Articles by: Letizia Airos

  • Fatti e Storie

    Volete conoscere le delizie abruzzesi? Andate dove va Rosanna

    ENGLISH VERSION

    Rosanna torna. E questa volta l’aspetta una New York che un pò la conosce.  L’ho incontrata anch’io come tanti, qualche mese fa, quando con il sogno americano negli occhi ha cominciato a cucinare in giro per lo Stato di New York.

    I suoi piatti hanno catturato il palato di piccoli e grandi, di importanti personalità del mondo italiano e americano ma anche di gente che, in un mercato, in un negozio, ad un evento aperto al pubblico, ha avuto la fortuna di incontrarla.

    E una cosa è certa: chi l’ha conosciuta non può dimenticarla.
    Rosanna mi aveva contattato via facebook prima di venire. Ricevo tante richieste ma, confesso, la sua aveva qualcosa di più. Mi aveva colpito per la provenienza: da Vasto, il paese di mio padre.

    Quando si è presentata in redazione, con la sua colorata brochure ed il suo calore umano, poi ci ha conquistati un pò tutti, ancora prima di cucinare.

    Confesso quindi, di essere terribilmente di parte.

    Rosanna è arrivata determinata, con l’idea di far conoscere la sua regione attraverso la sua cucina.
    Il desiderio era quello di trasferire le grandi tradizioni culinarie della sua terra d'abruzzo, Vasto in particolare, oltre oceano. Per questo si è armata di grembiule per entrare in tutti i posti dove è possibile cucinare. Lo ha fatto con una carica difficilmente replicabile, spesso con un pizzico di sfacciataggine, ma sempre con grande passione e semplicità.

    ‘Ma chi è quella signora con gli occhiali ed il grembiule che si aggira di qua e di là?’  Se lo sono chiesto in molti. Per conoscerla non restava che assaggiare i suoi formidabili piatti preparati con la generosità di un’autentica cuoca che ama far scoprire i sapori della sua terra. Cucina semplice, con ingredienti scelti con cura, portati dall’Abruzzo ma anche raccolti a New York dopo lunghe esplorazioni per i suoi mercati.  Poi un grande amore in ogni dettaglio delle sue ricette.

    Proprio così. come si vede per fortuna nella sua terra, in quelle grandi cucine dove si usano ancora il tegame di terracotta, di rame e la brace.

    Rosanna cucina da Whole Food, da Di Palo, nella Marymount School, nel  Bronx, in tantissimi posti, in diverse case. Rosanna fa la spesa e corre ai fornelli.

    E’ un continuo passa parola tra dicembre e febbraio. La notizia rimbalza anche da facebook a twitter. I giornali abruzzesi cominciano scrivere di lei.

    Un giorno con la redazione decido di accompagnarla nel Bronx, dove realizziamo un video molto divertente (in fondo all'articolo). Rosanna conquista l’intero mercato con la sua simpatia, con i colori, i sapori ed i profumi dei suoi piatti, non parla inglese ma certo le non serve.

    Ho avuto la fortuna di spiarla in una cucina di un locale. Il suo modo di comunicare, anche con adetti ai fornelli spesso non italiani, è straordinario. Lei spiega tutto quello che fa. Dietro un dosaggio preciso delle sue ricette, prodotti di altissima qualità,  la necessità di farlo capire a tutti.

    Rosanna va via da New York gli ultimmi giorni di febbraio ma lo fa dicendo a tutti: torno!

    E nessuno ha mai avuto un dubbio al riguardo. Rieccola arrivare.

    Nei mesi passati in Italia non ha perso tempo. Si è organizzata.

    “Ho smontato l’Abruzzo” mi ha detto ”Sono andata ovunque, qualcuno mi ha accolto con gentilezza, qualcuno mi ha fatto proposte, qualcunaltro alcora mi deve ricevere,  ma io vado avanti lo stesso”. Certo l’Italia non è un Paese facile e soprattutto in un momento di crisi come questo,  è difficile trovare chi si imbarchi in nuovi progetti.

    Eppure Rosanna ci riprova. Rilancia l’associazione culturale “Abruzzo in tavola” che ha la sua stessa missione: quella di portare in giro per il mondo la cucina tipica abruzzese.

    E torna quindi con "l’Abruzzo Week” sponsorizzata da aziende abruzzesi che ha contattato lei stessa. Vuole portare una sorta di vetrina con diversi prodotti della sua terra.

    “L’intento è di unire aziende alimentari abruzzesi interessate a far conoscere i loro prodotti in America” ci dice. Ma sarà molto lunga questa settimana, visto che già si prospettano eventi fino a giungo.  “E’ vero ,è molto più di una settimana. Ci sto lavorando e ci saranno molte altre sorprese”.

    Per avere aggiornamenti – e sapere dove va Rosanna – rimanete in contatto con i-Italy, con la pagina facebook di i-italy e con il sito di Rosanna.

    Possono esserci novità e cambiamenti ogni giorno.

    Dunque siete pronti a conoscere l’Abruzzo in cucina? Ad assaggiare un brodetto alla vastese, la pasta alla hitarra, paccheri con carciofi e ricotta salata? E ancora tantissimi altri prodotti...

    Program:
    26/27       - The New Community College CUNY 
    April 29  -  DI PALO
    30 Aprile -  Madison Avenue
    May 2      - Enoteca DI PALO'S 
    May 3     - Italian Cultural Center(Westchester) 
    May 5    - LA VIA DEL GUSTO (Connecticut)
    May 10  -  CITY COLLEGE NY.

  • Dining in & out: Articles & Reviews

    Do you Want to Know the Delicacies of Abruzzi? Go where Rosanna Goes

    ITALIAN VERSION

    Rosanna is coming back. This time around New York knows her a bit more. I met her, as many other did too, a few months back when, with the American dream in her eyes, she was cooking her food around New York state.

    Her dishes have won the palates of young and old, of renown Italian and American
    personalities alike but also of those people who, at the market, in a food store or at an event open to the public, have been lucky enough to meet her.
    One thing's for sure: who has met her cannot forget her.

    Rosanna contacted me via facebook before coming here. I always get tons of requests but, I must confess, hers had something more... it really stood out. I was immediately captured by the place it was coming from: Vasto, my father's hometown.
    When she showed up at the office with her colorful brochure and that warmth she won us over, all of us, even before trying her food.  I must confess, then, that I am biased.

    Rosanna was really determined when she got here, with the idea to promote her region through her cooking. Her wish was, and still is, to pass along the great eating traditions of her Abruzzo. Of Vasto, most of all. That's why she, armed with her apron, was busy cooking all over the place. She did it with hardly replicable drive, often with a pinch of insolence, but always with great passion and simplicity.

    “Who is that woman wearing glasses and an apron that's walking around?” this is what people were wondering. The best way to get to know her was by tasting her amazing dishes, prepared with the generosity of a true chef who wants people to share the flavors of her hometown. 
    Her cuisine is simple, prepared with carefully selected ingredients, either brought directly from Abruzzi or selected here in New York during long exploratory trips in local markets. Her recipes feature great love for each and every detail, just like, fortunately, it still happens in the kitchens of Abruzzo where cooks still use terracotta or copper pots.

    Rosanna starred in demos at Whole Foods, Di Palo, the Marymount School, in the Bronx, and both public places and private houses. Rosanna went food shopping and then cooked. She found places to go to through word of mouth all through December and February. News about her suddenly showed up all over facebook and twitter. The newspapers of her region started featuring stories about her.

    One day I decided to go with my staff to the Bronx with her and we shot a real fun video. Rosanna seduced the whole market with her personality, the colors, the flavors and the scents of her food, even though she does not speak English. She doesn't need to.

    I was lucky enough to spy on her cooking in the kitchen of a restaurant. Her way of communicating with the kitchen staff, who often are not Italian, was extraordinary. She explained everything she does, step by step.  The secrets behind the success of her recipes are indeed a careful dosing, high quality products and the need to clarify everything that needs to be done.  

    Rosanna left New York at the end of February but with a promise: “I will be back!”
    Nobody doubted that. She is now coming back. While she was in Italy she had no time to waste, she got organized.

    “I took Abruzzo by a storm,” she tells me “I went all over the place. Some people welcomed me with kindness, others had some propositions, some others still have not agreed to meet me, but I keep going.” Sadly, Italy is not living through a fruitful economic moment right now and working on new projects is not an easy feat.

    But Rosanna is not giving up. She launches the cultural association “Abruzzo in tavola” with which she shares the same mission promoting the traditional cuisine of Abruzzo in the world.
    She is back with “Abruzzo Week,” a real feast sponsored by local Abruzzese producers she has contacted on her own. It will be a showcase of the various products of her homeland.  

    “My goal is to bring together those producers who want America to get to know their products,” she confesses. This week will be particularly long, considering that there are events planned through the month of June.  “It's true, it's much longer than a week. I am working hard and I have many surprises in store for you all.”

    For updates – and to know where Rosanna is going to be – check on i-Italy, on i-Italy's facebook page and on Rosanna's web site,  www.rosannacooking.com
    There could be news and last minute changes every day.

    So are you ready to get to know the cuisine of Abruzzo? To taste brodetto alla vastese (a seafood soup that was traditionally prepared on board Vasto’s fishing boats), pasta alla chitarra (homemade noodles that resemble guitar strings) , paccheri con carciofi e ricotta salata (oversized rigatoni served with artichokes and salted ricotta)? And much, much more.

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    Program:
    26/27       - The New Community College CUNY 
    April 29  -  DI PALO
    30 Aprile -  Madison Avenue
    May 2      - Enoteca DI PALO'S 
    May 3     - Italian Cultural Center(Westchester) 
    May 5    - LA VIA DEL GUSTO (Connecticut)
    May 10  -  CITY COLLEGE NY.

