Articles by: Gianluca Galletto

  • Fatti e Storie

    Riflessione da New York Il PD che vorrei

    Milito nei DS prima e nel PD dopo da vent’anni. Dopo aver avviato l’attività di un piccolo gruppo di DS a New York, ho fondato con altri pazzi l’Ulivo USA nel 2002, su basi di appartenenza diretta e non attraverso i partiti che lo componevano. L’idea era di arrivare a formare un partito democratico che ispirato all’inclusività di quello americano tenendo conto della nostra storia politica. Da lì il passaggio a co-fondare il PD di New York è stato facile.

    Ho sostenuto Renzi e confido che sarà un ottimo segretario, sebbene ritenga tutti i candidati molto validi: sogno un partito dove tutti e tre contribuiscano alla costruzione e attuazione di una politica di cambiamento del paese, che ne ha un disperato bisogno. Resto convinto che dobbiamo tenere il partito ancorato ai valori del centrosinistra, e per questo apprezzo molto Cuperlo, oltre che per le sua qualità umane e intellettuali sulle quali si è scritto assai.

    Oltre a conoscerlo da anni, ne condivido la storia di sinistra, pur non essendo mai stato iscritto ne al PCI ne alla FGCI. Apprezzo molto anche Civati e la sua idea di partito di volontari, la sua nettezza di posizioni. La sua campagna molto inclusive è stata la più bella e la più somigliante alle campagne dei candidati americani con i quali ho collaborato, non ultimo de Blasio.

    Io rivendico la militanza come sforzo di volontariato (non necessariamente d’iscrizione) e la mia adesione al partito prescinde dal suo leader e vorrei che così fosse per tutti, candidati, elettori e militanti. Spero quindi che Renzi sappia valorizzare chi ha perso e che questi rimangano a lavorare con il vincitore. Renzi è il leader di cui il PD ha più urgente bisogno perché esso ha bisogno di uno shock molto forte, non privo di costi, ma necessari.
    Se da un lato serve mantenere saldi i valori del progressismo, dall’altro il PD necessita di una notevole infusione di liberalismo. Cosa che serve all’Italia, perché siamo il paese con la destra meno liberale e più corporativa dell’occidente. È possibile tenere insieme il liberalismo, l’economia di mercato - e una vera meritocrazia diffusa - con la redistribuzione, un welfare state avanzato e universale (perché oggi non lo è) e una vera uguaglianza di opportunità. C’è una gran necessità di “più sinistra”, anche perché il modello di capitalismo affermatosi negli ultimi 20 anni ci ha portato a livelli di disuguaglianza globale mostruosi. Ma se l’economia non cresce, se la meritocrazia è mortificata e la mobilità sociale è inesistente, è impossibile avviare politiche sociali e di solidarietà che funzionino. E dobbiamo anche capire che se l’austerità ci sta ammazzando, fare debito e trasferire il suo peso sulle generazioni future come abbiamo fatto finora è sbagliato. Il debito a un certo punto si paga, ed è quello che stiamo facendo, vecchi e giovani.

    Vorrei un PD dove contino gli eletti ma che sia anche in grado di coinvolgere i militanti, i volontari e i simpatizzanti nell’elaborare una visione del paese e policy concrete, portando a sintesi i contributi degli eletti con quelle dei militanti. Che non sia pertanto solo un comitato elettorale e che non butti a mare i suoi dirigenti più “vecchi”, ma li sappia valorizzare, a patto che anche questi abbiano l’umiltà di fare da consiglieri e non da padroni. Non ha senso chiedere a tutta la generazione più vecchia di andarsene in blocco. Si faccia contare il merito anche in politica, indipendentemente dall’età o dall’anzianità di “servizio”. L’esperienza non può essere un disvalore: si invoca tanto l’America, ma faccio notare che ci sono senatori e deputati rieletti - in un sistema competitivo - sistematicamente da 30 anni.

