto alla nostra penisola. I curricula scolastici non possono ignorare questo fenomeno. La ripresa economica in Italia in decenni particolarmente duri sia del XIX sia del XX secolo ebbe tra le sue cause le rimesse che inviavano gli emigrati. L’alfabetizzazione degli italiani si deve in gran parte in modo diretto e indiretto all’emigrazione: sembra strano e non sono io a dirlo, lo ha documentato mezzo secolo fa il grande linguista Tullio De Mauro. Dobbiamo andare oltre la valigia di cartone, i saluti dali ponti delle navi, le canzoni lacrimevoli, il broccolino (l’accento italo-americano) e gli zii d’America che tornavano per esibire le ricchezze acquisite oltre Oceano.
     
    E a parte le scuole?
    Le istituzioni, specie le Regioni, da qualche decennio stanno facendo cose importanti per gli italiani all’estero. Ma non bastano pagine di buona cultura, di lodevole assistenza, e di promozione di articoli made in Italy. Ci sono due mondi che sono ancora intimamente legati, ma che non si incontrano veramente. Se non nelle sagre di paese e nelle festività patronali per quelli che hanno i mezzi per tornare in Italia. L’Italia possiede una forza enorme fuori dei propri confini e non ne fa uso. E non lo dico da nazionalista (quale non sono, tifo sportivo a parte), ma da semplice osservatore che vede tante occasioni sfumare una dopo l’altra.
     
    E agli italiani e oriundi residenti all’estero che cosa può dire e può dare un’opera come il DEMIM?
    Una documentazione ampia sul fatto che sono in tanti, che hanno fatto e stanno facendo cose straordinarie e che dovrebbero alzare di più la voce per non sentirsi mai soli. Una conferma che l’Italia ha bisogno di loro, che ne conosce la storia degli antenati anche nei più piccoli meandri dei loro paeselli d’origine, anche se fa fatica a renderla patrimonio di tutti. E poi credo che gli italiani d’Australia potrebbero essere interessati a conoscere cosa è accaduto a chi emigrato in Germania, o quelli in Brasile a sapere la storia dei nostri connazionali che oggi vivono in Africa o in Asia, e viceversa...
     
    Col senno di poi, oggi imposterebbe diversamente il Dizionario?
    Detto che è stato per me un grande onore, e non solo un onere, lavorare come direttore editoriale e co-curatore del Dizionario, aggiungerei che pur con tutti i suoi limiti e difetti, è un’opera equilibrata, scientifica e divulgativa allo stesso tempo, piena di informazioni. Grazie pertanto ai co-curatori, grazie a tutti gli autori e un grazie informale ma sincero a coloro che la storia dell’emigrazione l’hanno scritta sulla loro pelle. Noi, in fondo, siamo stati solo (quasi) duecento narratori, che si sono appropriati di 80 milioni di esistenze e le hanno concentrate in 5 milioni e mezzo di caratteri dalle tastiere dei nostri computer.