  • Life & People

    From Boat to Table with the Serafina Boys

    ITALIAN VERSION >>

    “Embark on an adventure,” they say in Italy. But it’s more than a saying for Vittorio Assaf and Fabio Granato, who are neither sailors nor explorers.

    This is about the well-known and now legendary owners of the successful restaurant chain Serafina. But only a few friends know that their American adventure began on a boat.

     I meet them together sitting at a table in their new restaurant Serafina Upper West. In a few days their next restaurant will open in New York and on April 17 Serafina Meatpacking will be christened. Joining us at the table is Alessandra Rotondi, their sommelier for several years.

     
    It was one of the most entertaining conversations I’ve ever had. Vittorio Assaf and Fabio Granato tell me much about their lives. Between one anecdote and the next, there is often confusion in the fun memories accompanied by their dishes speaking in with vivid colors, scents, and flavors.

    “This is restaurant magic. It’s a neighborhood for families so we are also invaded by little ones. The parents bring them. In the afternoon there is a very special atmosphere and I’m happy with that. They are our future customers. Then at night there are always more people.” Vittorio greets me with a very sweet smile from the other side of the table. Fabio, at first, is more detached, scrutinizing me.

    I ask them to tell me the story of the boat. Actually a catamaran. “It all started that day. We decided to go skydiving over the weekend. We went to Southampton, but after a day of class we were told it was too windy. We couldn’t launch then. Clearly,” jokingly observes Fabio, “Vittorio had no intention of doing it as soon as he saw the liability release he had to sign.”

    Vittorio interjects: “A tremendous thing! Sixty-four thousand pages that read. If you lose an ear you can’t sue, if you become brain damaged you can’t sue, if you die you can’t sue….”

    So, unable to skydive, they decided to rent a catamaran. “Vittorio, I don’t know anything about the sea,” I told him and he responded: “You don’t need to do anything. Don’t worry! We’ll get a sail boat and see where the wind takes us.”

    Where the wind takes us…. But the wind was too strong even for a boat. And shortly after in the water they, too, realized it. It was too late.

    “Our girlfriends left us,” Vittorio remembers, “so just the two of us set sail. After only ten minutes, the mast detached from the boat. It was about 50 knots of wind.”

    They are alone in the middle of the bay. Lights come on in the distant houses. It’s eight o’clock at night. No one sees them. No one comes to help.
     
    “The waves were very high. They couldn’t see us. We screamed in vain. At some point, to distract ourselves, we start talking about food. What we like. Pizza and pasta. Our girlfriends, now at home, not seeing us come back, who knows, maybe they thought we found someone else! A long time passes and we decide: if we come out alive, we will invent pasta and pizza that does not exist in New York!”

    Only much later did the girls realize their prolonged absence. They call 911 and a helicopter sighted them at around two o’clock in the morning. They come home shivering but safe. And then they must realize what they promised. “We immediately started to look for the location, opening a year later on July 17 in ’95.”
     

    They share so many anecdotes between one delicacy and the next. Unfortunately I cannot recount them all, but I came back home laughing to myself.
     
    Vittorio: “So we saw what others could not see yet. Nobody believed in our project. Our friends, rich and poor, they said: What made you think of opening a restaurant? And on the second floor? You’re throwing money away!”
     
    Fabio: “Our own families didn’t support us. I'll always remember a fat American who said to me one day: Who the fuck do you think is gonna come upstairs? But then he apologized to me, after we had just opened the restaurant and he saw the line to get in.”

     
    I try to understand, to uncover a few secrets from these restaurateurs who have already opened many restaurants and not just in New York.

    “It’s been a combination of elements right from the start,” says Vittorio. “The energy, the décor, but mostly I repeat what we invented – an industry that was not there before.”

    There were stiff, luxury Italian restaurants, and there was nothing else. There was nothing in between. We decided to change the way New Yorkers eat. We found a niche with the slogan: ‘Welcome home.’ People had to feel good and the prices had to be fair. An example today? Penne with vodka for $10. It costs you less to eat here than to cook at home! You have to buy De Cecco penne, then parmigiano reggiano, then Sicilian sea salt, then vodka, then the real Sammarzano tomatoes from Naples….”

     
    “We are open 7 days a week. With 1,500 employees we feed 5,000 to 6,000 people a day.”
     
    A success story. They opened many other restaurants since the first. A few of the names: Serafina Fabulous Grill, Serafina Osteria, Serafina Broadway, Serafina at The Time Hotel, Serafina East Hampton, Serafina Philadelphia, Serafina White Plains, Serafina Upper West, and Serafina Sao Paulo in Brazil. And then others that don’t serve Italian cuisine: Geisha Brasserie and Cognac.

    Here’s another anecdote. The restaurant Serafina 61 was originally called Sofia. It was the name of an ex-girlfriend who he hoped would come back. “Yes, he captured the romantic side of people. There was a line to get in, but there was always one empty table. People knew that he expected Sofia. Sofia never came back!”
     
    And to change the name of the restaurant they held a very successful contest. “Yes, it was a great advertising campaign. And our new name came out: Serafina. This got us three pages in the New York Times. It was ’98!” 

    The courage and the thrill of exploration. Even restaurants inspired by Japan and France are a success. There, the Italian eye suggests other cuisines with subtlety. Even the restaurant Serafina Upper West has a small room is devoted to Asian cuisine. Here I tasted a curious but amazing sushi with truffle. I recommend it to everyone.
     
    So tradition but also taste, sometimes gone a bit crazy with experimentation. “We're opening Serafina Meatpacking and we came up with a menu just for adults. You must be at least 21 years old to order. It’s based on tequila.”
     

    Alessandra Rotondi adds to the chatter and tells us how she met them at the Fancy Food Show. “I knew them by reputation; I wrote about them while I was in Italy before even meeting them. I was excited, but we quickly hit it off and they asked me to work with them as a sommelier. We have to open Cognac,” they told me. “Come with us!”
     
    Vittorio explains, in front of me, to a co-worker that there is too much sauce on the carpaccio. I ask him about his passion for cooking. “It comes from my grandmother. Every Wednesday we had company at home. They were intellectuals and artists. At four years old I knew how to make pizza, and at eight years old sea bass.”
     
    It’s not the same for his friend who admits to not being much in the kitchen: “I like to taste! And I’m also very critical. I like to have fun  in the kitchen but I also have a sense of taste, of flavors.”
     
    “He’s the critic and I’m the cook! I’m crazy sometimes. I come up with menus that are neither in heaven nor on earth,” says Vittorio.

    I try to steal a few more secrets. A comfortable environment. The right price. And what else?

     
    “The quality of the ingredients that did exist when we opened. The simplicity that is not so easy to capture. The flavors all have to balance. Even desserts, which are often too sweet. One thing flows from the other. “Seeing is believing,” says Vittorio. “No compromise; quality always. The buffalo mozzarella comes from Caserta the same day it is produced and is on the table that evening. And so it is for other products. The flavor must remain in the throat, mouth. If it succeeds, the product becomes the most extraordinary sensation of your life. All this in a place that should be an extension of your home. The locations are all magical. They feature frescoes by Michela Martello so they are all special.”"
     
    They will also open in Tokyo, then in Brazil and Russia. I ask them how they plan to keep the original spirit as they continue to expand. There is always the risk of losing control over quality and customer relations.
     

    “The secret is in the training we do. It lasts three months with only five people in the kitchen. After they have prepared 300 pastas and 500 pizzas a day, then they can cook with their eyes closed.”
     
    It still seems like I’m talking to those two foolish guys who rented a boat on the wrong afternoon. Yet their success is no joke. They have become famous thanks to the presence of so-called celebrities at their restaurants. Many articles and photographs recount these visits along with celebrity gossip. Lady Gaga and Tom Cruise are among the many superstars who have visited.

    And yet it doesn’t seem like success has gone to their heads. “For us, every day is like the first day. With every restaurant we open we are as excited as if it were the first. We like it, even though we are a bit crazy! It's fun. We try to convey the excitement. Many have worked with us for over 10 years.”

    Fabio Granato: “I don’t think I’ve changed. We’re the same. There was a moment when we didn’t have money to buy dishes. Near the opening the façade needed to be repaired and no one wanted to give a loan. We were very inexperienced, and in the lease it said that we were responsible for everything. Even events like this.”
     
    Vittorio Assaf: “We’re the ones who, for the oven, brought back lava from Vesuvius in our suitcases and salt from Sicily to absorb moisture from pizza in the oven.”
     

    “Sometimes really comical things happen around here,” says Fabio, who along with Vittorio continues to share stories….
     
    “You have 110 people who work together but who don’t necessarily love each other. This is the toughest job in the world. The same exact dish can turn out quite differently. Anything goes.”

    And there’s the old woman who slaps you because her diabetic husband receives the wrong order because the waiter delivered it to the wrong table. Then there’s the woman with her boa on fire because of a candle and it’s saved by mineral water. There’s the woman who complains with the cane that belongs to her blind husband.  
     

    At the end, I spontaneously ask them what they will be when they grow up. Vittorio wants to open a restaurant in his native Milan. It’s just the opposite for Fabio. “We can’t talk about that part of Italy. One thing is ‘certain,’” says Fabio still joking: “I want to produce a movie and Vittorio will play the lead.”

    The film, I think, is the one I just saw.

  • Fatti e Storie

    Da una barca a tavola, con i Serafina Boys

    ENGLISH VERSION >>

    “Imbarcarsi in un’avventura” si dice in Italia. E’ un modo di dire più che indovinato per Vittorio Assaf e Fabio Granato, che però non sono nè marinai nè esploratori.

