Articles by: Letizia Airos

  • Opinioni

    Pino Daniele. L'anima napoletana a New York

    “Pino & Friends”. Rincorreva le note con le parole. La sua voce sempre incredibilmente intensa. Anche se, a tratti, lievemente stanca. Ma non lo erano le sue mani sulla chitarra, non lo era la sua musica. La sua passione.
     

    Intorno a lui amici americani, tra cui il grande chitarrista Richie Havens, e artisti che avevo visto in Italia tanti anni fa. Tra questi Tullio De Piscopo, Rino Zurzolo. 

    Tutto questo è successo a New York, tra stupore di tutti. Era il 2013. Questa è stata l’ultima volta che l’ho sentito cantare e suonare dal vivo in un locale di Midtown.
     

    Pino Daniele il musicista che mi aveva fatto amare ancora di più Napoli, che aveva accompagnato la mia adolescenza, che mi aveva fatto sentire anche un pò americana con il suo blues prima di venire a New York, lo avevo ritrovato e conosciuto qualche anno prima, nel 2009, quando venne a suonare all’Apollo theatre di Harlem.

    Fu un successo indimenticabile. Una presa sul pubblico straordinaria. Non c’era un concerto, c’era la musica. Tanto era il ritmo nel teatro che, nonostante un severo servizio d’ordine, la gente uscì dai posti assegnati per ballare, fino a sotto il palco.

    E lo facevano tutti, pubbico e addetti al lavoro. Ricordo di essermi ritrovata a ritmare la sua musica insieme ad una donna nera che, solo pochi minuti prima, era stata molto scostante con il cameramen che mi accompagnava. Mi sorrise e si lasciò trasportare, “A me me piace ‘o blues”.

    E conobbi Pino proprio in quei giorni, lo intervistai, per poi rincontrarlo insieme ai suo figli e conoscerlo meglio nelle altre due trasferte nel 2012 e nel 2013   in cui segui più da vicino la sua tournee newyorkese.

    La seconda volta il concerto fu sempre nel tempio di Harlem, teatro strapieno e ancora un grande successo. Due giorni prima avevo organizzato, insieme a Stefano Albertini, il direttore della Casa Italiana delle NYU, una conversazione su Napoli di Pino con l’attore John Turturro. Non dimenticherò mai l’incontro di queste due icone qui a New York.

    Ricordo che il suo producer americano, Massimo Gallotta, mi chiese cosa si poteva fare di diverso con Pino Daniele. Mi venne in mente la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University, il luogo più accogliente che narra la cultura italiana a New York, e poi il regista/attore John Turturro.

    Era da poco uscito il suo film “Passione”, viaggio nella Canzone Napoletana. Napule è è il brano di chiusura del film. Viene eseguito nella sua versione originale, anche se l'autore napoletano non appare,

    Pino accettò con entusiamsmo l’idea e anche John Turturro disse sì. 
     

    Incredibile, non si erano mai incontrati! Fu emozionante vedere con miei occhi le sfumature di quell filo rosso che può accomunare solo due grandi artisti. E poi certo, c’era Napoli, quella ‘passione’ che aveva tanto attratto Turturro, quella che metteva nella sua musica Daniele.

    La terza volta che Pino venne a New York fu molto diversa. Il concerto non fu più all’Apollo, che con la sua amosfera, in un certo senso sacra, tiene distanti gli artisti dal pubblico, ma in un luogo che quasi quasi lo faceva toccare. O almeno sembrava di poterlo toccare. Con lui suonavano amici di New York, ma anche vecchi compagni della sua vita-viaggio-musicale venuti da Napoli.

    Ricordo il figlio, che questa volta più delle altre, lo seguiva con lo sguardo e con grande dolcezza. Intuii una fragilità di Pino, ma il concerto fu trascinante e nessuno se ne accorse più di tanto. 

    Seguirlo dietro le quinte, camminare insieme a lui e poi con i suoi musicisti, vedere le prove, mangiare insieme… ricordo quei momenti, venati anche da un po’ di invidia da parte mia.
     

    La magia che si crea tra amici, infatti, si amplifica in maniera incommensurabile quando c’è musica e, se a suonare questa musica c’è un artista della portata di Pino Daniele, tutto diventa magico. Tutto sembra facile, scorrere. E’ un’improvvisazione irripetibile, che necessita però di una grande maestria, armonia.
     

    Ricordo la dolcezza nei miei confronti di Pino Daniele, quella che rivelò soprattutto l’ultima volta che venne a New York, quando un pò già mi conosceva. Quel suo cercarmi per sapere di più della città e della sua gente, e le sue domande implicavano sempre una risposta al femminile. Non ero più solo una giornalista, ma un’amica americana che lo aiutava a cercare anche Napoli a New York.
     

    Perchè la sua forza veniva da Napoli. E’ banale dirlo, ma va ribadito. Me lo disse chiaramente nell’ultima intervista: “Essere napoletano all’inizio era difficile… ma ora Napoli mi tiene in vita da un punto di vista creativo. Se sei un portatore sano, la napoletanità è un modo di essere. Questa città ha un patrimonio bello, nobile, ed io attingo da Eduardo, dalla musica napoletana del primo novencento…”.
     

    L’aria di New York la indossava come un vestito di seta che scende felice sulla pelle, era a suo agio, camminava per le sue strade cercandone le sonorità, ascoltando le voci ed i suoi rumori. Si fermava nella pizzeria Ribalta, per cercare una pizza di cui non si può fare a meno. Anche a New York.
     

    Aveva tanti amici americani e capitava di incontrare sguardi di volti noti della musica, quasi in incognito, ai suoi concerti.

    Ma l’atmosfera della Grande Mela diventava tutt’uno con quella di Napoli non appena imbracciava una chitarra, per abozzare la prima nota del suo blues.

    Ed ecco arrivare Napoli anche qui. Ci ha fatto entrare nel suo ventre, nei suoi vicoli, sul suo lungomare. Con i suoi odori, rumori, le sue urla, anche la sua munnezza, la sua superstizione, la sua storia. Una bellezza che portava dentro e che solo la sua musica ha saputo raccontare. Una bellezza che incanta, che ci sia il golfo a fare da sottofondo o i il profilo conosciuto di New York. Una bellezza aperta all’incontro di altro ed altri, di altre culture, di altra musica.
     

    Pino è forse il napoletano più schivo all’apparenza che abbia mai incontrato. Ma a cosa serviva parlare? Lasciava fare tutto alla sua musica. E che parole!
     

    “Non sono un intrattenitore. Sono uno che suona”, mi ha anche detto. In questo forse un insegnamento per molti che, soprattutto oggi, intrattengono invece di suonare.
     