    Vorrei in Italia più Bill de Blasio. Che vince con un programma progressista chiaro e netto, sapendo bene che per mantenere New York la grande città più sicura d’America, serve una polizia forte, che però ricostruite il rapporto con le comunità; che vuole maggiori investimenti nella scuola statale, tenendo presente il vincolo di bilancio e non sperperando soldi pubblici; convinti che l’iniziativa d’impresa sia valore fondamentale e il ruolo del government non sia di mortificarla, ma di favorirla, inserendola in un contesto di politiche di solidarietà e di opportunità per i meno abbienti. Abbiamo un disperato bisogno non di less government (in Italia anche si) ma di smart government.

    Vorrei un partito simile al partito Democratico americano, ma nei suoi aspetti migliori.

    1. Osmotico con la società civile, fatto principalmente di volontari che fanno un altro mestiere, portatori di esperienze e capacità diverse, salvo essere eletti (e DEVONO fare solo quello), ma che abbia un minimo di struttura snella e professionale. Uno staff non in attesa di diventare un giorno un politico ma lo faccia per professione. Il PD dovrebbe avere un manager che si occupi degli aspetti gestionali e non politici. Come l’Executive Director del DNC, che non fa anticamera per diventare parlamentare. Serve una vera divisione del lavoro, più professionalità e meno professionalissimo.

    2. Che il legislatore intervenga nella regolazione dei partiti fissando standard minimi di democrazia e trasparenza (ne parlai in direzione di marzo) e primarie per legge. Senza il cambiamento del contesto istituzionale non risolveremo mai il corto circuito di un partito che fa elezioni aperte per eleggere i suo leader - unico fra i partiti italiani a farle mentre gli altri ti danno picche - e crea un conflitto fra iscritti e non iscritti.

    3. Primarie come parte integrante della legge elettorale almeno per tutte le cariche esecutive ma il leader del partito sia eletto dagli iscritti o da elettori registrati in un albo certo ex ante, che comporta un minimo di sforzo. A quando un’iniziativa pesante del PD in parlamento?

    4. Riforma radicale del finanziamento pubblico ai partiti: no all’abolizione totale, ma principio dei “matching funds”, cioè finanziamento privato coadiuvato dal finanziamento pubblico, ai candidati e non alle strutture di partito. Oggi i soldi dei rimborsi elettorali vanno al partito centrale invece che ai candidati, mentre in America il rapporto è ribaltato. Attenzione però a cosa s’importa: per esempio la legislazione statale di New York è pessima, mentre un’ottima legge è quella della città di New York (anche questo lo suggerii alla direzione di marzo scorso): il finanziamento si fonda su donazioni individuali non deducibili (non lo sono in nessuno stato). La donazione massima è di $4.950 sia per la primaria che per la generale. Sono vietate le donazioni da società e c’è un tetto massimo di spesa. Per ogni dollaro donato fino a un massimo di 175, il comune versa al candidato 6 dollari: se verso $300, il candidato ne riceve dal comune altri 1050=175x6. Totale 1350.

    5) Battaglie chiare e nette sui diritti civili, per esempio sui matrimoni egualitari (dal bellissimo titolo della legge sui matrimoni gay di NY State chiamata appunto, “Equal Marriage Rights” e non Same Sex Marriage Rights).

    6) Basta con la perenne guerra fratricida: ci si scontra duramente ma il giorno dopo ci si unisce attorno al vincitore. Credo nel partito come comunità di persone che condividono valori fondamentali: si fa parte della stessa famiglia e si lavora insieme il giorno dopo le elezioni per il bene del paese. Ci vuole la consapevolezza che esiste qualcosa che ci accomuna che è molto più grande di noi stessi e dei leader che sosteniamo. E l’umiltà di sapere che la perfezione non può essere la nemica del miglioramento come ci ha spiegato il presidente Obama.

    Si tratta di cose che dico, scrivo, ma soprattutto pratico, da almeno oltre un decennio, nella politica italiana e in quella americana. Il mio mantra resta sempre, per il partito, per il Paese e per il mondo: We are all in it together is a much better philosophy than you’re on your own (Bill Clinton, Convention 2012).