    Si tratta invece degli ormai ‘leggendari’, e molto noti nell’ambiente, proprietari della fortunata catena di ristoranti Serafina. Ma pochi amici sanno che la loro avventura americana è cominciata in barca. La loro è una storia che va raccontata.

    Li incontro insieme, nel migliore dei posti, seduta ad un tavolo del loro nuovo locale Serafina Upper West.  – fra pochi giorni il penultimo ristorante aperto a New York. Il 17 aprile viene battezzato infatti Serafina Meatpacking. Al tavolo con noi anche Alessandra Rotondi, loro sommelier da diversi anni.
     

    E’ una delle conversazioni più divertenti che abbia mai avuto. Vittorio Assaf e Fabio Granato mi raccontano molto della loro vita. Tra un annedoto e l’altro, spesso tanta divertente confusione nei ricordi, i loro piatti parlavano a loro volta con colori, profumi, sapori.

    “E’ un ristorante magico, questo. E’ una zona per famiglie e siamo invasi anche da piccolissimi. I genitori li portano. Nel pomeriggio c’è un atmosfera molto particolare ed io sono felice che sia così. Sono loro i nostri futuri clienti. Poi ogni sera abbiamo sempre più gente.” Vittorio mi accoglie con un sorriso molto dolce, dall’altra parte del tavolo, Fabio che all’inzio è più distaccato, mi scruta.
     

    Ma mi faccio subito raccontare la storia della barca. Ovvero del catamarano.

    “E’ nato tutto quel giorno. Avevamo deciso di fare del parachuting nel fine settimana. Siamo andati a Southampton ma dopo una giornata di lezione ci hanno detto che c’era troppo vento. Non potevamo lanciarci quindi. Chiaramente – osserva scherzando Fabio – Vittorio non aveva alcuna intenzione di farlo fin da quando aveva firmato impaurito le liberatorie da ogni responsabilità”.
     

    Vittorio interviene: “Una cosa tremenda! 64 mila pagine con scritto: se perdi l’orecchio non ci denunci, se diventi scemo non ci denunci, se muori non ci denunci…”

    Così, non potendo paracadutarsi, decisero di affittare un catamarano. “Vittorio, io non so niente del mare – gli dissi  – lui mi rispose: non devi fare niente, stai tranquillo! Prendiamo una barca a vela e vediamo dove ci porta il vento”

    Dove ci porta il vento…. Ma il vento era troppo forte anche per una barca. E poco dopo in mare se ne sono resi conto. Troppo tardi.
     

    “Le nostre ragazze ci abbandonano– dice Vittorio – siamo partiti noi due.  Dopo solo dieci minuti si stacca l’albero della barca. C’erano 50 nodi di vento. “
     

    Rimangono da soli in mezzo alla baia. In lontananza le luci si accendono nelle case. Si fanno le 8 di sera. Non li nota nessuno. Nessuno viene ad aiutarli.
     

    “Le onde erano altissime. Non ci vedevano. Urlavamo inutilmente. Ad un certo punto per sdrammatizzare ci mettiamo a parlare di cibo. Di cosa ci piace. Di pizza e pasta. Le fidanzate, ormai a casa, non vedendoci tornare, chissà, pensavano che forse avevamo trovato delle altre! Passa tanto tempo e noi decidiamo: una volta usciti vivi avremmo inventato la pasta e la pizza che non c’era a New York!”
     

    Solo molto tardi le loro ragazze si rendono conto dell’assenza prolungata. Chiamano il 911 ed un elicottero li avvista verso le 2 di notte. Tornano a casa infreddoliti ma salvi. Devono realizzare quanto si sono promessi. “Abbiamo cominciato subito a cercare la location, l’apertura un anno dopo:  il 17 luglio del '95 .”
     

    Gli aneddoti che raccontano tra una prelibatezza e l’altra sono tantissimi. Purtruppo non posso raccontarli tutti, ma sono tornata a casa ridendo fra me e me.
     

    Vittorio: “Abbiamo visto allora quanto nessuno ancora vedeva. Nessuno credeva nel nostro progetto. I nostri amici, poveri o ricchi, dicevano: ma cosa pensate di fare, un ristorante? E poi al secondo piano? Buttate i soldi!"
     

    Fabio: “Le nostre stesse famiglie non ci appoggiavano. Poi mi ricorderò sempre un signore ciccione americano che un giorno mi disse: Who the fuck do you think is gonna come upstairs?  Ma poi mi ha chiesto scusa, appena aperto il ristorante, quando ha visto la coda”.
     

    Ma cerco di capire, di carpire qualche segreto da questi ristoratori che hanno ormai aperto tantissimi ristoranti e non solo a New York.
     

    “E’ stata fin dall’inzio una combinazione di elementi – dice Vittorio – l’energia, il décor,  ma soprattutto ripeto abbiamo inventato un’industria che allora non c’era.

    Esistevano infatti ristoranti italiani stiff, di lusso e poi non c’era niente. Ovvero non una via di mezzo. Abbiamo deciso di cambiare il modo di far mangiare. Abbiamo trovato una nicchia con lo slogan: ‘Benvenuti a casa’. La gente si doveva sentire bene e  doveva pagare il giusto.

    Un esempio oggi? Penne alla vodka a 10 dollari. Ti cosa di meno mangiarle qui che cucinarle a casa! Devi comprare le penne De Cecco, poi il Parmigiano Reggiano, poi il Sale marino sicilano, poi la Vodka, poi il Vero pomodoro Sammarzano di Napoli….”
     

    “Siamo aperti 7 giorni alla settimana. Con 1500 dipendenti diamo da mangiare a 5000-6000 persone al giorno” .
     

    Una storia di successo. Sono nati poi molti altri ristoranti. Un po' di nomi: Serafina Fabulous Grill, Serafina Osteria, Serafina Broadway, Serafina at The Time Hotel, Serafina East Hampton, Serafina Philadelphia, Serafina White Plains, Serafina Upper West and Serafina Sao Paulo in Brazil.  E poi altri  non solo di cucina italiana: Geisha Brasserie e Cognac.

    Ma ecco un altro aneddoto. Il locale Serafina 61 prima non si chiamava così ma Sophia. Era il nome di una ex fidanzata che si sperava tornasse. “Sì, ha catturato il romanticismo della gente. C’era la coda ma un tavolo era sempre vuoto. La gente sapeva che si aspettava Sophia. Sophia non è mai tornata!”
     

    E per cambiare nome al ristorante hanno fatto un concorso molto fortunato. Ancora una volta un successo: “Sì una grande pubblicità. E’ uscito il nome nuovo: Serafina. Tutto questo ci ha procurato tre pagine sul New York Times. Era il '98!”
     

    Il coraggio ed il gusto dell’esplorazione. Anche i ristoranti ispirati al Giappone e alla Francia sono un successo. Lì l’occhio italiano velatamente presente propone altre cucine. Anche al ristorante Serafina Upper West una piccola sala è dedicata alla cucina orientale. Qui ho assaggiato un curioso ma straordinario sushi al tartufo. Lo consiglio a tutti.
     

    Dunque tradizione ma anche il gusto, a volte un po' folle, della sperimentazione.

    “Stiamo aprendo Serafina Meatpacking e ci siamo inventati un menù solo per maggiorenni. Occorrerà avere 21 anni per ordinarlo. E’ a base di Tequila.”
     

    Alessandra Rotondi assiste alla chiacchierata e ci racconta come li ha incontrati al Fancy Food Show. “Li conoscevo di fama, avevo scritto su di loro mentre ero in Italia ancora prima di conoscerli. Ero emozionata, ma si è creata subito empatia e mi hanno offerto di lavorare  da loro come sommelier. Dobbiamo aprire Cognac – mi hanno detto – vieni da noi!”
     

    Vittorio spiega, davanti a me, ad un collaboratore che c’è troppa salsa sul carpaccio, gli chiedo da dove nasce questa passione per la cucina. “ Da mia nonna. Tutti i mercoledi aveva gente a casa. Erano intellettuali, artisti. A 4 anni sapevo fare la pizza e ad 8 il branzino. “
     

    Non è lo stesso per l’amico che confessa di non essere un granchè ai fornelli: “Mi piace assaggiare! E sono anche molto critico. Io in cucina faccio solo baldoria ma ho il senso del gusto, dei sapori”.
     

    “Lui mi fa da critico ed io cucino in sostanza! Io sono matto a volte me ne esco con dei menù che non stanno nè in cielo nè in terra”, dice Vittorio.
     

    Ma cerchiamo di carpire ancora qualche altro segreto. L’ambiente familiare. Il prezzo giusto e poi?
     

    “La qualità degli ingredienti che non esisevano ancora quando abbiamo aperto. La semplicità che non è tanto facile. Tutti i sapori si devono bilanciare. Anche i dolci che spesso sono troppo dolci. Questi sono come patatine qui. Uno tira l’altro. Provare per credere. – dice Vittorio – Nessun compromesso da sempre sulla qualità. La mozzarella di bufala viene da Caserta lo stesso giorno che viene prodotta ed è sul tavolo la sera. E così per altri prodotti. Il sapore deve rimanere in gola, in bocca. Se succede il prodotto diventa una dimensione straordianria della tua vita.
     

    Tutto questo in un posto che deve essere l’estensione della tua casa. Le location sono tutte magiche e poi ci sono gli affreschi di Michela Martello che sono speciali.”
     

    Apriranno anche a Tokio, poi in Brasile ed in Russia. Gli chiedo come pensano di mantenere lo spirito originario a cui dicono di tenere tanto espandendosi così. C’è il rischio di perdere il controllo sulla qualità ed il rapporto con i clienti.
     