    Pino, il nostro abbraccio quando è andato via, per salire sul pulman del suo tour, è ripreso con la telecamera a termine della mia intervista. Non era una finzione, era spontaneo e ringrazio il mio staff video di averlo colto. Un ricordo indelebile. 
     

    Ci siamo salutati immaginando un ritorno a New York. Non è stato così, ma questa città lo ama insieme a me. E per sempre.

  • Pino Daniele in New York. The ambassador of the Neapolitan soul




    Pino & Friends”. He chased the notes with his words. Hi

    ​s​

    voice was always incredibly intense

    ​ ​
    ​even though,

    ​occasionally, slightly tired. But not his hands on the guitar, not his music, which was his passion.


    I saw him surrounded by American ​
    ​friends, including the​
    ​ great guitarist Richie Havens, and artists that I had seen in Italy many years ago, like Tullio de Piscopo and Rino Zurzolo.​
    ​ All this happened in New York, to the amazement of all.​
    ​ This was the last time I heard him playing and singing live, in Midtown.​


    Pino Daniele, the musician that made me love Naples even more, that accompanied my adolescence​

    ​, whose blues made me feel a little American far before I moved to New York​
    ​. I had met him a few years earlier, in 2009, when he came to play at the Apollo Theatre in Harlem.​


    It was an unforgettable success​. His appeal to the public was extraordinary. There was no concert, only his music. The rhythm filled the theatre so much that, oblivious to security, the public abandoned their seats and danced all around and under the stage.


    And they all did it, the audience as well as those who were there to work. I remember finding myself keep the beat together with an Afro American woman who only moments earlier had been blunt with the cameraman that was with me. She smiled and let the music carry her away." I like the blues".

    It was in those days that I got to know Pino.


    I interviewed him​
    ​, and then met him again with his family in 2012 and 2013, when I followed his New York tour more closely.​


    The second time the concert was held ​

     in the Harlem temple, the theater overflowing with people and again it was a great success. Two days earlier I had organized, together with Stefano Albertini, the Director of 'Casa Italiana​
    ​ ' of NYU, a conversation about Naples with Pino and the actor John Turturro. I'll never forget when these two icons met here in New York.​


    His American producer Massimo Gallotta had asked me if we could do something different with Pino Daniele. I thought of Casa Italiana Zerilli-Marimo' of the NYU, the most welcoming place narrating the Italian Culture in NY, and then of the actor/director John Turturro.


    His movie "Passion", a journey in the Neapolitan Music, had just been released​

    ​. The original version of "Napule è" is the closing piece of the movie, even though the Neapolitan author does not appear.​
    ​ Pino accepted enthusiastically and so did Turturro.​


    They had never met before. It was electrifying to witness with my own eyes the subtleties of that red thread that connected the two great artists. And then, of course, there was Naples, that 'passion' that had so much attracted Turturro and that Daniele translated into music. ​


    The third time Pino came to New York was a different experience again. The concert wasn't held at the Apollo theater, a place where the sacred atmosphere almost puts a distance between the artists and the public. Or at least that's how one feels. Playing with him this time his New York friends but also the old companions of his musical life journey, directly from Naples. I remember his son, who this time more than before, followed him with eyes filled with tenderness. I sensed some sort of fragility in Pino, but the concert was enthralling and no one else noticed.



    Following him backstage, walking with him and his band, watching the rehearsal, eating together... I remember those moments, tinged with little envy. The magic that friendship can create is certainly exponentially amplified when there is music. And if the one making the music is an artist of the stature of Pino Daniele, then everything becomes magical and seems to flow easily. It's  a unique improvisation, but one that requires great mastery and harmony.


    I recall Pino's affability towards me, especially during his last New York trip when he already knew me a little. He asked for me to find out more about the city and its people, his questions always implying a feminine answer. I wasn't just a journalist anymore, but an american friend who helped him in his search for Naples in New York.​


    His strength came from Naples. It may sound prosaic but it's important to reiterate it. He clearly said it in his last interview: "Being from Naples was hard at the begnning, but now Naples keeps me alive from a creative point of view. If you are a healthy carrier (of Neapolitan spirit),​

    ​ then "napolitanita' " is a way of being. This city has a beautiful and noble heritage,  ​
    ​and I draw from Eduardo, from the Neapolitan music of the early 1900..."​




    He would wear the New York atmosphere like a silk garment that happily rests on the skin. He was comfortable, walking around the city listening to its sonorities, to its voices and noises. He would stop by Pizzeria Ribalta, craving for a pizza you cannot do without, even in New York.​


    He had many American friends and it wasn't uncommon to come across famous faces of the music world, almost in disguise, watching his concerts.

    The atmosphere of the Big Apple would become as one with Naples the moment he picked up his guitar and  played the first notes of his blues.​

    Then Naples was in New York. He allowed us into its belly, in its alleys, in its promenade. With its odors, noise, screams, and its 'munnezza' (the trash), its superstition and its history. An interior beauty that only his music was able to narrate. A beauty that captivates, whether the background is the gulf of Naples or New York's skyline. A beauty open to other people, cultures and music.​


    Pino is maybe the shyest Neapolitan I've ever met. But what do you need words for when the music says it all. And so eloquently!

    " I'm not an entertainer. I'm someone who plays music", he also told me.​
    ​ In these words maybe a message to many who today entertain rather than play music.


    Pino, our hug when you left, after our interview, before you got onto your tour bus, has been recorded on camera. It wasn't fake, it was spontaneous and I thank my video staff for having ​
    ​caught the moment.​
    ​ An indelible memory.


    We said goodbye envisaging a return to New York. It's not going to happen, but this city loves him, together with me. And will love him forever.​




  • Style: Articles

    A Citizen of Two Worlds - Interview with Massimiliano Gioni

    You have devoted your life to contemporary art. Why were you first fascinated by this particular period in art?

    The thing I always found most attractive in contemporary art was that it wasn’t taught at
    school, so I had to explore it on my own and it was a field of knowledge and feeling that I felt I belonged to. I had to discover it on my own; I was my own teacher, away from organizations and hierarchies that were too closed and predefined. 

    Contemporary art is not deceptive nor is it stupid. It’s the place where you can allow yourself the joy of being free and different and maybe, why not, an idiot, in the sense that you’re not working within the frame of rationality. If we could all think this way I believe more people, and more young people, would be attracted to contemporary art.
     

    From Milan to New York. How did it all start?

    I arrived in New York in 1999 and between then and 2003 I was travelling back and forth to Italy. For a few years I didn’t really know where my home was. New York and Milan are indeed two different cities. Milan, “Europe’s Caffeine” as the futurist writer Marinetti defined it, is still one of the most lively and dynamic cities in Italy, and definitely the capital of contemporary art in terms of the number of artists and galleries. Compared to Milan, New York is of course a much faster and competitive city.