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    Gianluca Galletto, consulente finanziario, co-fondare il PD di New York. Pugliese di Grottaglie, MBA a Yale,  da 15 anni vive e lavora a New York.  È stato candidato alla Camera capolista per il PD circoscrizione Nord Centro America.
    Ha lavorato nella campagna di Bill De Blasio per l’elezione a sindaco di New York.

  • Fatti e Storie

    Chi è Bill il Giusto

    Da gennaio New York city avrà il primo sindaco italo americano democratico eletto nella storia. Ho pensato di scrivere qualche riga per dire chi è, perché ritengo esista una narrazione su di lui un po’ distorta.

    Lo conosco personalmente da molti anni, e precisamente da quando era il campaign manage di Hillary for Senate nel 2000, una delle mie primissime esperienze di fundraising. Sono entrato nel suo comitato finanziario circa tre anni fa per scelta ragionata. Ho una stima enorme per lui e sono stato felicissimo di impegnarmi per lui sin dall’inizio, quando era il meno favorito dei Democratici.

    Bill de Blasio è dal 2009 il Public Advocate di New York City. Si tratta del difensore civico della città, una delle tre cariche esecutive elettive, oltre al sindaco e al Comptroller. Figura introdotta a inizio anni ‘90, se il sindaco viene meno, è il PA che ne prende il posto fino a elezione anticipata (special election).

    Bill ha origini italiane, cosa cui tiene molto, tanto da chiamare i suoi figli Dante e Chiara, per via materna. Maria de Blasio era figlia d’immigrati italiani della zona di Benevento ed è stata per lui una figura di grande ispirazione. Attivista politica come lui sin da giovane, aveva lavorato per l’Office of War Information durante la seconda guerra e ha anche scritto un libro sulla resistenza italiana. A differenza dell media degli italo americani, Bill si tiene al corrente delle nostre vicende (una volta mi scrisse una mail dicendo “ma fra Bossi e Maroni come va a finire?”).

    Ma Bill è innanzitutto una persona eccezionale. Una persona autentica ed è questa la cosa che più mi ha colpito di lui. Ho incontrato decine di politici, americani e italiani, e nessuno mi ha mai fatto questo effetto come lui. Mantiene la parola, risponde alle mail personalmente anche in campagna elettorale ed e di un’affabilità senza pari. Tutti quelli che ho gli ho fatto incontrare di persona ne sono rimasti colpiti sul piano umano. In un momento in cui c’è una crisi profonda di credibilità dei politici penso si tratti di una caratteristica fondamentale. Il suo “moral compass” è la base solidissima su cui si fondano la sua visione e la sua esperienza politica. E il suo successo. 

    Bill è considerato un radicale, troppo di sinistra per alcuni. A New York buona parte dell’establishment finanziario e industriale è ancora spaventata da una sua possibile vittoria perché secondo la vulgata dei suoi detrattori “ci riporterà ai tempi di Dinkins”. Dinkins è stato il primo e unico sindaco nero di New York, prima di Giuliani. In quegli anni NYC raggiunse uno dei punti peggiori della sua storia con tensioni razziali e un livello di criminalità altissimo. Oggi New York City è la grande città più sicura d’America, più sicura di molte città italiane, dove di notte trovi donne sole in metropolitana senza problemi. Molto del merito va a Bloomberg, ma i toni di alcuni commentatori a lui avversi sono arrivati al punto di evocare uno scenario da film Warriors, non so se ve lo ricordate. Bill ha lavorato nell’amministrazione Dinkins, dove, fra l’altro conobbe sua moglie, una donna di straordinaria intelligenza e spessore umano, poetessa e attivista dei diritti civili e LGBT (ex lesbica anche lei), che lui adora a tal punto da averla definita come “la parte destra del suo cervello”.