    “Un segreto è nel training che facciamo. Dura 3 mesi con solo 5 persone in cucina. Dopo che hanno preparato 300 paste e 500 pizze al giorno cucinano anche ad occhi chiusi.”
     

    Sembra di parlare sempre con quei due ragazzi un po' balordi che hanno preso la barca nel pomeriggio sbagliato. Eppure il loro successo non è un gioco.  Sono diventati famosi anche grazie alla presenza nei loro locali delle cosidette celebrities. Tantissimi gli articoli, le foto che raccontano queste visite e spesso anche gossip. Tra i tanti divi Lady Gaga e Tom Cruise.
     

    Eppure non sembra si siano montati la testa.

    “Per noi ogni giorno è come il primo giorno. Ogni ristorante che apriamo siamo eccitati come se fosse il primo. Ci piace, anche se siamo un po' fuori di testa! E’ divertente. Cerchiamo di trasmettere l’entusiasmo, molti lavorano con noi da oltre 10 anni."
     

    Fabio Granato:  “Io non credo di essere cambiato.  Siamo gli stessi. C’è stato un momento che non avevamo i soldi per comprare i piatti. Vicino all’apertura si era rotta la facciata e nessuno ci voleva dare un prestito. Noi eravamo proprio inesperti e nel lease c’era scitto che eravamo responsabili di tutto. Anche di eventi come questo”.
     

    Vittorio Assaf : “ Siamo quelli che per il forno hanno portato in valigia la lava del Vesuvio ed il sale della Sicilia per assorbilre l’umidità della pizza nel forno. “
     

    “A volte qui succedono delle cose veramente comiche – dice Fabio che insieme a Vittorio continua a raccontare…
     

    “Hai 110 persone che lavorano insieme e non necessariamente si amano . Questo è il lavoro più difficile del mondo. Ogni piatto  poi può uscire diverso. Succede di tutto”.
     

    E c’è la vecchietta che ti picchia perchè il marito diabetico riceve il cibo sbagliato a causa del cameriere che sbaglia il numero dei tavoli. C’è la donna con il boa che prende fuoco per colpa di una candela e viene salvata con l’acqua minerale. C’è la signora che protesta con il bastone del marito cieco…
     

    Alla fine viene spontaneo chiedergli cosa faranno da grandi. Vittorio vuole aprire un ristorante nella sua Milano. Fabio è contrario “Non se ne parla in quell’Italia”. Una cosa è ‘certa’, la dice ancora scherzando Fabio: “Io voglio produrre un film e Vittorio sarà il mio protagonista!”. Io il film credo di averlo già visto.

  • Life & People

    Colavita. An Italian Success Story Across Generations

    ITALIAN VERSION >>

    Sant’Elia Pianisi, in the province of Campobasso, 1935. Four generations ago. In Molise a company is born, one that is dedicated to olives and oil production. It’s a small family business but soon it becomes vital to the local economy.
     

     But the real breakthrough came in the mid-1970s when the founders’ sons, Enrico, Leonardo, and Giovanni begin mass producing extra virgin olive oil under the brand name Colavita.

     
    This was at a time when we didn’t know about the benefits of the Mediterranean diet but the Colavitas predicted the return to a healthier lifestyle, one that’s immediately recognizable and appreciated. Their products are based on quality, local agricultural production, and authenticity.
     

    Colavita began to soar, opening a factory in Campobasso. And that was only the beginning. Today the company, which is still only produces oil, has a sales network that spans the world, from Europe to the U.S., Canada, Australia, Japan, and South America. The Colavita brand is present in 72 countries.
     

    It takes an understanding of the company’s history to better appreciate the emotion on the faces of the Colavita heirs at the opening of their new facility in New Jersey, with a huge Italian flag flying over the entrance.

    The pride of their heritage was reflected in their features and boasted the satisfaction of people who have devoted a lifetime to their values. And the overall sense—which isn’t always the case when dealing with business people—was that it wouldn’t be hard to imagine them with their sleeves rolled up, working in the fields from where their products come.

    Their faces are friendly and open but firm, carrying the expression of a successful family business. “We had to work hard during very difficult times; when we arrived the general public didn’t know anything about extra virgin olive oil,” explained Enrico Colavita, who founded Colavita USA in 1978 with his local partner John Profaci.

    “When good people find good things, this can happen. It happened 32 years ago when I met Enrico.” Profaci said. Now part of the Colavita family, Profaci was crucial to their success in the U.S. “’I would like to sell my oil in the U.S. Let’s try and see if I can sell it,’ I said.”

    He told us about their early start: “First we gave demonstrations in stores, then in restaurants with Italian chefs. This was what they were looking for: quality and taste.”

    He reveals a secret to their initial marketing: “Trends in this country do not start in supermarkets but in restaurants.”
     

    “We struggled because at the time the Mediterranean diet was not well-known in America,” Profaci continued. “We had to explain to Americans that extra virgin olive oil was considered a product for the elite."
     

    His conclusion captures his sense of satisfaction: “We are still the only Italians who distribute olive oil throughout the entire country. Giovanni Colavita was two years old when he met me and today he’s my boss!” Profaci said, referring to the young CEO.
     

    We then entered the facility that was festively decorated and full of people who came to celebrate.

    The atmosphere was that of a big, popular festival, with the best food and smiling faces. As with all important occasions in an Italian village, the priest gave a blessing, Mayor Antonia Ricigliano said a few words, and there were appearances by Italian dignitaries such as Consul General Natalia Quintavalle and Deputy Consul Lucia Pasqualini of New York, and Consul Andrea Barbaria of New Jersey.
     

    At the ribbon cutting ceremony, every generation of Colavita, including the youngest heir, was attentively listening to every word of the presentation.
     

    At the microphone, Enrico Colavita, obviously moved, discussed the Italian family company that is rising to the challenges of a global market despite the economic crisis and competition.
     

    Consul General Natalia Quintavalle reiterated the company’s success with the hope that “more Italian companies will follow the example of Colavita, and we thank them for bringing an excellent product to the United States.”
     

    Antonia Ricigliano, Italian-American mayor of Edison, presented a proclamation to the Colavita family which declared March 30, 2012 as Colavita Extra Virgin Olive Oil Day.
     

    We interviewed Mayor Antonia Ricigliano, a third generation Italian American whose relatives were originally from the Sicilian province of Enna. Ricigliano recalled her mother in the kitchen, her parents who spoke Sicilian. “I continue to cook Italian as well, and I’m proud. I love to make lasagna, ravioli, ragù. I do not speak Italian, but I understand it!”
     

    She also remembers when, 15 months ago, Colavita and Profaci met with her to talk about the plant and how she was immediately happy to welcome them to her city with 20, 000 Italian-American residents.
     

    “Today is a beautiful day for all the people who work here and we celebrate the family that works together. This is what the Italian people should do: begin with the family.”
     

    We toured the entire facility with Giovanni Colavita, the young CEO of Colavita USA, who described in detail the activities that take place here. He told us about a typical day of work, among offices, machinery for bottling oil, warehouses for storage, deliveries, sorting, and shipment of merchandise.

    Over 65,000 square feet are dedicated not only to Colavita products, but also to other Italian products sold in the United States. Colavita has exclusive rights to import, distribute, and promote brands such as Perugina Baci, Cirio, and San Benedetto.

    Giovanni Colavita pointed out that in a sense the space looks to the future since it’s designed to encourage further expansion. He mentioned the recent success of the collaboration with the Shop Rite supermarket chain. “We are the most distributed pasta and they have doubled their sales.”

    After our tour with Giovanni, Enrico Colavita told us: “The nice thing is that young people want to continue to promote our products and Italian products in general. And we don’t know what jealousy is; we are friends with our competitors.”
     

    At the end of the story of this inauguration, we should also mention another Colavita gem: the Colavita Center for Italian Food and Wine at the prestigious Culinary Institute of America. “It was created to transmit knowledge of traditional and original Italian products to the new generation,” said Profaci. “We also offer scholarships to assist students with interests in Mediterranean cuisine.”
     

    One of the keys to Italian success in the world is to know how to use tradition, enhance it, and export it while not overlooking modern innovation. Colavita has been able to do this by focusing on its own family and capitalizing on its strengths, from generation to generation, and investing in young people.

    



  • Fatti e Storie

    Colavita. Un successo tutto italiano di generazione in generazione

    ENGLISH VERSION >>

    Sant'Elia a Pianisi, Provincia di Campobasso, 1935. Quattro generazioni fa. In terra molisana nasce un’azienda che si dedica agli ulivi e alla produzione dell’olio. E’ una piccola realtà a conduzione familiare, ma presto diventa importante per l'economia del territorio.
     

    Ma la vera svolta è quando i figli dei fondatori, Enrico, Leonardo e Giovanni, a metà degli anni’70 avviano la commercializzazione dell’Olio Extra Vergine di Oliva con il marchio “Colavita”.
     

    Sono anni in cui ancora non si parla molto di dieta mediterranea ma i Colavita anticipano uno stile di vita sano, subito apprezzato e riconosciuto. I loro prodotti si basano su qualità, produzione agricola  locale, genuinità e autenticità.
     

    “Colavita” spicca il volo, viene aperto uno stabilimento a Campobasso. E’ solo l’inzio. Oggi l’azienda, che non si occupa più solo di olio, ha una rete commerciale che attraversa  tutto il mondo, dall’Europa agli Usa, Canada, fino all’Australia, Giappone e Sud America. Il Brand Colavita è presente in 72 paesi .
     

    E ci vuole anche un po' di questa storia  per riuscire a raccontare e capire l’emozione che abbiamo colto nei volti degli eredi Colavita all’apertura del loro nuovo stabilimento nel New Jersey, con una enorme bandiera italiana che sventola sul piazzale d’ingresso.
     