    What I like is that, all considered, New York is also a small city. I know New York is not just Manhattan, but for someone like me, the part of New York relevant to my job is in Manhattan. There are countless contemporary art museums and galleries here, so it almost resembles one large town of exhibitions. In the span of a few hours, moving fast from downtown to the Metropolitan Museum, you can see so many.
     

    You used to say that ‘curator’ is an odd word, that it sounds as if you cure people. What is an art curator?

    Popular opinion believes that a curator’s job is mainly about flying all over the world. I’d like to point out that you have to spend as much time on books as you do on planes! Also, searching for and choosing artworks is of crucial importance, as well as the daily, almost physical contact with art and artists.

    These are fundamental aspects of the “science” of being an art curator. Besides, the curator is the person who builds the story and creates the atmosphere. The great curator Harald Szeemann used to say that being a curator is like writing in the space, and I think this sums up our job: we create a sheet of music in which the artwork can exist and make a physical and intellectual impact on the public visiting the exhibition.
     

    You have been with the New Museum for many years now. What does this museum mean to you?

    You know, this building didn’t exist when I joined the New Museum. We inaugurated it a year later. It’s quite a unique museum. It’s 40 years old, almost as old as I am. It did play an important role in my life—I used to visit it when I first came to New York in 1999. It may be the most informal and hyperactive museum in New York, as well as the smallest, which gives us liveliness andflexibility. We are the only museum totally dedicated to contemporary art.

    The New Museum and downtown are almost synonymous. Has it been difficult to operate in ‘ground zero’ all these years?

    The New Museum has always been downtown but this building was still only a dream when the attack on the Twin Towers happened on 9/11. At the time, many institutions and people thought of abandoning this part of the city. But we didn’t. Now, seven years after the opening of this building, it has become a place that, thanks in part to its shape, is both a nerve center and a catalyst of this area. It’s like an antenna; it receives the signals of this city and broadcasts them to international space in a global dialogue. Downtown has been reborn, and we’re glad to have played a part in its rinascita.

  • Arte e Cultura

    Carlo Pagnotta. Vivere il Jazz in Umbria

    L’Umbria e’ terra di affascinanti suggestioni che attraversano secoli, anzi i millenni fin dagli antichi etruschi, un popolo che viveva nell’Italia centrale ancor prima dei romani. Chi la visita entra in un atmosfera che sa di antico e misterioso che si perpetua miracolosamente anche nel lifestyle di oggi.

    Questo capita anche con “Umbria Jazz”, il più importante festival musicale jazzistico italiano, nato nel 1973. Con le sue edizioni—estiva a Perugia e invernale ad Orvieto—il festival raccoglie il meglio della musica jazz nelle più suggestive locations di questo angolo magico d’Italia. Luoghi unici a fare da contorno a esibizioni uniche.
     

    Per saperne di più abbiamo incontrato il fondatore e direttore artistico di “Umbria Jazz”, Carlo Pagnotta, che viene spesso negli Stati Uniti per organizzare questo festival unico al mondo.
     

    Quarant’anni fa era un giovane commerciante di abbigliamento a Perugia, appassionato di jazz e frequentatore dei maggiori festival europei—ma già sognava Umbria Jazz. Voleva fortemente un festival a casa sua ed è riuscito a realizzarlo grazie anche all’aiuto di due lungimiranti assessori della regione Umbria. “Ho sempre desiderato il meglio per la mia regione. Anche quando avevo un negozio di abbigliamento maschile questo era uno uno dei migliori nel centro d’Italia. Così proprio come mi ha insegnato mio padre. Aveva un ristorante ed era uno dei migliori negli anni 50, uno dei primi con le stelle Michelin”.

    Il meglio, dunque, anche per la musica, la musica Jazz che tanto amava. E grazie al suo sogno l’Umbria è diventata, ormai si può dire, la patria europea del Jazz.

    “Negli anni 70 in Italia esisteva un solo festival importante, quello di San Remo dedicatoalla canzone. C’erano divesi Jazz club, ma si non erano organizzati insieme. Quella che la regione Umbria allora accettò di intraprendere fu una vera scommessa.” Era il 23 agosto 1973 quando si tenne il primo concerto del Festival. Fu l’inzio di un’avventura che venne sospesa solo negli anni della grande contestazione, tra il 1978 e il 1982. Erano i cosidetti Anni di Piombo. Grandi artisti come Chet Baker e Stan Getz, furono fischiati, criticati perchè bianchi e borghesi. “Ma noi non volevamo fare un festival di contestatori , ma di appassionati” continua Pagnotta ricordando quel periodo.
     

    Comunque dall’82 il Festival riprese la sua corsa: “La regione Umbria ha continuato a crederci e ha investito registrando il logo. Ha fatto più di quanto ogni altra regione abbia mai fatto. I risultati si sono visti. Oggi l’Umbria è conosciuta non solo per San Francesco, ma anche per Umbria Jazz.”

    Qualche ricordo, qualche emozione dal suo fondatore.

    “All’inzio erano ancora viventi mostri sacri della musica Jazz. Calcarono le scene per esempio Art Blakey e Dizzy Gillespie. Momenti straordinari. Poi siamo passati a quella che fece nascere la cosidetta ‘contaminazione”  con l’idea di mettere Sting a disposizione dell’orchestra di Gill Evans. Fu un concerto unico. L’inzio di una svolta. E’ inutile negarlo, la musica Jazz non è di massa, ma di nicchia. La manifestazione con Sting portò 40.000 persone in piazza. E fece così conoscere ancora di più Umbria Jazz al mondo.”
     

    Nel 1985, per volontà della Regione, nacque la Fondazione Umbria jazz, che ha il compito di garantire le risorse finanziarie di parte pubblica. L'attuale presidente della Fondazione è Renzo Arbore, un uomo di spettacolo conosciutissimo anche negli USA e che contribuisce in maniera indiscutibile alla diffusione del festival nel mondo.
     

    Descrivere il clima in cui si svolge Umbria Jazz è quasi impossibile. Sono sensazioni, piene di grandi contrasti tra presente e passato in mezzo a tanta musica. “Ne hanno parlato tanti inviati giornalisti da tutto il mondo. La differenza tra un altro festival e Umbria Jazz è che ci troviamo in luoghi intrisi di storia. Questa magia non può succedere altrove e bisogna venirci per capire davvero cosa intendo” ci dice Pagnotta orgoglioso. E non a caso le strutture di accoglienza per il turismo sono cresciute in maniera direttamente proporzionale alla fama del festival.
     