    Ora, a parte che Dinkins non è de Blasio, ma questa retorica non ha senso. Bill è certamente un progressive che corrisponde più o meno a uno “molto di sinistra” - di sinistra in America si traduce approssimativamente con “liberal”, da noi usato impropriamente). Vuol dire che crede nel mercato e nell’affermazione individuale, ma anche nel ruolo dello stato nella regolazione dell’economia, nella promozione della giustizia sociale, nel ruolo dei sindacati e in politiche sociali attive. Vuol dire promuovere i diritti civili, fra cui quelli di omosessuali e transgender. Ho cercato di spiegare a molti conoscenti, quando chiedevo soldi per la sua campagna, che non stiamo parlando di un sindaco che pensa di tornare agli anni ‘70. Né di essere lassisti sulla sicurezza.

    Bill è una persona pragmatica e sa bene che creare deficit e debito non sono politiche sane. Egli però, a ragione, crede fermamente sia arrivato il momento di affrontare il nodo fondamentale delle società occidentali e che il laisser faire tout court ci sta affondando. Si tratta della disuguaglianza. Siamo arrivati ai livelli degli anni 20-30 e New York è esempio mondiale di questo problema. È la città dove si concentra il più alto numero di milionari e il 40% della popolazione vive vicino o sotto la soglia di povertà. Qui convivono il collegio della Camera più ricco del paese (parte dell’Upper East Side) con quello più povero (parte del South Bronx). La disuguaglianza a questi livelli non solo è ingiusta, ma ha anche effetti molto negativi sull’economia perché è sintomo di una compressione enorme dei livelli di reddito, e quindi di consumi, della classe media.

    Essere progressive vuol dire dare priorità alla scuola pubblica rispetto alla privata, un’attenzione all’affermazione delle classi meno fortunate e un ritorno ai core value della costituzione come la limitazione di certe forme di invasive di policing. Altro punto fondamentale del suo programma è infatti la riforma della pratica dello “stop ad frisk”, divenuta odiosa in certe zone della città perché colpisce per il 90% neri e latini. Si tratta di una politica introdotta a fine anni ’90 che consente alla polizia di fermare cittadini sospetti e perquisirli senza mandato se sono soddisfatti alcuni criteri di garanzia. Ha prodotto grandi effetti positivi, ma con Bloomberg e Kelly (il capo della polizia) si è passati da 100mila perquisizioni nel 2002 a oltre 800mila nel 2012, il 90% delle quali senza produrre arresti. La pratica è stata dichiarata incostituzionale da un tribunale ma è in corso una battaglia legale avviata dal comune. De Blasio, unico ad aver preso una posizione netta fra i candidati Democratici, vuole riformarla. Anche perché in molte zone ha minato il rapporto fra polizia e comunità di quartiere, cosa che, a sua volta, determina una minore efficacia di repressione e prevenzione. Chi critica è di solito chi (come me), non ha mai avuto esperienza, diretta o indiretta, o neanche osservato uno stop and frisk, che tende a concentrarsi nelle zone più calde della città.

    A chi ha paura che de Blasio possa aumentare le tasse facendo scappare i ricchi contribuenti, rispondo che si tratta di un aumento di meno di mezzo punto e per chi guadagna più di mezzo milione all’anno. Parliamo di un impatto di soli 2mila dollari l’anno per chi guadagna un milione, che servirebbe a finanziare l’asilo (pre-K) e il doposcuola pubblico per tutti. Un programma di grande impatto sociale ed economico in un mondo dove molte famiglie poco abbienti o in difficoltà e madri single non poter mandare il figlio all’asilo significa avere disagi nel proprio lavoro (assenteismo, menoproduttività) e farlo crescere in situazioni difficili, con problemi di adattamento e futuri comportamenti microcriminali.

    Altro punto fondamentale del suo programma riguarda il potenziamento della scuola statale. In questo quadro va letta l’idea di limitare i fondi pubblici alle charter school, una forma di scuola pubblica, finanziata dal comune ma con libertà nei programmi rispetto ai quelli statali, che ha avuto molto successo. Bloomberg ha avocato al sindaco il controllo diretto del sistema scolastico, cosa che de Blasio ritiene giusta, e ha favorito una crescita notevole di queste scuole, con ottimi risultati, perché i profitti degli studenti sono ottimi. Ma de Blasio non vuole eliminarle, mentre pone un problema di priorità ne devolvere la spesa. Non eliminarle ma fermarne la crescita, perché “devo occuparmi del 90% delle scuole di NYC che sono statali e la cui qualità media è bassa se non scadente”.

