New York. Energia all'Istituto Italiano di Cultura

Letizia Airos Soria (May 27, 2009)
A tu per tu con Renato Miracco, direttore dell'Istituto Italiano di Cultura. Un anno e mezzo di mandato. Difficoltà e successi di una gestione che lascia il segno

Ha dato una nuova impronta, fin dai primi giorni del suo mandato, a quello che è il tempio istituzionale della cultura italiana a New York, l’Istituto Italiano di Cultura. Lo ha fatto con creatività, energia, ma anche con realismo. Ha trasformato la sede di Park Avenue in un centro sempre più attivo, per concerti, presentazioni, mostre, ma anche in un luogo di incontro, cenacolo per artisti e letterati, giovani e non giovani.

Concreto e tenace, tra consensi ma anche qualche resistenza, ha nel corso di un anno e mezzo mutato l’immagine dell’Istituto Italiano di Cultura, portando questa istituzione all’attenzione costante dei media e del pubblico americano.

Intervistiamo il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Renato Miracco, critico d'arte e storico italiano. Questa volta lo incontriamo nella grande Sala di Cipriani a Wall Street, dove partecipa personalmente ad una riunione per organizzare i festeggiamenti per la festa nazionale. In questo suo volersi occupare, spesso in prima persona, di dettagli e di organizzazione, forse uno dei segreti del successo di molte sue inziative.

Torniamo così insieme in metropolitana all’Istituto di Park Avenue. Nel flusso della New York che lavora e che si compiace della propria frenesia, cominciamo a parlare con lui. Lo guardiamo e ci rendiamo conto che nessun'altra cornice potrebbe accompagnare meglio la sua energia.

Gli ricordiamo la primissima intervista che gli abbiamo fatto, quando era appena arrivato…

"Un anno e mezzo? A me sembrano 10 anni!!! E’ difficile sommare le emozioni e le esperienze che si sono stratificate e accumulate nel corso di questo periodo…”

Ma torna subito indietro con il pensiero, ai giorni del suo arrivo.

“Ho fotografato l’Istituto appena sono entrato. Ma proprio fotografato. In modo che potessi ricordare  dopo quello che avevo trovato. Una delle mie priorità è stata quella di aprire degli spazi e dare una dignità. Dignità che si era totalmente persa. Dignità dell’edificio sia dall’interno che all’esterno.

Dal mettere dei lampioni, dei  fiori, dipingere la ringhiera, le pareti. Non ho potuto fare tutto quello che avrei voluto perché non ho avuto risorse finanziarie. Ma se non altro ora possiamo contare almeno su tre spazi, tre spazi e mezzo per mostre, incontri.

Questo ci consente una rotazione. Quindi se ci sono più eventi energetici, si avvantaggiano l’un con l’altro.

L’ultimo è la piccola galleria borghese fatta con i soldi di Giulia Ghirardi Borghese che appunto ospiterà degli eventi dedicati alla fotografia, cioè di artisti e fotografi. Quasi sicuramente l’inaugureremo con la mostra di Tina Modotti a settembre…”

Tina Modotti? Italo-americana, così importante e ancora cosi poco conosciuta…

“Esatto, è esattamente uno degli scopi che mi sono ripromesso. Introdurre personalità così. Il secondo degli obiettivi che mi sono posto è sicuramente quello di far avere una diversa percezione dell’Istituto Italiano di Cultura all’esterno. Deve essere visto come un posto dinamico, dove succedono le cose, molte volte anche con del glamour. Non un luogo stantio, ma un posto che dà principalmente spazio ai giovani. Questo si può fare non tradendo la tradizione.

Ricordo che per due volte siamo andati agli eventi dell’Armony Show. Non è facile con tutta la concorrenza. La guida americana tra i luoghi più trendy accanto al Metropolitan, mette l’Istituto Italiano di Cultura. Non è da poco anche il fatto che partecipiamo a livello di sponsorizzazione ai Sunday at Met. Quando c’è una conferenza italiana di domenica al Met l’Istituto è sempre presente. Fantastico! Fantastico l’afflusso di persone diverse, non solo italiani, che sono naturalmente sempre i benvenuti. La cultura italiana va conosciuta non autoreferenzialmente solo tra italiani. Va promossa con gli americani, ed è questo il motivo per cui si parla inglese e non solo italiano negli eventi dell’Istituto.”

Lasciamo la strada ed entriamo nella sua stanza all’Istituto. Passano diversi minuti prima di riprendere a parlare con lui, tra telefonate, appunti da leggere, richieste. Difficile trovare un angolo vuoto nel suo ufficio. Decine e decine di opuscoli, libri, stampe, quadri, oggetti testimoni di una vitalità che accumula e propone cultura.

Ma torniamo a parlare con lui della lingua inglese, come veicolo di trasmissione culturale...