    Ma come nasce, come si costruisce un’edizione di Umbria Jazz?
    “Prima di tutto, facciamo parte dell’International Jazz festival. Ci incontriamo con i promoter quattro volte l’anno. Ci vuole tanto lavoro ed esperienza, ma se non ci fossero i finanziamenti pubblici (sempre in diminuzione) e gli sponsor privati non si potrebbe fare.” Ma nonostante la crisi economica Umbria Jazz presegue: la regione Umbria ha investito 600.000 mila euro quest’anno per le edizioni di Perugia e Orvieto. “Nessun’altra regione ha fatto tanto. In Italia si investe ancora solo per l’Opera e la musica classica, non per il Jazz. Eppure gli italiani hanno avuto un ruolo importantissimo nella nascita della musica Jazz. Ma in Italia i politici penano che con la cultura non si mangia”.
     

    E tuttavia Umbria Jazz è riuscita a far sapere al mondo che esite anche un Jazz italiano… “Il festival di Newport ha festeggiato i 60 anni la scorsa estate. E per la prima volta era presente un italiano: StefanoBollani, portato priprio da Umbria jazz.
     

    Venti anni fa potevamo citare pochi nomi italiani in questo campo - magari Enrico Rava o Giovanni Tommaso. Oggi sono tantissimi i giovani jezzisti italiani di valore e sono molto richiesti. Possiamo dire che ormai il Jazz italiano è il secondo al mondo, dopo quello americano.”

    Ed il rapporto con gli Stati Uniti di Umbria Jazz è naturalmente molto intenso. Negli anni sono state tante la presenze di Umbria Jazz che ha portato jazzisti italiani nelle città americane. “Abbiamo cominciato nel 1983 nel Nord Carolina, fino a giungere a Boston e New York più di recente. All’inizio gli italiani suonavano il lunedi, nel day off e in locali secondari. Oggi invece suonano dal matedi alla domenica nei locali più importanti”.
     

    E un filo rosso unisce Umbria Jazz anche con le università americane. Con il Berkley College of Music di Boston per esempio. “Quest’anno festeggiamo 30 anni di collaborazione. Per due settimane ogni anno venogno a Perugia 250 studenti sia dagli USA che da tutto il resto del mondo.”
     

    Ultima inevatibile domanda. Ha un sogno nel cassetto Pagnotta?

    “Si parla ancora di quando il Jazz entrò al Carnegie Hall per la prima volta. Sarebbe bellissimo se potesse entrarci qualche jazzista italiano”.

  • Style: Articles

    The Best Italian Glamour @ the Museum of the Moving Image with LaFondazioneNY

    Moving soiree and prestigious setting for the third edition of the laFondazioneNY Gala that this year took place at the Astoria Museum of Moving Image, evocative and symbolic place for the Cinema.

    The Museum, on the campus of the historic Kaufman Astoria Studios, is a thriving film andmedia production facility, which was originally established in 1920 as Paramount’s east coast production facility. 

    Today it maintains the nation's largest and most comprehensive collection of artifacts relating to the art, history, and technology of the moving image.
     

    Located in the neighborhood of Queens Astoria/Long Island City, lively and dynamic, with more than one hundred ethnic groups representing the communities from around the world, the Museum is an extraordinary cultural meeting point.

    LaFondazioneNY could not have picked a better background to organize its biggest annual event, this time related to Cinema.

    Indeed a unique setting, with some Dolce and Gabbana dresses on display and a preview of some of the  Atelier Tirelli’s costumes. In the spring the renowned Italian Atelier, thanks to laFondazioneNy, will have its masterpieces shown in the same museum in an exhibition titled: "Costumes for Cinema from Tirelli Atelier". 
     

    Umberto Tirelli opened his costume atelier in Rome in 1964 becoming in a short time the point of reference of the Italian Cinema, the atelier of choice for directors like Visconti and Fellini.
     

    Every year LaFondazioneNY awards personalities who have offered their contribution, through their work and success, in different areas of Italian and American cultures.
     

    In this stunning background the event has seen three honorees as protagonists: the fashion designers Domenico Dolce and Stefano Gabbana, and the director Baz Luhrmann (director of movies like Shakespeare’s Romeo and Juliet, Moulin Rouge and The Great Gatsby) and winner of an Academy Award.
     

    “ We live with movies and they inspired one of our collections” said Stefano Gabbana. Founded in 1985, Dolce & Gabbana is today a leading international luxury label.

    “Italy is in our hearts; a nation that combines excellence of food, fashion and cinema”.

    Addressing Riccardo Viale, the laFondazioneNY co-founder and chairman, he defined laFondazioneNY’s mission important and commendable, and for this reason he asked if “we could become board members”.

    The director Baz Lhurmann highlighted the cultural influence of our nation: “Italy has given me so much and we owe a lot to Italian history and cinema”.
     

    During the ceremony were also awarded Joseph Perella, co-founder and president of Perella Weinberg Partner that received the Excellence in Finance Award, and Gary Wassner, CEO of Hilldun Corporation, who has received the Excellence in Business Award.
     

    Sadly this year the great absentee was the creator/founder and president, together with Riccardo Viale, of laFondazioneNY: the design icon Massimo Vignelli, passed away last spring.

    Poignant moments during the projection of i-Italy’s video-tribute: silence, emotion, great attention and a long applause accompanied the images broadcasted on the four big screens.

    The passing of President Massimo Vignelli has been a difficult moment for laFondazione NY. He was the heart and soul of the Foundation.

    Today the baton has been passed on to another icon, Dante Ferretti, a multiple award-winning artist of Italian cinema and cinematography who declared how important and essential it is to keep on encouraging the dialogue among the Italian and American cultures and arts.
     

    “The Atelier Tirelli’s exhibition- he added- with so many costumes previously never shown to the public, is a perfect example of the mastery of the Italian artisans in the world of Cinem, expressed through the design of the set costumes”.

    Over forty costumes from cult movies like Sofia Coppola’s ‘Marie Antoinette’, Luchino Visconti’s ‘The Leopard’ and ‘Death in Venice’, and Martin Scorsese’s ‘Age of Innocence’ will be on display.

    LaFondazioneNY helps, recognizes and supports the projects of Italian and American young talents in the areas of figurative arts, music, cinema, literature, design, architecture, dance and theatre.
     

    Riccardo Viale, the mastermind behind all this and Founder and Chairman of laFondazioneNY told us: “The idea of promoting an exhibition of the Sartoria Tirelli in New York was conceived many years ago. It’s realization in 2015 and in preview for this gala has been possible thanks to the generosity and cultural interest of Dolce & Gabbana. Specifically, I would like to thank Federica Marchionni, sensitive interpreter of Italian excellence of which the Tirelli costumes are one of the finest examples.”
     