    Lo stesso vale per l’edilizia popolare. La cosa più cara che c’è a NYC è lo spazio. Con Bloomberg si sono trasformati interi quartieri, una volta invivibili e ora trendy e vibranti, cosa di cui siamo gratissimi e non io tornerei certo indietro. Ma una città non può essere fatta solo da chi può permettersi 3.000 dollari al mese per un monolocale. Chi pulisce le strade, ci accoglie negli ospedali, pulisce gli uffici, fa il pompiere, è essenziale anche per chi guadagna dai 500mila dollari in su.

    La forza di de Blasio sta nell’aver mantenuto il punto su questioni che sembravano “obsolete”, da sinistra in decadenza. E non si è scusato per essere stato da giovane in Nicaragua durante la rivoluzione sandinista con un’organizzazione cattolica umanitaria. Ha tirato dritto senza ondivagare anche quando i sondaggi lo davano indietro e ha mantenuto una disciplina di ferro nel messaggio fino alle elezioni, lodata da tutti a destra e a sinistra. Con disciplina e coerenza è riuscito ad essere il più convincente. Alle primarie ha vinto in tutte le costituency: fra i neri, i latini, le donne, i gay, i bianchi ricchi di sinistra, convincendo sia come persona comune non legata a logiche di potere ma dedicato alla sua famiglia multiculturale, per altro unitissima, che riflette la New York di oggi (dove i bianchi sono ormai meno del 50%). Ha pesato anche il suo non essere di Manhattan al contrario del sindaco miliardario che ha reso il suo borough un gioiello ma avrebbe potuto fare di più negli altri, dove fra l’altro risiede la grande maggioranza degli elettori.

    E ha anche azzeccato, unico fra i democratici, la critica netta a Bloomberg. I newyorchesi continuano in maggioranza ad approvare l’operato di Bloomberg ma sono allo stesso tempo stanchi di lui e soprattutto i Democratici, non hanno mai digerito la forzatura del terzo mandato fatta dal consiglio comunale con la sua alleata e presidente del consiglio Christine Quinn.

  • Events: Reports

    Italy Today. A Book about the Sick Man of Europe



    Italy has very often been portrayed in the international mass media as “the sick man of Europe” (we all remember the famous Economist cover), and it is now part of a recurrent theme: the image of a country in a societal and economic crisis. However, what is lacking is is a diagnosis for such a 'sick patient' as Italy is referred to, because work from social scientists is crucial to identify potential methods of ameliorating the problems. 

    The book Italy Today, the Sick Man of Europe has this merit; it does not stoop to the common discourse of the Italian crisis, but deploys an array of analysis from experienced and emergent social scientists that into deep explanations of unraveling and unsolved issues. The combination of Italian and non Italian scholars also creates an interesting mix of perspectives and approaches, providing a wide scope that leaves the reader with a sort of giant fresco of Italy and the shadows of its society. In fact, we should say it represents a 'chiaroscuro' of the country.
    The overview of critical issues affecting Italy and its socio-economic fabric is wide: from the new emerging mafias to the predicaments of the political system, from the ongoing presence of Fascism to the failed reconciliation of the years of terrorism, from the missed opportunity of the EU funding to the increasing regional economic gap, this work covers it all.
    A natural question would be: Do they analyze Berlusconi? Not denying the importance of an analysis of Berlusconi and of 'Berlusconismo', Italy Today focuses on other considerations to avoid the strong, recurrent and easy temptation to place all of Italy’s faults on Berlusconi’s shoulders.

     
    For the editors of Italy Today, Berlusconi’s figure, with all its contradictions and oligarchic tendencies, often diverts the attention from deeper and older issues affecting Italy, a country that has never been an outstanding example of  directly tackling national problems. We welcome this stand of focusing on Italy rather than on Berlusconi.

