Mi ha dato lo spunto di questa riflessione la recente missione di Goffredo Palmerini negli Stati Uniti. Il nostro infaticabile ambasciatore d’Abruzzo nel mondo ha il merito, con le assidue notizie e con i suoi racconti di viaggio in quel Paese, di metterne in luce - tra l’altro - pregi e difetti, ma soprattutto i valori fondanti di quella grande democrazia. Anche riguardo la capacità di accogliere ed integrare progressivamente gli emigrati italiani - che ora si contano in quasi 18 milioni -, affrancandosi man mano dal demone del pregiudizio e della discriminazione, quello stesso che per diversi decenni, dall’inizio del fenomeno migratorio, ha infettato la società americana contro i nostri connazionali e non solo. Ma veniamo ora alla riflessione.
Chissà se, parafrasando il titolo di un libro di Benedetto Croce che si riferiva ai cristiani, si può ancora condividere l’affermazione: “non possiamo non dirci americani”. Nonostante l’attuale presidente Trump. Per quel che è stata l’America e quel che è chiamata ad essere ancora per il futuro. Nonostante i vari e molti presidenti che non sempre hanno tenuto alto l’ideale politico dei padri fondatori. Perché l’aspetto più efficace del modello istituzionale statunitense consiste nella “provvisorietà” delle cariche, dal momento che un presidente non lo sarà mai a vita. Finito il mandato, rientra nell’anonimato. Come se il potere si autonegasse. Si evita quindi che un leader possa diventare un “duce”.
D’altronde, nella Dichiarazione di indipendenza, redatta da Jefferson e approvata a Filadelfia il 4 luglio 1776, si afferma: “Quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni […] mette in piena evidenza il disegno di ridurre un popolo alla soggezione di un dispotismo assoluto, esso ha il diritto e il dovere di abbattere un simile governo e di provvedere con nuove garanzie alla propria sicurezza futura”. Parole così rivoluzionarie espresse in termini giuridici e apodittici non si trovano in altre Costituzioni, anche se, purtroppo, la Costituzione del 1787 non risolse la questione della tratta dei negri, catturati e ingabbiati come bestie e spediti nelle fattorie degli Stati del Sud.
Alexis De Tocqueville, nell’opera “La democrazia in America”, scritta dopo un suo soggiorno negli USA, affermava: “Le due razze sono legate l’una all’altra, senza tuttavia confondersi ed è per esse altrettanto difficile separarsi completamente o unirsi”. E ci fu la “guerra civile”. Gettysburg, in Pennsylvania, è oggi il monumento storico in cui, nel 1863, fu combattuta la battaglia decisiva durante la guerra di secessione. Non fu direttamente una guerra di liberazione dei negri, anche se, in seguito, nel 1865, fu approvato il XIII emendamento che aboliva la schiavitù in tutti gli Stati dell’Unione. Ma proprio a Gettysburg, il 19 novembre 1863, Lincoln aveva tenuto un discorso, che ancor oggi resta un insegnamento per ogni nazione che vuole essere democratica: “government of the people, by the people, and for the people”. Il programma di Lincoln era sostanzialmente moderato, ma non fu sufficiente per salvargli la vita. Fu assassinato da un sudista a colpi di pistola.
Cento anni dopo, un altro assassinio scosse l’America: quello di John F. Kennedy. Anch’egli aveva cercato di realizzare un programma politico di rinnovamento, definito “nuova frontiera”, con l’intento di attuare una democrazia compiuta, superando le divisioni sociali e razziali. Un tentativo morto sul nascere. Visitando Berlino, allora la città-carcere cinta dal muro della vergogna, Kennedy aveva pronunciato la famosa frase in tedesco: “ich bin ein berliner” (io sono un berlinese), volendo così affermare come la politica americana fosse in difesa della libertà dei popoli. La frase, divenuta celebre, fu pronunciata il 26 giugno 1963, durante il discorso tenuto a Rudolph Wilde Platz, di fronte al Municipio di Schöneberg, mentre era in visita ufficiale alla città di Berlino.
Un dato storico indiscusso è il contributo determinante degli Stati Uniti nelle due guerre mondiali, per la salvaguardia della democrazia. Senza la partecipazione di quel grande Paese e le centinaia di migliaia dei suoi morti, l’Europa e il mondo sarebbero stati sotto la dominazione dei “totalitarismi”. Purtroppo, e spesso, nell’ambito di alcuni Stati dell’Unione, la libertà appare come una chimera; basti pensare al problema della pena di morte. E sulla discriminazione razziale, di cui si è scritto e dibattuto moltissimo, le soluzioni restano ancora un palliativo. Il sogno di Martin Luther King, l’uomo che s’era battuto energicamente per far riconoscere i diritti civili alle popolazioni di colore, è svanito sotto i colpi d’un sicario che l’ha assassinato nell’aprile del 1968.
Alcuni anni fa, in visita tra gli Amish, una comunità di stampo religioso senza elettricità e con uno stile di vita fermo ai tempi della colonizzazione, parlando con un amico nero sono stato colpito da queste sue considerazioni: “Noi siamo oriundi africani. Ma ora siamo americani. Ci sentiamo americani. Gli Amish hanno una loro privacy: vivono in una riserva. Ma noi non vogliamo riserve. Non vogliamo ghetti. Noi siamo americani neri, come ci sono americani bianchi. Abbiamo dato sudore e sangue per questa nazione, che amiamo e dalla quale vogliamo essere amati e rispettati”.
Nel romanzo “Vita” di Melania Mazzucco, in cui si racconta il dramma degli emigrati italiani in America, si giunge a questa conclusione: “Se gli avessero chiesto cos’è la libertà, che aveva tanto cercato, adesso avrebbe saputo cosa rispondere: non provare vergogna di se stessi. È questa l’unica vera e autentica libertà”. Una grande lezione americana.
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