“Solo così possiamo far conoscere agli americani una cultura diversa. Questo è uno degli obiettivi. E cosi' anche  il New York Times ci ha praticamente monitorato in tutti questi anni, dedicandoci molte volte veri e proprio trionfalistici articoli.”

Sicuramente un momento magico per la cultura italiana a New York, in

questi mesi è stato la mostra di Morandi al Met. “ Si è stata una grande chance, la mostra che io ho curato per il Metropolitan, insieme a Maria Cristina Bandiera. Questo anche perchè contemporaneamente poi ho avuto all’Istituto un’esposizione parallela di acquarelli e disegni fatti qui, che poi hanno girato l’America. E’ stato un evento organizzato in partecipazione con grosse associazioni culturali americane.”

E per rendere più visibile la vostra attività ha pensato ad una collana…

“Si una serie realizzata dall’Istituto di Cultura. Per adesso c’è solo la sezione arte, poi ci sarà, naturalmente anche la sezione letteratura. Il primo volume è stato dedicato a Melotti, il secondo è stato dedicato a Morandi, il terzo è ai giovani artisti a New York e il quarto a Torre. Le punte di diamante di una programmazione che è molto vasta”

Ma cosa lo ha spinto a prendere un impegno cosi?

“Perché fare una nuova linea editoriale? Volevo dare una continuità agli eventi dell’Istituto.”

La strategia di Miracco è chiara. Collaborazioni e sinergie soprattutto con le realtà culturali americane newyorkesi.

“E’ importante proporre l’arte contemporanea italiana di concerto con le istituzioni americane. E non è un punto di arrivo, ma di partenza. Ma per arrivare a questo occorre aver acquisito una credibilità che prima non c’era.

Fondamentale, secondo me, è la mia filosofia di sporcarmi le mani. Per

esempio per organizzare un evento che interessi i giovani, devi scegliere i giovani. Per fare questo devi andare a vedere, cercare, farlo direttamente. Senza delegare. E questo vale per tutto. Non puoi parlare di cultura se non la vivi quotidianamente, non vai quotidianamente nei posti giusti. Vale per l’arte come per la letteratura. Basti pensare al Pen Festival, per la prima volta noi abbiamo ospitato un evento del Pen Festival da noi.

Questi sono dei punti di partenza per me, non di arrivo. Ma, ripeto, arrivare a questo punto di partenza non è stato facile. Per la prima volta siamo stati presenti in posti importanti. Ma non abbiamo solo partecipato come sponsor mettendo un semplice loghetto sotto un evento che fa un altro. Siamo compartecipi nella scelta e dinamica dell’evento…”

E le istituzioni italiane presenti a NY?

"Abbiamo un rapporto ottimo. Ottima la collaborazione con il consolato, facciamo veramente un fronte unico. E con tutti gli altri. Con l’Ice per esempio. Siamo riusciti a concordare le modalità di promozione di una regione. Per la Calabria quindi si portano quattro prodotti culinari, ma poi si mostra l’ eccellenza archeologica calabra alla Morgan Library."

Di difficoltà ne ha superate. Quali sono ancora rimaste?

“Le difficoltà credo siano come il parto di una donna. Si hanno prima e poi si dimenticano allorchè si sono superate e quindi si ha la gioia di averle superate. Si dimentica la fatica. Siamo veramente troppo pochi, vorrei veramente avere la possibilità di assumere anche delle persone sul posto…”

Vorresti maggiore autonomia?

“Si, ho un’autonomia. Ma molte volte pongono tante di quelle condizioni.

Poi è molto difficile avere contatti con gli sponsor. Se hanno soldi preferiscono organizzare un evento da soli. Non associarsi, non dare soldi a un’istituzione. Nella mentalità italiana, un po’ meno in quella americana, c’è l’idea che è lo Stato che deve provvedere, non il privato.”

In termini di comunicazione e di pubblicità. Pensa che si possa fare di più?

“Si deve fare tutto. Il nostro tipo di comunicazione non arriva là dove vorremmo che arrivasse, là dove noi vorremmo che sconvolga. Molte volte facciamo delle cose talmente grandi che ci stupiamo noi stessi di averle potute fare. Ma vengono forse recepite al 30% , al 40 % dell’importanza del lavoro, perché la struttura di comunicazione è sicuramente una delle nostre deficienze. Si avvale di percorsi vecchi, come dire, io non mi arrendo mai, vado avanti, vado veramente come un carro armato. Molte volte dicono: ‘Sai Renato sarebbe bello se noi ci fermassimo tre o quattro mesi e poi vediamo che cosa si può fare". No, il cambiamento deve essere fatto nell’atto, nell’agire, non so se rendo l’idea.”

Strumenti di comunicazione vecchi… cosa vuol dire?

“Faccio un esempio. Il materiale cartaceo realizzato in Italia e spedito qui. 300.000 brochure di una regione per esempio. Che ne facciamo? Oggi si deve raggiungere un pubblico giovane e non giovane che si avvale di Internet, del web.