    Abbiamo visto volti con l’orgoglio delle proprie origini raccontato nei lineamenti, che narrano la soddisfazione di persone che hanno speso una vita intera  per quello in cui hanno creduto. E la sensazione - non sempre presente quando si ha a che fare con imprenditori - era che non sarebbe stato difficile immaginarli con le maniche rimboccate a lavorare loro stessi, in quei campi da cui provengono i prodotti.
     

    Visi aperti, accoglienti, ma fermi, espressione di un sana imprenditoria familiare. `

    “Abbiamo dovuto lavorare molto, in tempi difficili, quando siamo arrivati non si conosceva l’olio d’oliva exatravergine"  ha spiegato Enrico Colavita  che ha fondato Colavita Usa nel 1978 con il partner locale, John Profaci.
     

    “Quando la brava gente incontra buone cose, questo può succedere. E’ accaduto 32 anni fa quando ho incontrato Enrico” ha detto Profaci, ormai parte della famiglia Colavita, persona fondamentale per il loro successo negli USA.   "'Vorrei vendere il mio olio negli USA’ mi disse.  'Proviamo e vediamo se posso venderlo’, ho detto".
     

    E ha raccontato come hanno cominciato : “Prima dimostrazioni nei negozi, poi nei ristoranti con chef italiani. Questo era quello che loro cercavano. Qualità e gusto".
     

    Svela anche uno dei segreti del loro marketing iniziale: “ I trend in questo Paese non cominciano nei supermercati ma nei ristoranti”.

    “Abbiamo faticato perché allora la dieta mediterranea non era ancora diffusa in America”, continua John Profaci. “Abbiamo dovuto spiegare agli americani l’olio extravergine che era considerato solo un prodotto di élite”.
     

    La sua conlcusione racchiude tutta la sua soddisfazione: “Noi siamo ancora gli unici italiani a distribuire su tutto il territorio nazionale l’olio d’oliva. Un business di famiglia, Giovanni Colavita aveva 2 anni quando incontrai Enrico, e ora lui è il mio boss!” dice rivolgendosi al giovane CEO.
     

    Siamo così entrati in uno stabilimento decorato a festa, pieno di persone accorse per festeggiare. L’atmosfera era quella di una grande festa popolare, con il miglior cibo e sorrisi sui volti di tutti. C’erano, come in tutte le occasioni importanti in un paese italiano, il sacerdote per la benedizione ed  il sindaco del luogo Antonia Ricigliano, oltra alla presenza delle istituzioni con il console generale Natalia Quintavalle,  il Console Aggiunto Lucia Pasqualini di New York,  ed il console Andrea Barbaria del New Jersey.
     

    Al taglio del nastro tutte le generazioni dei Colavita fino al piccolissimo erede, concentratissimo e attento ad ogni parola della presentazione.
     

    Al microfono il presidente Enrico Colavita, con evidente emozione,  ha raccontato l’impresa di una famiglia italiana che affronta le sfide del mercato globale, nonostante la crisi economica e la concorrenza.
     

    Il console Generale Natalia Quintavalle ha ribadito il successo dell’azienda con l’auspicio che  “Altre società italiane seguano l’esempio di Colavita, che ringraziamo per avere portato un prodotto eccellente negli Stati Uniti”.
     

    Antonia Ricigliano,  sindaco di Edison, italo-americana, ha consegnato alla famiglia Colavita una proclamation dove viene dichiarato il 30 marzo "Colavita Extra Virgin Olive Oil Day.
     

    Di terza generazione, di origine siciliana, della provincia di Enna, intervistata da noi, Antonia Ricigliano ha ricordato la madre ai fornelli, i suoi genitori che parlavano in siciliano. “Continuo a cucinare italiano anch’io, e ne vado orgogliosa. Amo preparare lasagne, ravioli, il ragù. Non parlo italiano ma lo capisco!”.
     

    Ci ha ricordato anche di quando, 15 mesi fa, si presentarono da lei Colavita e Profaci per parlarle dello stabilimento e  di come fu subito felice di accoglierli nel suo Comune con almeno ventimila italo-americani residenti.
     

    “Oggi è un giorno bellissimo anche per tutte le persone che lavorano qui e celebriamo la famiglia che lavora. Questo è quello che la gente italiana deve fare: partire dalla famiglia.”
     

    Abbiamo visitato l’intero stabilimento con Giovanni Colavita, il giovane CEO di Colavita USA, che ci ha descritto nei minimi particolari le attività  che si svolgono.  Ci ha raccontato con particolare efficacia alcuni momenti di una giornata lavorativa lì, tra uffici, macchinari per imbottigliare l’olio, magazzini per conservare, arrivi, smistamento e partenza delle merci.
     

    Si tratta di 20 chilometri quadrati dedicati non solo ai prodotti Colavita, ma anche ad altri generi di consumo italiani negli Stati Uniti. Colavita ha infatti l’esclusiva per l’importazione, distribuzione e promozione di marchi come Perugina Baci, Cirio, San Benedetto.

    Giovanni Colavita ha tenuto a precisare che lo spazio in certo senso guarda al futuro,  è studiato infatti per favorire un’ulteriore espansione dell’attività.  Ha detto, tra l’altro, del recente successo della collaborazione con la catena Shop Rite. “Siamo la pasta più distribuita e loro hanno raddoppiato le vendite.”

    Enrico Colavita ci dirà poco dopo la nostra escursione nello stabilimento con Giovanni: "La cosa bella è che i giovani vogliono continuare a promuovere i nostri prodotti e quelli italiani in genere. E noi non sappiamo cosa sia la gelosia, siamo amici dei nostri competitors".
     

    Al termine del racconto di questa inaugurazione crediamo sia importante ricordare un altro fiore all’occhiello  dell’azienda. Si tratta del Colavita Center for Italian Food and Wine, presso il prestigioso Culinary Institute of America.  “E’ nato per trasmettere la conoscenza delle tradizioni e prodotti originali italiani alle nuove generazioni – ci ha detto Profaci – e ha anche una scholarship per assistere finanziariamente studenti con interessi nella cucina mediterranea.”
     

    Una delle chiavi del successo italiano nel mondo è quella di saper usare la tradizione, valorizzarla ed esportarla, non dimenticando le innovazioni. Colavita ha saputo farlo e lo ha fatto puntando sulla propria famiglia e la trasmissione di compentenze, di generazione in generazione, scommettendo sui giovani.

    



  • Facts & Stories

    Everyone with Angelique Kidjo. With her Africa.

    Everyone is on their feet – people of every age, ethnicity, race, religion, and status. Everyone jumps up to dance, cradled by the voice of Angelique Kidjo. It was not in a concert hall or at a stadium, a park, or even in a public square. It was inside the historic hall of the General Assembly at the United Nations. Many people in the audience must have asked themselves the other night: What if there was this kind of festive atmosphere at the Glass House more often? It would no doubt be beneficial.

    Angelique is a true force of nature. She blew everyone away with a musical mashup of reggae, gospel, jazz, and Afrobeats, demonstrating once again that music has no one language. It’s a language which unites everyone and everything.

    “Raise Your Voice to End Female Genital Mutilation” was the title of the event, a concert sponsored by the Permanent Mission of Italy to the United Nations, in collaboration with UNICEF and UNFPA to raise awareness about this important issue.

    I was there, among so many others, sitting and then standing, jumping, and listening after attending the press conference with Italian Minister Elsa Fornero and Angelique Kidjo. After watching a video and, of course, hearing the speeches by the women, I was proud – I confess! – to finally see two women who represent me.

    I impulsively wrote on Facebook: Happy as a woman first, then as an Italian. Someone in my thread added: “I’m not Italian, but as a woman I felt proud.”

    As soon as Angelique began to sing, I regret that I didn’t bring a camera to record the performance. It was a concert unlike any other. Luckily it was broadcast live by the U.N.’s webcast (and carried as well by i-Italy), and you can see it again by clicking here. But recording her as she danced among the people would have captured the intensity of the concert. It was an event that deserved a different perspective. So at this point I can only use my words to describe a memorable and emotional evening.

    Angelique Kidjo is originally from Benin in West Africa. She is a Grammy award-winning singer and a Goodwill Ambassador for UNICEF. She can not only sing and dance but also knows how to touch the audience with her words. She practically conducted the press conference, where I saw Minister Fornero act as her straight man, gently and voluntarily allowing her to take over.

    Her words were effective because they were to the point especially when responding to reporters, but during the concert her words were given their natural outlet. From the very first notes, her voice, full of both the good and bad of Africa, shook the huge hall at the United Nations. Her fluid gestures and impressive physicality lured the crowd to its feet and urged audience members to get up and dance, even those who appeared reserved and unassuming.

    Besides fighting for a cause and speaking out against female genital mutilation, Angelique has also witnessed the pride of being a woman. She’s done this, I think, by closely observing everything around her, despite the difficulties on her continent.

    She’s one example (and there are so few portrayed in the media) of a woman who lives without compromise in a world full of superficial images of women. How different she is from so many other singers and dancers! Let’s not even mention starlets, show girls, and reality TV stars. She embodies a great message of simplicity and elegance. It makes you reflect on the fact that, even in this day and age of globalization, she is from Africa.

    She is an alternative to so many Western clichés – the stereotypical image of a woman that still seems to be a role model for so many, especially young people.
     
    “When I saw that the barbaric practice of female genital mutilation was a problem that even plagued European countries, a warning bell rang inside of me. I had to do something,” Angelique told reporters from around the world. She did so by investing in the cause – as we have seen – and by testifying to the pride she feels for her continent in order to get approval for a U.N. resolution against this practice.