    Vignelli wanted the foundation to promote the best of contemporary culture. “Massimo is always with us, in our hearts and in our minds,” Viale continues. “The activities and laFondazioneNy’s style follow his imprint. The short video made by i-Italy, which has worked in close contact with him on a number of projects, was a very intense moment for all present. Finally, I would also like to mention that a new award for young Italian and American designers has recently been established by us in his name.” 

  • Opinioni

    I Seminatori di Grano e la Bellezza Eataliana


     Musicisti del Teatro Regio a New York. Dove? Al Carnegie Hall. Certo, e che concerto! Ma anche un altro evento, legato all’orchestra di Torino, rimarrà nella storia delle serate newyorkesi: La Bellezza Eataliana.

     
    Ancora una volta infatti, Oscar Farinetti ha saputo pensare ed organizzare, con un risultato assulutamente impeccabile, un happeing diverso. Ma chi ne dubitava del resto?

     
    Ore 10 di sera. A porte chiuse, tra i banconi e le vetrine con in esposizione salumi, prosciutti, formaggi, panettoni, Nutella e altro… , in uno spazio nominato “Piazza”, si è esibiita l’orchesta del teatro regio di Torino. 

     
    Evento nel glamour più assoluto,  diversi vip, con il miglior cibo ed il miglior vino a disposizione dei fortunati ospiti. Tutto in un’atmosfera scintillante, quella della migliore Italia che si sa divertire, facendo cultura. E già La Bellezza Eataliana.

     
    L’evento, sponsorizzato anche da Eni, Lavazza, Barilla e Maserati aveva uno scopo benefico, oltre che di promozione della Bellezza Eataliana, infatti i suoi proventi sono stati destinati al Global Fund per la lotta contro Aids, malaria e tubercolosi fondato dal cantante Bono.

     
    Colpo d’occhio sicuro quello degli orchestrali. Puntare sulla sorpresa, e la presenza inusuale del Teatro Regio dentro il negozio è stata una mossa vincente. Orecchie ed occhi increduli che però si sono abituati subito e accomodati su un piacevole contrasto. Il Maestro Gianandrea Roseda  (appena nominato “Direttore dell’anno” da “Musical America”) ha diretto l’esecuzione di brani come la Gazza Ladra, Barbiere di Siviglia, Cenerentola, Guglielmo Tell, ma non solo.

     
    Infatti, sorpresa nella sorpresa, con la sua chitarra il cantautore Gianmaria Testa ha suonato e cantato, accompagnato dall’orchestra, alcune delle sue canzoni-poesia .

     
    L’ultimo brano, eseguito da lui, mi porta alla riflessione con cui chiudo il racconto di questo grande momento, che per me rimarrà indimenticabile non solo per la presenza del teatro Regio.


    Una canzone di Gianmaria Testa, eseguita in quel contesto, mi ha procurato infatti un’emozione intensa e la necessità di una riflessione. Si tratta di Seminatori di Grano. Poesia pura, anche se amara. Il cantare lento e riflessivo, intenso di Testa,  ha come postato lentamente nello spazio della food hall di Eataly sulla Quinta strada queste parole:
     
    Sono arrivati che faceva giorno

    uomini e donne all'altipiano

    col passo lento, silenzioso, accorto

    dei seminatori di grano.
    E hanno cercato quello che non c'era

    fra la discarica e la ferrovia

    E hanno cercato quello che non c'era

    dietro i binocoli della polizia

    e hanno piegato le mani e gli occhi al vento

    prima di andare via.
    Fino alla strada e con la notte intorno

    sono arrivati dall'altipiano

    uomini e donne con lo sguardo assorto

    dei seminatori di grano.
    E hanno lasciato quello che non c'era

    alla discarica e alla ferrovia

    E hanno lasciato quello che non c'era

    agli occhi liquidi della polizia

    e hanno disteso le mani contro il vento

    che li portava via.
     
    Brividi per chi le ha sapute ascoltare. Per chi, tra un bicchiere di vino e l’altro, è riuscito anche a  pensare e non solo farsi cullare dalla musica. Brividi per me che da più di venti anni vivo negli Stati Uniti cercando di conoscere, capire, incontrare questa ”Italia fuori di sè”  la cui storia è ancora troppo poco conosciuta. Tutto questo in un momento in cui l‘Italia celebra se stessa con eventi così.

     
    Brividi nel sentire parole che cantano di migrazioni moderne in una città che ha raccolto milioni di persone, appunto migranti. Che a volte le ha allontantanate, discriminate, ma che oggi vive e gode di loro.

     
    Brividi nel contrasto  tra queste parole e l’amosfera di grande ricchezza che le circondava. Bisogna ammetterlo un pò tutti, il benessere ci fa avere paura del diverso,  invece siamo solo fortunati. 

     
    Gianmaria Testa di solito prima di cantare Seminatori di Grano recita in musica una poesia stupenda di Erri De Luca che dice:
    Nei canali di Otranto e Sicilia

    migratori senz'ali, contadini di Africa e di oriente

    affogano nel cavo delle onde.

    Un viaggio su dieci si impiglia sul fondo,

    il pacco dei semi si sparge nel solco

    scavato dall'ancora e non dall'aratro.

    La terraferma Italia è terrachiusa.

    Li lasciamo annegare per negare.

    Cosi se nel tempio del cibo italiano a New York l’orchestra del Teatro Regio ha portato la migliore Italia della musica operistica, ha anche dato spazio – non senza possibili contraddizioni - alle parole di Gianmaria Testa. 

     
    Perchè c’è un racconto italiano diverso che va anche esportato, spesso inascoltato anche in Italia, e va fatto insieme alla Bellezza Eataliana. Anche a New York.

     
    Proprio in questa terra che ha visto milioni e milioni di italiani emigrare. Spesso hanno avuto successo, altre volte no. Proprio in questa terra che in questi giorni sta vivendo i drammatici fatti legati alla vicenda Ferguson e che vede gente per la strada a dimostrare, magari a pochi isolati dalla Quinta Strada.


    Proprio in questi tempi drammatici per l'Italia che non sa dare lavoro e se la prende con i nuovi arrivati.
     
     


     
     
     
     


  • Life & People

    Meet Carlo Pagnotta, Artistic Director Of The Umbria Jazz Festival 

    Umbria. A land of splendors that span centuries. Or millennia. Starting with the ancient Etruscans who inhabited central Italy long before the Romans. Visitors who come here breathe in a mysterious, age-old air that still permeates today’s way of life.