     
    To conclude, this volume generally represents an example of different methodological frameworks–often cross-disciplinary–applied to the study of social phenomena, organizations, political parties, governments, economic systems, cultures and sub-cultures, and collective memory which are among the key topics in many of the social sciences and the humanities. Therefore the specific rationale behind Italy Today is that the Italian decline can be understood only through a systematic analysis of some concrete problems. Italy Today tries to give some diagnoses to Italy the 'sick patient.' After all, a sick patient usually gets better when given the right diagnoses.


     




    Italy
    Today: Politics, Economy, Society

    November 20 2009, 6:oo pm

    Casa Italiana Zerilli Marimò

    24 West 12th Street, NYC

    A panel discussion with:


    Claudio Gatti (Il Sole 24 Ore)

    Matthew Kaminski (Wall Street Journal)

    Raoul Minetti (Michigan State University)

    Giuseppe A. Veltri (Institute for Prospective Technological Studies, Seville, Spain)

    Introduced by:

    Gianluca Galletto (i-italy, iMille)



    On the occasion of the publication of:

    Italy Today. The Sick Man of Europe

    (Routledge, 2010)


    Edited by Andrea Mammone, Giuseppe A. Veltri


    Gianluca Galletto is a former finance executive, a contributor to I-Italy and iMille.
    Claudio Gatti, journalist of Il Sole-24 Ore in New York, is a contributor of the New York Times.
    Matthew Kaminski is a member of the Wall Street Journal's editorial board, and previously,from 2004-08, was the editorial page editor of the paper's European edition, based in Paris.
    Raoul Minetti is Associate Professor of Economics at Michigan State University and contributor of the book “Italy Today, a sick man of Europe”
    Giuseppe A. Veltri is Scientific Fellow at European Commission and Co-Editor (with A. Mammone) of “Italy Today, a sick man of Europe”.


     


  • La testimonianza. Il mio Giorno della Memoria a Park Avenue


    Riceviamo e pubbilchiamo la testimonianza inoltrataci da  Gianluca Galletto  (maggiori informazioni nel suo blog)

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    Ieri sono stato al Consolato per la celebrazione del giorno della memoria della Shoah, che, ahimè, fece migliaia di vittime anche in Italia.


    Il Consolato ha avuto la bellissima idea di far leggere i nomi di tutte le oltre ottomila vittime accertate italiane pubblicamente, per strada, davanti all’ingresso del Consolato. Oltre alla partecipazione dell’ambasciatore Italiano presso l’Onu e del suo omologo da Israele, sono venute anche un paio di scuole ebraiche di NYC e gli alunni della Scuola Italiana di NY. Ma la cosa piu bella è stata la partecipazione di decine e decine di persone che, dalle 9 del mattino alle 16 di sera si sono avvicendate nella lettura.


    I testi erano posti su quattro podi e relativi microfoni. E faceva un freddo cane. Molti gradi sotto zero. Park Avenue no ha un gran traffico spontaneo di persone essendo una zona esclusivamente residenziale, ma molte si sono incuriosite ed erano molto compiaciute.


    Non posso nascondere il fatto che leggendo quei nomi mi sono venute lacrime agli occhi molte volte. Non potevo quasi credere che tante persone siano state cancellate dal mondo, intere famiglie (a volte c’erano serie di 15-20 nomi con lo stesso cognome), solo per avere una origine, un’appartenenza culturale, prima ancora che per seguire una religione.


    Ci pensiamo tante volte, ma rischiamo di farci l’abitudine. E' solo con momenti di riflessione, in cui ci si ferma un attimo dal casino quotidiano, che si riesce a percepire la drammaticita’ degli eventi. Ed e quello che e successo a me.


    Ben vengano iniziative cosi, ma vorrei che ve ne fossero di piu serie e capillari nella scuola. In Italia mi sono confrontato spessissimo con una fondamentale e crassa ignoranza rispetto agli ebrei e l’ebraismo.. Eppure se tutti andassimo a cercare nel nostro albero genealogico, soprattutto al sud e nel medio evo, ne troveremmo tanti. Quante volte ho sentito banalita’ o stereotipi piuttosto stupidi, il piu stupido di tutti; "gli ebrei sono tutti ricchi", soprattutto se si tratta degli ebrei di New York. Una stronzata come dire che gli italiani sono tutti de grandi cantanti lirici... E questo è il minimo. C’e poi la confusione costante fra la religione e la cultura. Ebraico con ebreo.