    She comes from a poor family of ten children. But the few references to her father and mother in her speech allowed a sense of great richness to permeate her life – it comes from wisdom that is priceless. It is wealth that stems from dignity, work, helping others, and a sense of responsibility. And it comes from the music – authentic music that not only sells records but that overcomes barriers – that lives inside her.

    Petite Fleur is the title of a song she performed at the concert that encompassed the most moving moment. Angelique said that she sang for her father, and dedicated it to all the little girls who suffered from genital mutilation. 

    I’m speaking less about Minister Fornero and yet I’m sure that she won’t be offended. In recent days the spotlight has been focused squarely on her, and her statements have been quoted everywhere. 

    Seeing her in New York, up close, Minister Fornero has presided over the last few days at the U.N. with intelligence, professionalism, seriousness, and without excessive grandstanding. As I attended the press conference at the U.N., I felt a strong need and desire to pay close attention. A few days before International Women’s Day (and also the inevitable rhetoric that it bring after so many years), I carry this overwhelmingly positive feeling with me. I certainly tried to do so at other times, for example with Emma Bonino, but the fact that Elsa Fornero is a minister in our republic gives me a deep sense of satisfaction. This is, nevertheless, independent of the controversy that surrounds her management of other policies that make up her multi-faceted ministry.

    I would like to conclude by underscoring that among the many battles that the African singer fights on behalf of her continent, there is the most important battle that underlies everything: the promotion of female education.
     

    Angelique Kidjo insists that education would radically change the face of Africa, thereby combating the poverty that allows it to remain backwards. Investing in culture is the first priority. I say, not only in Africa.

  • Opinioni

    Tutti con Angelique Kidjo. Con la sua Africa

    Tutti in piedi, di qualsiasi età, provenienza, colore, religione, status. Tutti in piedi per saltare e ballare cullati dalla voce di Angelique Kidjo. E non era in una sala concerti, o in uno stadio, un parco, e neanche in una piazza. Era nella storica General Assembly Hall delle Nazioni Unite.

    Più di una persona nel pubblico ha detto o si è chiesta l’altra sera: e se quest’atmosfera visitasse più spesso il Palazzo di Vetro? Aiuterebbe di certo.

    Angelique, una vera forza della natura, che con un mashup musicale di reggae, gospel, jazz, afrobeat,  ha travolto tutti e dimostrato, ancora una volta, che la musica non ha lingua. E’ una lingua che unisce tutto e tutti.
     

    “Raise Your Voice To End Female Genital Mutilation” era il titolo dell’evento, un concerto sponsorizzato dalla Rappresentanza Permanente d’Italia presso le Nazioni Unite, in collaborazione con UNICEF e UNFPA per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle mutilazioni genitali femminili.

    Io ero lì, seduta (poi in piedi a saltellare) tra i tanti, per ascoltare, dopo essere stata alla conferenza stampa del nostro Ministro Elsa Fornero e Angelique Kidjo. Dopo aver montato un video e, ovviamente, riscoltato i passaggi cruciali degli interventi delle due donne  e orgogliosa – lo confesso! – finalmente di chi mi rappresenta.

    E l’ho anche scritto d’impulso su Facebook: contenta prima come donna, poi come italiana. Qualcuno nel mio tread ha aggiunto: "io non sono italiana, ma mi sono sentita fiera come donna."

    Quando Angelique comincia a cantare mi rimprovero, fin dalle prime note, di non avere ora una telecamera per poterla riprendere. Non è stato un concerto come tanti.  Per fortuna è stato trasmesso in diretta webcast dall’ONU (e ‘rimbalzato’ anche da i-Italy) e lo potete rivedere ancora cliccando qui. Ma filmarla mentre ballava tra la gente, con una prospettiva ‘dal basso’, avrebbe mostrato meglio l’intensità del concerto. E’ un evento che avrebbe meritato uno sguardo diverso. Devo dunque usare solo le mie parole per descrivere una serata indimenticabile e soprattutto le emozioni

     

    Angelique Kidjo, cantante di origine beninese, vincitrice di un Grammy Award, è “Ambasciatore di buona volontà” per l’Unicef. Non sa solo cantare e ballare, sa toccare con le parole. Ha praticamente condotto la conferenza stampa, dove ho visto il nostro Ministro Fornero farle dolcemente, e volentieri, da spalla.
     

    Le sue parole efficaci perchè schiette, soprattutto nelle risposte ai giornalisti, al concerto hanno avuto il loro naturale sfogo. La sua voce, piena di mal d’Africa e di bene d’Africa, ha scosso, fin dalle prime note,  l’imponente sala delle Nazioni Unite. Insieme una gestualità, una fisicità così naturale e speciale ha trascinato l’immensa platea, e fatto alzare, ballare, anche persone insospettabili.
     

    Accanto alla battaglia per una causa, quella delle mutilazioni agli organi genitali delle donne, Angelique ha testimoniato anche l’orgoglio di essere donna. Lo ha fatto, a mio avviso, spiazzando tutti, nonostante le difficoltà nel suo Continente.
     

    E’ l’esempio (e ce ne sono tanti poco raccontati dai media) di una donna senza compromessi con questo mondo dell’immagine a cui sembra che nessuno si sappia sottrarre. Che differenza con ben altre cantanti e ballerine! Non parliamo poi di veline, X-Factor e simili. E’ un grande messaggio di semplicità ed eleganza. Fa riflettere, in tempi di globazzazione, che venga proprio dall’Africa.
     

    E’ una risposta a tanti cliché occidentali, ad un certo modo di apparire, ad un'immagine di un tipo di donna punto di riferimento ancora per tanti, soprattuto per i giovani.
     

    “Quando ho visto che la barbara pratica della mutilazione genitale femminile era un problema che affliggeva anche i Paesi europei, dentro di me è suonato un campanello d'allarme, bisognava fare qualcosa" ha dichiarato alla stampa di tutto il mondo Angelique. Lo hatto investendoci sopra - e si è visto -  testimoniando tutto l’orgoglio del suo Continente per arrivare all’approvazione di una risoluzione ONU contro questa pratica.
     

    Viene da una famiglia povera, con dieci figli. Ma quei pochi riferimenti a suo padre e sua madre nel suo intervento hanno lasciato trapelare una grande ricchezza, una saggezza che non ha prezzo. Una ricchezza fatta di dignità, lavoro, aiuto per gli altri, disponibilità. E la musica, quella vera, quella che non serve solo a vendere, che supera le barriere, lo abbiamo visto, vive dentro di lei.
     

    Petite Fleur, è il titolo di una canzone eseguita al concerto che ha rappresentato forse il momento più commovente. Angelique ha raccontato che la cantava suo padre e l’ha dedicata a tutte le piccole bambine offese dalla mutilazione dei genitali.
     

    Parlo di meno del Ministro Fornero, e sono sicura che non si offenderà. I riflettori in questi giorni qui sono stati puntati molto su di lei, sue dichiarazioni sono state riprese ovunque.
     

    Visto da New York, da vicino, il nostro ministro Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, con delega anche alle Pari Opportunità, ha condotto queste giornate all’Onu con grande intelligenza e professionalità, in maniera sobria, senza eccessivi protagonismi.

    Mentre assistevo alla sua conferenza stampa alle Nazioni Unite ho avvertito una forte attenzione e considerazione. A pochi giorni dalla Festa della donna, e anche dalla retorica che l’affligge dopo tanti anni dalla sua istituzione, porto con me questa bella sensazione. L’ho certo provata altre volte, per esempio con Emma Bonino, ma il fatto che Elsa Fornero sia un ministro della nostra Repubblica fa crescere la mia soddisfazione. Questo indipendentemente dal giudizio, ancora controverso, sulla sua gestione di altre politiche che fanno capo al suo multiforme Ministero.
     

    Voglio concludere ricordando che tra  le tante battaglie che la cantante africana conduce per il suo continente ce ne è una importante, alla base di tutto. Quella per la promozione dell'educazione femminile.
     

    Angelique Kidjo. insiste: la scolarizzazione cambierebbe radicalmente il volto dell'Africa. Combattere così la povertà che porta arretratezza. Investire sulla cultura prima di tutto. Io dico: non solo in Africa.

  • Op-Eds

    Breaking the Silence, Yet Again

    

ITALIAN VERSION >>

    There was music this time, notes that accompanied the voices of those who read. First names and last names filled the air amid the noise of wet and rainy New York City streets. Last names were repeated with different first names. In a few seconds a family tree was sketched; entire families were deported to and exterminated at Auschwitz and elsewhere. Fathers, mothers, children, sisters, brothers, grandchildren, grandfathers, grandmothers – individual lives that cannot be erased. 



    Musicians from New York and Italy – Brandon Ross, Lawrence "Butch" Morris, Avram Fefer, Marco Cappelli, Bernd Klug, Mauro Pagani– played gently, almost timidly allowing their notes to rest on those names.



    The reading of the names of Italian victims on Holocaust Remembrance Day on January 27 (Giornata della Memoria)has become a tradition in Italian New York. This year, on the 67th anniversary of the liberation of Auschwitz by the Red Army, diverse members of the Italian community, including Jews and diplomats, gathered at the Consulate General of Italy in the open garage on Park Avenue in front of podiums with sheets of paper containing thousands of names.



    This initiative is steadfastly supported by the Primo Levi Center (Centro Primo Levi) and former Consul General Francesco Maria Talò; this year it was directed by Consul General Natalia Quintavalle, who took office earlier this fall. It is an event that we here at i-Italy particularly value and have thus covered it for years, ever committed to amplifying its coverage. 