    The same air wafts around “Umbria Jazz”, the most important Italian jazz festival inaugurated  in 1973. The festival’s two programs— summer in Perugia and winter in Orvieto—gather the best artists jazz has to offer in the most magical corners of Italy. Magical surroundings accompany magical shows. 

    To learn more about the festival, we met with Umbria Jazz’s founder and artistic director, Carlo Pagnotta, during one of his frequent visits to the U.S. Forty years ago Pagnotta was a young successful clothing salesman in Perugia whose passion for jazz led him to frequent the major European festivals.
    Even back then he was dreaming of Umbria Jazz. He really wanted a festival in his hometown, and he realized his dream with the help of two forward-thinking council members from the Region of Umbria.

    “I always wanted the best for my region. This is what my father taught me. He owned one of the best restaurants in the 1950s, one of the first to receive Michelin stars.” Pagnotta wouldn’t settle for second best for music either. Or at least for jazz, the music he loved. Thanks to his vision, Umbria has now become the jazz capital of Europe. “In Italy in the ’70s, there was only one important festival, the San Remo festival of the song. There were several jazz clubs but they didn’t communicate with one another. So Umbria really stuck its neck out.”

    The festival held its first concert on August 23, 1973. It was the beginning of an adventure that would only be interrupted once, during the politically volatile years between 1978 and 1982. They were the so-called “Years of Lead” and major artists like Chet Baker and Stan Getz were jeered at for being white and middle class. “But we didn’t want a festival of protestors, we wanted a festival for aficionados,” recalls Pagnotta.

    In 1982 the Festival took off again and in 1985 the Region set up the Umbria Jazz Foundation to guarantee public financing for the festival. “The results [of that support] are in. Today Umbria is known for Saint Francis and for Umbria Jazz.” 

    Pairing Sting with Gil Evans

    The founder emotionally recalls, “When we first got going, the giants of jazz were still alive. Art Blakey and Dizzy Gillespie were still making the rounds. Extraordinary times. Then came what spawned the so-called ‘contamination’ era, when we paired Sting with the Gil Evans orchestra. It was a unique concert. The beginning of a major change. It’s useless to deny the fact that jazz music isn’t for the masses, it’s for niches. The Sting concert brought in 40,000 people and made Umbria Jazz more prominent on the world map.”
     

    It’s almost impossible to describe the atmosphere surrounding Umbria Jazz. The sensation is a clash of past and present amid the roar of music. “Scores of journalists from around the world have been sent here,” says Pagnotta with a flush of pride “and none of them failed to notice this. The difference between Umbria Jazz and other festivals is that ours is held in places imbued with history. That magic can’t be found elsewhere and you have to come to understand what I mean.” Not for nothing have countless hotels and restaurants sprung up in direct proportion to the festival’s fame. 

    Italian jazz

    But how does Umbria Jazz put together its program? “First of all, we work with the International Jazz Festival. We meet with promoters four times a year. It takes a lot of work and experience, including fund-raising. Public financing is always on the wane, politicians continue to think that culture doesn’t put food on the table. Besides, when Italy does invest in music it still only invests in opera and classical music, not jazz.”
     

    Fortunately, the Region of Umbria is different: they have invested 600,000 Euros this year for the Perugia and Orvieto programs. No other region has done that. This allowed Umbria Jazz to succeed and show the world that there’s such a thing as Italian jazz. “The Newport Festival celebrated its 60th anniversary last summer. And for the first time an Italian played the festival, Stefano Bollani, who came straight out of Umbria Jazz.”

    Italian jazz is second only to American jazz

    “Italians have played a really important role in the creation of jazz music. Nevertheless, still twenty years ago you could count the number of Italians in the field on one hand. Enrico Rava, maybe, or Giovanni Tommaso. Today there are tons of great young Italian jazz musicians who are in demand. You could say that Italian jazz is second only to American jazz.” 
     

    Naturally, the relationship between the US and Umbria Jazz is very intense. Over the years Umbria Jazz has brought many Italian musicians to American cities. “We began in 1983 in North Carolina, eventually making our way up to Boston and New York more recently. At first the Italians were playing smaller venues on Mondays, the ‘day off.’ Today they play Tuesdays through Sundays in the most important venues.”

    The Umbria Jazz Foundation also has ties to American universities, like the Berklee College of Music in Boston. “This year we’re celebrating our 30th year of collaborating together. For two weeks a year 250 American and international students come to Perugia.” 

    Lastly, we have to ask: Does Pagnotta have another dream tucked under his pillow? 

    “People have long talked about the first time jazz came to Carnegie Hall. It would be great to see an Italian jazz musician play there.” 

  • Opinioni

    Comunicare l’Italia all’estero. 'L’Italia fuori di sé' dica la sua


    Comincio dai numeri. Non amo farlo di solito, penso che spesso i numeri nascondano le vere storie. Ma in questo caso mi occorrono i dati. Proprio per parlare di quello che accade.
     
    • 17.250.000: Questo  è il numero delle persone che, nel censimento del 2010, si sono dichiarate italo-americane. Il sesto più grande gruppo etnico in America, pari a circa il 5,9% della popolazione totale del Paese:
    • 23.000.000: Questo è il numero dei cittadini americani con una qualche discendenza italiana, secondo diverse stime riportate riportate da importanti associazioni italo-americane.
    • 223.429: Questo è il numero degli italiani che, secondo la rilevazione del 2012, vivono negli USA e sono iscritti all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), un’iscrizione peraltro obbligatoria secondo la legge. Hanno la cittadinanza italiana o la doppia cittadinanza.
    Vi prego di tenerli in mente questi numeri, mentre vado avanti con quanto voglio dire.
     
     
    Per chi dobbiamo scrivere, e in che lingua?
     
    La scorsa settimana, durante un incontro pubblico  con una delegazione di parlamentari italiani - con la vice-presidente della Camera Marisa Sereni, il senatore Claudio Zin e l'onorevole Lia Quartapelle - una mia domanda ha sollecitato una piccola discussione. Lo spunto era la riforma dell’editoria, in particolare il sostegno alla stampa italiana all’estero, che è in fase di ridefinizione.

     
    Una buona notizia: dopo decenni di contributi concessi (e non stiamo qui a discutere i criteri) solo alle testate che escono in carta, sembra che all’orizzonte si profili finalmente un aggiornamento normativo che includerà anche l’informazione on line. “Apriti cielo!” direte voi. Siamo d’accordo. Non è mai troppo tardi.