La brochurina così dove le regioni buttano miliardi, noi le lasciamo in esposizione, ma dopo un mese le trovo sempre lì, nonostante l’afflusso di gente. Dopo un mese si toglie. Questo è solo un esempio, ma potrei continuare…”

Come sceglie gli eventi?

“La qualità naturalmente è fondamentale. Eventi non autoreferenziali, questa è la prima cosa e in parte ci sono riuscito. Organizzare eventi che interessino una larga parte di pubblico americano e italiano. Fare in modo che la gente si senta a proprio agio nell’istituto, parte della vita dell’Istituto.

Un problema serio l’ho con la programmazione. Siamo in un paese dove va fatta con tre o quattro anni di anticipo, non con 10 giorni, 15 giorni. Poi spesso non possiamo contare su un budget. Il budget che io ho copre a malapena il maintenance del palazzo. E non dimentichiamo come faccio io a garantire una programmazione di 3-4 anni? Se innanzitutto non so se posso rimanere due anni o tre o quattro…”

Ma sono di nuovo in programma eventi importantissimi. Penso

al Futurismo.

“Come lo faccio? E come riesco a farlo senza soldi? Adesso non so quanti soldi ho per il futurismo di quest’anno.. io comunque lo faccio.

E’ la prima volta che l’Istituto partecipa con Yale, Briston, Cuny, Columbia University, con Momart, Metropolitan e altri. Tutti insieme per un evento sul futurismo… Abbiamo pari dignità, ospitiamo degli eventi e andiamo lì a fare conferenze.”

So che sta preparando un grande fund raising

“Si fund raising vero ...non con una silent auction. La gente deve mostrare il viso, se vuole veramente aiutare. Questa è per me una cosa fondamentale, si cercherà di avere un posto glamour, non una cena seduti. Non voglio sprecare soldi, né per la location, né per dar da mangiare. Si mangia a casa propria, si viene lì a bere qualcosa e a sostenere effettivamente la cultura italiana. Vorrei quindi una cosa un po’ diversa, un po’ provocatoria".

E quando pensa di farlo? Dove?

“A metà settembre, fine settembre. Posso dire che Fabrizio Ferri mi dà molto volentieri il suo spazio “Industrie” dove Madonna ha fatto la sua festa. E sto cercando di coinvolgere attori e attrici italiane…”

Quindi allora diciamo che il Futurismo è la grande celebrazione nei prossimi mesi…

“Non solo. Abbiamo il Festival della scienza per esempio… Con Vittorio Bo, il festival della scienza per l’anno galileiano. Ci saranno una serie di 'letture' fatte qui in Istituto, forse anche all’Hunter College, alla Cuny. Lo sto organizzando con la Regione Veneto."

Sinergie, contatti, collaborazioni…

“Altrimenti non ce la fai … altrimenti non …”

Quando è arrivato ci raccontò, di come si sentiva quando passava davanti all’altro Istituto di Cultura spagnolo qui accanto…

“Adesso sono contento della facciata esterna del palazzo, l’interno ancora no, ancora sbavo di invidia…”

Ok ma i contenuti proposti sono stati importantissimi…

“Esatto, la fila fuori all’Istituto … è una cosa nuova… La Frick Collection che ti chiede di fare insieme la mostra Guercino…. E 4000 persone hanno visto la mostra di Morandi in Istituto, ma neanche in dieci anni si erano viste…”

E c’è ancora un evento che proprio rimpiange di non aver fatto…

“Qualcosa di concreto sui diritti umani. Vorrei fare degli eventi che scavino nel tessuto sociale….”

Ultima cosa. Il Premio New York. Lo ha voluto con grande forza…

“Ho riaperto per New York una giuria internazionale, era bloccato da quasi due anni. Dà la possibilità a degli artisti italiani di venire a New York per quattro o sei mesi, due volte l’anno e poter anche frequentare dei corsi alla Columbia University. Nel frattempo ho realizzato un libro sui giovani artisti a New York. Un libro che fotografa la realtà newyorkese. Per la prima volta  c’è una mappatura dell’arte italiana in questa città Mi stupisco di come possa non essere stata mai fatta. Questo con i soldi di sponsor privati… di istituzioni private. Mi sono incaponito, perché molte volte l’arte italiana è per parrocchiette che non vogliono saper nulla dell’altra. Quindi contro le parrocchiette abbiamo un vademecum, limitato , in via di evoluzione, che è desueto nel momento stesso in cui esce, ma è una iniziale fotografia. Un primo mattoncino...”

E la nostra intervista termina qui. Renato Miracco torna al suo computer, alle sue moltecipli email, telefonate, appuntamenti, progetti da valutare, sponsor da cercare e alla sua cultura dell’ “energia”.

                                                                       

  Video recente, realizzato da i-Italy, con Renato Miracco in occasione del concerto all'IIC del gruppo musicale Dissonanzen che ha inaugurato nella sede di Park Avenue,
le celebrazioni del Futurismo a New York

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