    We do so even as we are still often asked: “Why continue to read those names?” Others have also said: “What use is it to remember all of this?” This year some others even proclaimed: “Why should Italian-Americans participate in this ceremony?” And on January 27, an anonymous, unsigned letter with a strong anti-Semitic tone was sent to Professor Anthony Tamburri, Dean del Calandra Institute and editor of i-Italy, who has always been concerned about with these issues (see related article).



    They are, unfortunately, indicators of a latent indifference (let’s call it that) that is so very dangerous. And this is what drives me to write these notes in the margins on Holocaust Remembrance Day 2012 in New York City.

    Against indifference and forgetfulness 



    On January 27, 1945, the world was forced to open its eyes to the horror of the liberated Auschwitz concentration camp, a horror that had traversed an indifferent Europe. Most indifferent. Today are we really so immune to the risk of this same indifference?

Stella Levi, an Italian Jew deported from Rhodes and survivor of the Nazi death camps, was also present at the event this year. With her voice strong and feeble at the same time, she told me, “We were numbers. Hearing names instead of those numbers allows us to become men and women once again.” These words should be enough to explain the reason behind an event that aims to restore human dignity to people who were once considered numbers.

We cannot ignore that from year to year there are fewer and fewer victims and perpetrators left who can testify. January 27, therefore, is not only a tribute, a tradition, but also an invitation to learn. It is an opportunity to hear from people like Stella Levi, witnesses of an experience that we need to remember and identify as inhumane.

Beyond the words and rhetoric that come so easily on these occasions, the presence of the victims’ children and grandchildren attending this event signifies an investment in the hope for a better world.

    In addition to history books, there is the need to orally transmit this history through the generations for as long as possible – for the precise purpose of impeding those who credit new “historians” with denying the Holocaust and dangerously revising history. Ignorance leads to repeated mistakes and new horrors that once seemed impossible.
    Man may still be capable of perpetrating horror just as he can also create art. Let’s return to last Friday’s music, to the meaning it had and the meaning it held.

    Mauro Pagani, among the musicians who played, confessed: “I could not listen to the names; I had to concentrate on the notes. To think that all this has happened in Europe – the most cultivated place, the cradle of culture – less than 70 years ago, still makes me shudder.” 

Between memory, music, and the present, Stella Levi, sitting in a corner was listening to the musicians, too. “I went back in time, to when I was 19. I was there and they were playing,” she told me. In the midst of such horror, there was music. It seems impossible that the two could coexist. And yet it happened.

    Music was used to accompany rites of annihilation and to inspire the Nazis as they committed atrocities. But there was also the music that helped the deported to stem the hatred, to find a glimmer of humanity within the notes. They were musicians, but they were also prisoners without any musical training. “We sang so much,” Stella told me, “we sang in Italian and we played.”

    Between Italy and Italian America

    On Park Avenue, in the most Italian city outside of Italy and the most Jewish city outside of Israel, home to the U.N., where great diversity and multi-faceted contradictions coexist, curious passersby under umbrellas stopped in amazement, often fascinated, before these voices and live music. And here two communities, Jewish and Italian-American, whose stories have frequently intertwined here in New York, found a common voice. A common thread between them. The relationship between memory, truth, and denial. Albeit for different reasons. 

I would like to mention that the definitive manifesto for the new Italian-American intellectual was written in 1989. It broke the deafening silence present in large sections of the community on the subject of our own “racism” – especially in the days of violence following the murder of Black teenager Yusef Hawkins in Bensonhurst by a group of his peers, mostly Italian-Americans.

    In Breaking the Silence: Strategic Imperatives for Italian American Culture, Professor Robert Viscusi (who, incidentally, is also one of our most beloved bloggers) took that episode as a springboard to posit that “Italian America lacks a tradition of self-critical dialogue,” and propose a radical renewal of Italian American culture deeply rooted in knowledge without masking its historical experiences.



    The temptation, widespread in some Italian-American circles, is to insist on a singular narrative, one that is overwhelmingly positive and never self-critical. Here, too, there exists an aspect of “denial” – whether it is the Mafia as Roberto Saviano recently pointed out at conference at NYU, or Jersey Shore and the “Guido” phenomenon as we have analyzed at length here at i-Italy in a series of articles which are now collected in one volume. It’s the mistaken concept that anything that tarnishes the image of italianità at home or abroad should be eliminated or at least hidden from view. And so we are inundated by so many celebrations, really public self-congratulation, with a flurry of “good Italian people” that extends the tendency of denial to the responsibility of Italians for the Holocaust under Fascism. The anonymous letter that Professor Tamburri received demonstrates that this temptation exists not only in Italy, but also in Italian America.

    They are on different levels, of course, but they have something in common. One begins to forget the Holocaust and ends up forgetting the ancestors who arrived in the U.S. poor, weak, and acquiescent to criminality. The Italian journalist Gian Antonio Stella highlighted this in his famous book, which became a theatrical play that was recently revived in New York City: When the Albanians Were Us [Quando gli albanesi eravamo noi].

    He wanted to remind Italians – who, over the past decade, all too-often have been revealed as xenophobic although they are not overtly racist – that millions of our ancestors invaded America indeed as a “horde” of poor immigrants and that they were very often regarded with the same suspicion and fear with which many Italians now look at immigrants who arrive on our shores from Albania and North Africa.

 But how difficult is it to admit that we, too, were also “Albanians?” In wanting to forget our “Albanian-ness” we cultivate the seed of potential racism. As we strive to forget the Holocaust, we recreate the conditions for such madness to occur once more. This is why the presence of so many members of the Italian-American community in celebration of Holocaust Remembrance Day in New York City is especially important. Italy and Italian America come together on that day in the knowledge that the absence of memory is the negation of the future. This does not prevent us from objectively seeing that phenomenon in contrast, for example, to the many instances in which Italians helped Jews escape persecution – as Joshua Levi discusses in a touching article that i-Italy just published.

    Perhaps there is another Hitler today, someone who has a systematic plan to exterminate an entire race, but there are indicators of intolerance around the world, also within Italy. And there are also less overtly reprehensible attitudes, but they are still very dangerous simply because they are accepted. Creating ranks of illegal aliens in Italy harkens back to segregation; labeling a foreigner as dangerous just because he is from a poor country and closing restaurants because they are run by non-Italians are a few of the troubling symptoms precisely because they are supported by institutions on various levels, as has happened in a number of municipalities. It should not happen in Italy nor should it happen in America. And it should not happen in a major community within Italian America, precisely where its own “Albanian-ness” should be a stronghold for acceptance of the “Other.”

    I will never forget the veil of childhood sadness that I saw in Stella Levi’s eyes as she told me, under an umbrella with never ending rain pouring down around us, what she felt as a child when she was no longer allowed to go school with her classmates.

It happened. Under the powerlessness of many to stop it. It was a law of the Italian State. One of the first steps towards the horror.

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    "

Our voice, and that of our children, should serve to not forget and to not accept with indifference and resignation the renewed slaughter of innocents. We must lift the cloak of indifference that covers the pain of martyrs! My commitment in this sense is a duty to my parents, my grandfather, and all my aunts and uncles. It is a duty to the millions of Jews who “walked the path,” the Gypsies, children of a thousand countries but with no homeland, the Jehovah’s Witnesses, the homosexuals, and to the thousands and thousands of flowers raped, beaten, and slain in the wind of the absurd; it is a duty to all those stars in the universe that the evil of the world wanted to extinguish.... The liberated young people need to know, we need to help them understand that everything which was history is today history in the making, and it is it is eerily repeating itself.”

    Elisa Springer, The Silence of the Living [Il Silenzio dei Vivi]

  • Opinioni

    Rompere il silenzio, ancora

    ENGLISH VERSION >>

    C’era la musica questa volta. Note che volevano accompagnare le voci di chi leggeva. Cognomi e nomi  che spezzavano l’aria nel rumore umido di una  piovosa strada newyorkese.  Cognomi che venivano ripetuti insieme a nomi diversi.  In pochi secondi si delineava l’albero di intere famiglie deportate e sterminate ad Aushiwitz e non solo. Padri, madri, figli, sorelle, fratelli, nipoti, nonni, nonne…  Vite da non cancellare.

    Brandon Ross, Lawrence "Butch" Morris, Avram Fefer, Marco Cappelli, Bernd Klug, Mauro Pagani, musicisti newyorkesi e italiani, con discrezione quasi timida poggiavano le loro note accanto a quei nomi.

    Quella della lettura dei nomi delle vittime italiane della Shoa, il 27 gennaio, mentre in Italia si celebra la Giornata della Memoria, è ormai una ricorrenza fissa nella New York italiana.  Anche quest’anno dunque―nel sessantasettesimo anniversario dall'apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa―diverse componenti della comunità italiana, del mondo ebraico e diplomatico si sono raccolte al Consolato Generale d’Italia, nel garage aperto su Park Avenue, davanti a dei leggii su cui erano posati i fogli con migliaia di nomi.

    E’ un’iniziativa voluta fortemente dal Centro Primo Levi e dall’ex Console Generale Francesco Maria Talò, che quest’anno ha avuto come regista il nuovo responsabile del Consolato Generale di New York, Natalia Quintavalle, insediata da pochi mesi.

    Si tratta di un evento che noi ad i-Italy sentiamo in maniera particolare e seguiamo da anni, convinti che occorra amplificarne sempre di più la portata.

    Riteniamo di doverlo fare anche  perchè succede ancora di sentir dire: “perchè continuare a leggere quei nomi?”.  Mentre qualcun altro aggiunge: “ma a cosa serve far ricordare tutto questo?”

    Quest’anno c’è stato addirittura chi si è chiesto: perchè gli italoamericani dovrebbero partecipare a questa cerimonia? E, a ridosso del 27 gennaio, un anonimo ha inviato una lettera non firmata dal forte sapore antisemita al Professor  Anthony Tamburri, Dean del Calandra Institute ed editor di i-Italy, da sempre impegnato su questi temi (vedi articolo correlato).