     
    Ma il punto della discussione, da me provocata in quell’incontro, non era questo. Io avevo chiesto se sono previsti sostegni anche per la stampa italiana in lingua inglese (o in generale del paese di destinazione).  E mi è stato risposto da Claudio Zin che l’aiuto è rivolto solo agli italiani all’estero e che questi parlano italiano. A questo senatore a vorrei dire alcune cose, usandolo—se mi è permesso—come tramite per raggiungere altri. Incluso questo Governo che fa del cambiamento la propria bandiera. Ma per questo non bastano le visite alle startup della Silicon Valley e le solite parole su cervelli fuggiti.
     
    Italiani in Italia—politici, imprenditori, giornalisti—avete mai pensato di far realizzare un’identikit di chi, provenendo dal nostro paese, vive oltre oceano ormai anche da diverse generazioni? Vi siete mica accorti che qualcosa è cambiato da qualche decennio? Che ad esempio questi milioni e milioni di persone non parlano più italiano, eppure mantengono un legame affettivo fortissimo, un interesse culturale, una “predilezione di spesa” diciamo, per tutto ciò che è italiano? Parlo dagli Stati Uniti certo, per quello che so io dopo 20 anni che ci vivo, ma penso che questo valga per molti altri Paesi.
     
    Ecco, riguardiamoli ora quei numeri: Quelli che presumibilmnte parlano italiano sono gli iscritti all’AIRE, poco più di 200.000 (e poco più di 100,000 in Canada). Non pochi, ma certo un piccolissimo numero, 10 volte inferiore agli oltre 20 milioni di americani discendenti da italiani. Tra cui moltissimi giovani che, a diverse generazioni di distanza dal passaggio transoeceanico dei loro avi riscoprono il nostro Paese, ne apprezzano la cultura, ne consumano volentieri i prodotti e la moda, vi si recano come turisti, studenti o per lavoro. Molti di loro hanno uno status sociale elevato e la maggioranza ha livelli di istruzione e di reddito superiori alla media americana.

     
    Milioni di persone che possono conoscere l’Italia, oggi, solo in lingua inglese. Anche se tanti vorrebbero imparare l’italiano, ma è certo un obiettivo di medio-lungo periodo naturalmente. Ciò che oggi abbiamo di fronte è una vera e propria “Italia fuori di sé ”, ancora dimenticata e raggiunta soprattutto attraverso un banale paternalismo, che visto da questa parte dell’oceano risulta spesso stucchevole e ovviamente allontana.
     
     
    Serve una mediazione linguistica e culturale
     
    Va di moda dire che gli italiani che vivono all’estero (incusi, spero, i loro figli, nipoti e pronipoti) sono una grande risorsa, anche economica, un grande mercato “captive” per i nostri prodotti, la cultura, l’arte e il turismo. Sono anni che sento questi discorsi, talvolta venati da un accento di sapore “coloniale”…
     
    Ma come si raggiungono? Come ci si comunica? Come li si informa sull’Italia? Quand’è che accetteremo la realtà che questi milioni di persone non parlano l’italiano?
    Tutti i nostri giornali continuano a parlare italiano, a parte qualche timida traduzione. La RAI, e ora anche le reti Mediaset, continuano a trasmettere in italiano. Nonostante vadano riconosciuti a RAI Italia (nella recente gestione di Piero Corsini) alcuni lodevoli tentativi di ammodernamento, il palinsesto è palesemente sotto tono e mostra grandi difficoltà a comunicare alle nuove generazioni. E poi, ovviamente, è in italiano! Dunque ha un bacino d’utenza ristrettissimo.

     
    E allora, cosa succede? Che rimaniamo noi di i-Italy a raccontare l’Italia in inglese.

    Un inciso, visto la nostra quotidiana presenza in rete dal 2008 anche in lingua italiana (pubblichiamo anche in italiano),  magari attingeremo ai finanziamenti, ma è paradossale che non venga considerata la parte più onerosa del nostro lavoro costante in rete/carta/tv: quella in lingua inglese.

     
    Abbiamo raggiunto tappe di diffusione notevoli. Una di cui andiamo orgogliosi ultimamente è il superamento della soglia di 100.000 amici su Facebook. Ma viviamo  rincorrendo affannosamente potenziali sponsor, che spesso non capiscono, oscillando tra la RAI e il New York Times, dove dovrebbero investire per comunicare agli americani, che siano o meno di discendenza italiana.

     
    Devono scegliere il getto etnico-linguistico italiano? O il santuario della stampa americana? Domanda mal posta, naturalmente. Gli serve una mediazione, linguistica e culturale, altrimenti non arrivano da nessuna parte. Un esempio? Scrivere un articolo in inglese sulla mostra dei manoscritti di San Francesco all’ONU - per raccontare un episodio recente -   vuol dire essere letti da giornalisti del New York Times che poi ti contattano, ti chiedono informazioni, rilanciano il tema a loro volta.

     
    Noi italiani ci lamentiamo molto della scarsa attenzione della stampa straniera, ma continuiamo a non capire che il motivo è semplice: non conoscono la nostra lingua! E, cosa un po’ più grave forse, noi non conosciamo la loro. O comunque non la usiamo per comunicare. E soprattutto non riteniamo di dover sostenere gli sforzi di chi cerca di comunicare l’Italia nel mondo in un’altra lingua che non sia quella di Dante.
     
    Un’ultima considerazione. Ho parlato di milioni cittadini americani di origine italiana, che parlano inglese a cui non si arriva. Ma perchè non parlare dei discendenti degli italiani nel resto del mondo? C’è chi li stima in 60-70 milioni di persone. È c’è poi un numero indefinito, ma notoriamente piuttosto alto, di persone che amano l’Italia, indipendentemente dalla loro origine e dal paese in cui vivono. Ecco, comunicando in lingua inglese raggiungiamo anche questa audience, che anni fa Piero Bassetti aveva identifcato con il termine italici.
     
    Con il dovuto rispetto, senatore: solo degli italiani che vivono in America e comunicano in inglese possono aiutarla a raggiungere l’obiettivo.
     
     
    PS: Aggiungo a margine che questa “Italia fuori di sé ”, ancora oggi sa ben poco di quello che dovrebbe  essere l’evento più importante in termini di comunicazione e di immagine all’estero dell’anno che comincia tra un mese: Expo Milano 2015. Provate e chiedere in giro. Quanti americani o italo-americani sanno di cosa si tratta? Ma di questa grande occasione mancata magari parlerò in una prossima puntata.
     
     
     
     
     
     
     

  • Op-Eds

    The Canticle of Creature in NYC

    Be praised, my Lord, through all Your creatures, especially through my lord Brother Sun, who brings the day; and You give light through him.
    — Fra’ Francesco

    Why would a magazine in New York pick a friar who lived in Italy in the 1200s as its man of the year? Why open an editorial with verses written 800 years ago? Let me explain. First off, “our” Friar Francis, Patron Saint of Italy, is very relevant to the current climate and transcends the Catholic religion, a man who gave up the good life to live amongst the poor and dedicate his life to peace. We’re not talking about the saint per se, but about his universal message.