    New York è la città con il piu gran numero di ebrei o persone di cultura ebraica al mondo, con circa 3 milioni. Di tutti I tipi, religiosi e non, ortodossi, Hassidim, riformati, conservative, totalmente laici (gran parte), atei, anti religiosi in genere. C’e di tutto. Come c'è di tutto fra gli ebrei in giro per il mondo e come in Israele (dove proporzionalmente ci sono piu atei o laici, che fra tutte le altre comunità ebraiche del mondo). Ma purtroppo è proprio dall’ignoranza crassa e dalla banalizzazione che spesso si giunge a ben altri orrori. E un po’ di educazione su cosa e l’ebraismo e la religione ebraica e gli ebrei.


    E lo stesso andrebbe fatto meglio per gli arabi e I musulmani (altra grande stupidaggine ricorrente è infatti l’uso come sinonimo di musulmano e arabo). E per tante altre cose. Il ragionamento e estensibile a tante altre cose, gli omosessuali per esempio...Sugli ebrei abbiamo un pochino di responsabilità un pò particolare, perchè, purtroppo, l’olocausto è passato anche da noi.

     

  • La testimonianza. La mia Obama Night a Capitol Hill


    Riceviamo e pubbilchiamo la testimonianza inoltrataci da  Gianluca Galletto  (maggiori informazioni nel suo blog)

     

    La notte che ha cambiato tutto si stempera in un giorno di civile normalità. Un momento che lacera un italiano deluso e un neo americano travolto dalla stupore e freddato dall’ invidia. È cambiato tutto. Ora lo sappiamo.


    Ho visto sversare tra le strade imperiali che conducono a Capitol Hill, 40 anni di storia tra le rivolte dei ghetti del 1968 e l’annuncio della vittoria del figlio di un keniano stampati sulle facce, sulle magliette, nel cuore di una suora di Okinawa che il destino mi ha piazzato accanto.


    Il freddo americano e il caldo della parole: niente scuse siamo americani e sul volto di Obama è scomparsa quella vecchia America che ha straperso, sepolta dalla insurrezione elettorale dei giovani raccolti attorno al palco di Obama. Gli stessi che hanno respinto la tentazioni della protesta e hanno sceltp lo strumento politico per manifestare la loro voglia di cambiamento. Su tutti, alle prime parole di Obama, era già scesa la pace. Il suo discorso è stata coperta rassicurante della Costituzione, delle regole da rispettare e rispettate, della civiltà politica. Io iscritto italiano del Pd mi sono fatto la mia piccola rivoluzione: ciò che posso raccontare di scomposto è la folla che si è stretta attorno alla Casa Bianca punteggiata dai i pennelli elettronici dei network, dai i messaggi frenetici dei blog e dei siti internet.


    Sto assistendo alla riemersione di un continente umano e politico che sembrava scomparso dal bianco marmoreo della nuova casa di Michelle. Non un’"altra America", come vogliono i luoghi comuni, ma un’America che ha combinato il messaggio e il messaggero in uno stesso uomo, l’unico simbolo che un immensa umanità ha individuato per uscire dall’incantesimo dei falsi "valori". Barack Obama ha incontrato i suoi fratelli di sangue impacciandosi sulla formula del giuramento quando il Presidente della Corte Suprema gli ha posposto la parola “fedelmente”. C’è stato un boato di commozione che ha fatto tremare anche qualche dirigente del Pd italiano già a cena da un pezzo.


    Ho vissuto una notte sbattuta tra la speranza americana e la disillusioni degli italiani che fanno i democratici in America perché vengono da un Paese che discute di Villari come baluardo della democrazia. Per tutti voi che l’avete visto in tv non sapete cosa vi siete persi.

     

    Pubblicato sull'Unità il 21 gennaio 2009