    Sono tutte spie di una latente indifferenza (chiamiamola così) molto pericolosa. Ed è questo che mi spinge a scrivere queste note a margine di questa Giornata della Memoria 2012 a New York.

    Contro l’idifferenza e la dimenticanza

    Quel 27 gennaio 1945 il mondo fu obbligato ad aprire gli occhi di fronte all’orrore del campo di Auschwitz liberato, un orrore che aveva attraversato un’Europa indifferente. Indifferente appunto. Siamo davvero immuni oggi da questo rischio di indifferenza?

    Stella Levi, una degli ebrei italiani deportati da Rodi e sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, era presente anche quest’anno all’evento e con la sua voce forte e flebile al tempo stesso mi ha detto: “Noi eravamo numeri, sentire dei nomi al posto di quei numeri, ci fa ridiventare uomini e donne”. 

    Basterebbero queste parole per spiegare il perchè di un evento che restituisce dignità umana a persone che erano considerate numeri.

    Non dimentichiamo poi che di anno in anno sono sempre meno le vittime ed i carnefici in grado di testimoniare.  Quello del 27 gennaio, quindi, non è solo un omaggio, un’abitudine, ma  è anche un invito ad apprendere.  Anche un’occasione da condividere con persone come Stella Levi, testimoni di un’esperienza che dobbiamo definire inumana.

    Al di là delle parole, della retorica così facile in queste occasioni, far assistere i propri figli, i propri nipoti, a un’iniziativa così significa investire nella speranza di un mondo migliore. Ancora prima dei libri di storia, c’è bisogno di questo passaparola generazionale, finchè è possibile. Proprio per impedire che si dia credito a quei nuovi “storici” che oggi negano, caricandoci di pericolose riletture.

    L’ignoranza porta a ripetere errori ed orrori che sembravano impossibili.  L’uomo può esserne ancora capace, così come è in grado di creare anche meraviglie.

    E torniamo alla musica dello scorso venerdì. Al significato che ha avuto e che aveva.

    Mauro Pagani, tra i musicisti che sono intervenuti, mi ha confessato: “Non potevo ascoltare quei nomi, ho dovuto pensare solo a suonare. Riflettere sul fatto che tutto questo è successo nell’Europa più colta, culla della cultura,  solo settanta anni fà, ancora mi fa rabbrividire”.

    Tra memoria, musica e presente, Stella Levi, seduta in un angolo ascoltava anche lei i musicisti.  “Sono tornata indietro, a quando avevo 19 anni ero lì e suonavano”, mi ha detto. 

    Cosi mentre Mauro Pagani si doveva in un certo senso deconcentrare dal contesto per suonare, Stella Levi tornava indietro con la memoria a quel campo dove accanto all'orrore c'era anche la musica.

    Sembra impossibile che le due cose possano coesistere. Eppure è successo.

    C’era quella musica che l’orrore ha saputo usare per accompagnare in maniera incalzante i riti dell’annientamento a cui si ispiravano i nazisti.

    Ma c’era, va ricordato, anche la musica che ha aiutato i deportati ad arginare l’odio, a cercare nelle note un barlume di umanità. Erano musicisti, ma anche prigionieri senza specifica preparazione musicale. “Cantavamo tanto―mi ha deto Stella―cantavamo in italiano e suonavamo.”  

    L’incontro tra due comunità

    Su Park Avenue, nella città più italiana fuori dall’Italia e più ebraica fuori da Israele, dove ha sede l’ONU, dove coesistono profonde diversità e molteplici contraddizioni, curiosi con l’ombrello si sono fermati stupiti, spesso assorti, davanti a queste voci e alla musica live. E qui due comunità, quella ebraica e quella italoamericana, che hanno spesso intrecciato le loro storie qui a New York, hanno trovato una voce comune. Tra loro un filo rosso. Quello del rapporto tra memoria, verità e negazione. Sia pure per ragioni diverse.

    Vorrei ricordare che il vero e proprio manifesto della nuova intellettualità italoamericana nacque nel 1989 per rompere l’assordante silenzio che si era creato in ampi settori della comunità sul tema del nostro stesso “razzismo”―nei giorni di violenza che seguirono l’omicidio dell’adolescente nero Yusuf Hawkins a Bensonhurst da parte di un gruppo di suoi coetanei, in gran parte italoamericani. In “Breaking the Silence: Strategic Imperatives for Italian American Culture,” il prof. Robert Viscusi (per inciso, anche lui uno dei nostri bloggers più amati) prendeva le mosse da quell’episodio per sostenere che “all’America italiana manca una tradizione dialogica autocritica,” e proporre un radicale rinnovamento della cultura italoamericana fortemente radicato nella conoscenza senza veli della propria esperienza storica.

    La tentazione, diffusa in alcuni ambienti italoamericani, di insistere su di un racconto solo positivo, mai autocritico, è nota: ed è un aspetto anche qui di “negazionismo”―che si tratti della Mafia, come ha ricordato recentemente Roberto Saviano in una conferenza alla NYU, o di Jersey Shore e del fenomeno dei “Guidos”, coma abbiamo a lungo analizzato su i-Italy in una serie di articoli ora raccolti in un libro.

    Tutto ciò che può offuscare l’immagine dell’italianità, in patria come all’estero, andrebbe eliminato, quanto meno celato. E  così siamo stati invasi da tante celebrazioni, anzi autocelebrazioni, in un vortice di italiani “brava gente,” che estende la tentazione negazionista anche alle responsabilità degli italiani sotto il fascismo nei confronti della Shoah. La lettera anomima ricevuta dal Professor Tamburri dimostra che questa tentazione esiste non solo in Italia, ma anche nell’America Italiana.

    L’Italia e l’America Italiana

    Sono piani diversi, certo, ma hanno qualcosa in comune. Si comincia a dimenticare la Shoah e si finisce per dimenticare di essere arrivati negli USA poveri, deboli e facilmente assoggettabili alla crimanilità.  Il giornalista del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella, aveva sottitolato un suo libro molto famoso: “Quando gli albanesi eravamo noi.”  Voleva ricordare agli italiani―che troppo spesso nell’ultimo decennio si sono scoperti xenofobi quando non apertamente razzisti―quei milioni di nostri antenati che avevano invaso l’America come un’ “Orda” di immigranti poveri appunto, e molto spesso guardati con la stessa diffidenza e paura con cui oggi molti italiani guardano agli immigrati che approdano sulle nostre spiagge dall’Albania, dall’Africa del Nord.

    Ma quanto è difficile ammettere di essere stati anche noi “albanesi”? Nel voler dimenticare la nostra albanesità coltiviamo il germoglio di un possibile razzismo. Così come nel voler dimenticare la Shoah ricreiamo le condizioni perchè possa ripertersi la follia. Ecco perchè la presenza di tanti esponenti della comunità italiamericana nella celebrazione del Giorno della Memoria a New York ci è sembrata particolarmente importante.

    L’Italia e l’America Italiana si sono unite in quel giorno nella consapevolezza che l’assenza di memoria è la negazione del futuro. Il che non ci impedisce di vedere con obiettività anche quei fenomeni in controtendenza, come l’aiuto prestato da diversi italiani agli ebrei che cercavano di sottrarsi alla persecuzione―ne parla ad esempio su i-Italy Joshua Levi in un toccante articolo che abbiamo appena pubblicato.

    Forse non c’è un altro Hitler oggi, qualcuno che abbia un progetto sistematico di sterminio di un’intera razza, ma ci sono spie di intolleranza in tutto il mondo, anche in Italia. E ci sono anche atteggiamenti apparentemente meno riprovevoli ma molto pericolosi, soprattutto perchè condivisi. Creare delle classi per extracomunitari in Italia ricorda il segregazionismo, etichettare come pericoloso un cittadino straniero solo perchè viene da un Paese povero,  chiudere dei locali di ristorazione perchè tenuti da non italiani, sono solo alcuni dei sintomi preoccupanti anche perchè supportati da istituzioni di diverso livello, come è accaduto in alcuni Comuni. Non deve accadere in Italia, non deve accadere in America. E non deve accadere a maggior ragione nell’America italiana, che proprio in ragione della sua “albanesità” dovrebbe essere una roccaforte dell’accettazione dell’Altro.

    Non dimenticherò mai quel velo di fanciullesca tristezza che ho visto negli occhi di Stella Levi quando mi ha raccontato cosa ha provato quando era bambina e non le hanno permesso più di andare nella scuola dove andavano i suoi amichetti.

    E’ successo. Sotto l’impotenza di molti.  Era anche una legge dello Stato italiano. Uno dei primi passi verso l’orrore.

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    "La nostra voce, e quella dei nostri figli, devono servire a non dimenticare e a non accettare con indifferenza e rassegnazione, le rinnovate stragi di innocenti. Bisogna sollevare quel manto di indifferenza che copre il dolore dei martiri! Il mio impegno in questo senso è un dovere verso i miei genitori, mio nonno, e tutti i miei zii. E’ un dovere verso i milioni di ebrei ‘passati per il camino ‘, gli zingari, figli di mille patrie e di nessuna, i Testimoni di Geova, gli omosessuali e verso i mille e mille fiori violentati, calpestati e immolati al vento dell’assurdo; è un dovere verso tutte quelle stelle dell’universo che il male del mondo ha voluto spegnere… I giovani liberi devono sapere, dobbiamo aiutarli a capire che tutto ciò che è stato storia, è la storia oggi, si sta paurosamente ripetendo."

    Elisa Springer, Il Silenzio dei Vivi

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