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    But the idea for this issue of the magazine came to us when we were asked to make a promotional video for an extraordinary exhibit of Francis’ original manuscripts, which opens soon at the United Nations and will later move to Brooklyn Borough Hall. To tell Francis’
    story in a few seconds was a real challenge. We decided to open with him departing Assisi (although you might realize the opening was shot in the Cloisters!) and then show im, barefoot in a tattered habit, walking through the chaotic crowds of New York—amazed, dazed and a little amused. We followed him through the streets for a whole day, from Times Square to Chinatown to Central Park to DUMBO. And we imagined him trying to come into contact with nature. Or people. We imagined his humanity. His poverty. Or rather, his refusal of wealth. His search for peace. In short, we wanted to evoke the past in the present. The life of Francis remains revolutionary to this day—and it’s no accident Pope Bergoglio chose to be Francis I.
    A large portion of this end-of-year issue revolves around Francis and his mission of peace. Several exceptional contributors reflect on the man. The Italian UN ambassadors to Israel and Egypt; two spokespersons—a journalist and a theologian—for Catholic Italy; Jerry Krase and Anthony Tamburri, who look at the saint from the point of view of interethnic relations in the US; and finally Stefano Albertini, who contemplates the Canticle of Creatures, Francis’ best known work and the first work of Italian literature.

    ●●●●

    While we were at it, we decided to take a look at tourism on Francis’ turf—Umbria, the greenest region in Italy, where you’ll find a treasure trove of historic and cultural assets as well as a world famous jazz festival.

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    As always, the magazine has new recommendations for where to eat, what to wear, and who do read. We also remember our good friend and mentor Massimo Vignelli, the icon of Italian design, who recently passed away in New York.
    Finally, there are two not-to-be- missed interviews linked to our television show: “Americans in Love with Italy” with Francine Segan and Parick Shanley, and “The Odd Couple” with Fred Plotkin and chef Davide Scabin.

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    Still haven’t checked us out on TV? Shucks! Go to channel 22 or 25 in New York (Saturday at 11pm and Sunday at 1pm). Still haven’t visited our website? Say it ain’t so! Go to www.i-Italy.org. Still haven’t friended us on Facebook? What are you waiting for? Our 100,000+ friends are proof you can’t love Italy without loving i-Italy.

  • Fatti e Storie

    'Tetti di sole' per una Napoli che pulsa


    Leggi il primo capitolo di  Tetti di sole e subito ti rendi conto di avere tra le mani un libro speciale. Pulsa. Lo senti vivo e parlante.  Corale. Anche se gli stessi protagonisti sono in cerca di un linguaggio comprensibile.  


    Sono voci singole, ma dense come cori, cori non sempre intonati, ma in cerca di una direzione comune. Di una strada per una rivoluzione che significhi cambiamento. Cori che urlano, a volte sguaiati, ma anche con del romantiscismo, del rimpianto. Una tensione continua, e attraversa tutte le pagine,  guarda al futuro, cerca un futuro, vuole una chance. E se le voci/coro sono tante, la tensione è univoca.

     

    Gennaro Matino, sacerdote, teologo, giornalista,  racconta con questo romanzo il quartiere di Agnano, a Napoli, negli anni 60. Un borgo diventato cittadino come non vorrebbe, suo malgrado. In una  città che respira, sospira, si colora, si annida e si snida. Le pagine raccolgono il quotidiano e l’arte di vivere, di arrangiarsi, di creare la propria filosofia, anche se di strada. Di voler rimanere ma anche andar via, dei suoi abitanti e passanti.

     
    Peppiniello, Don Rosario, Mariuccia e il mercato, Carmela la befana, Armida la stiratrice e tanti altri stemperano un’umanità semplice, in un quotidiano che invita alla rassegnazione di fronte al cambiamento imposto ingiustamente.

     
    E la città è intorno ad attaccare la sua comunità che si sente espulsa. La speculazione edilizia ha preso il sopravvento e toglie l’aria, cancella la dignità, distrugge un’economia sana.
    Ma cosa si puo fare? La risposta di Gennaro Matino si chiama ribellione. Una rivoluzione che deve partire da dentro, non violenta ma che restituisca dignità.

     
    La Napoli di Tetti di sole è sotto gli occhi e a volte quasi brucia. Gennaro Matino racconta tanta speranza, ma anche molta rabbia. La sua stessa rabbia di napoletano che vede un’umanità troppo spesso sull’orlo di un baratro.

     
    Ma  non ci si deve piangere addosso, Napoli può trovare forza solo dentro se stessa e grazie alle sua gente. Questo di Gennaro Matino è un romanzo d’amore appassionato e arrabbiato, amore per una città di persone vere. Una città che vuole esser positiva. Una città che respira, sospira. E anche se, a volte  sembra perdere il respiro, non accetta di morire.

     
    E un filo rosso unisce rassegnazione e neccessità di ribellarsi per riuscire a farcela. Una rivoluzione per combattare la prepotenza e l’ingiustizia che, con diversi vestiti, ha coperto troppo spesso Napoli e la sua percezione.  Un’ingiustizia spesso celata da leggi ingiuste. Scritte per pochi.

     
    La verità deve vincere e non la menzogna. Perchè la città vive dei suoi abitanti e anche dei più umili. Ed i napoletani la amano.

     
    Tetti di sole  è un romanzo di speranza per i giovani e nei giovani. Il tentativo di dare una spinta per una città positiva.  Anche se deve fare i conti con le sue contraddizioni e malattie.

     
    Ed i napoletani che vivono fuori da Napoli, dal grande scrittore partenopeo Enri De Luca a tutti coloro che sono emigrati anche qui a New York, sanno che non si può tenere lontana la napoletanita’. Che Napoli rimane dentro, anche quando si fugge, con la sua energia. Un’energia che può, per chi rimane nella città partenopea, diventare rivoluzionaria.

     
    E sulla quarta di copertina si legge: “la verità è che l’ingiustizia della carte scritte non ha mai tenuto conto del fatto che anche quelli che non sanno leggere hanno i loro diritti. La legge dovrebbe essere un pane condiviso, ma spesso accade che chi fa le leggi le usi a suo diletto. Se una legge deve essere osservata sol da alcuni per il tornaconto di altri , allora è una legge ingiusta e andrebbe cancellate. Servirebbe una rivoluzione, quella vera, che desse, nelle mani di chi è sfruttato, carta e penna.”

     
    Un libro che pulsa, come ho detto.
     

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    Tetti di Sole

    Gennaro Matino

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